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VITA DI GUARINO VERONESE


REMIGIO SABBADINI

VITA
DI
GUARINO VERONESE

GENOVA
TIPOGRAFIA DEL R. ISTITUTO SORDO-MUTI
1891


Estratto dal Giornale Ligustico, anno XVIII.


INDICE

Vita di Guarino Veronese
Primi anni e primi studi di Guarino
Guarino a Costantinopoli
Guarino a Firenze
Guarino a Venezia
Guarino a Verona
Guarino a Ferrara — Primo quinquennio
Guarino a Ferrara — Secondo quinquennio
Guarino a Ferrara — Ultimo ventennio
Indice dei nomi


[3]

VITA DI GUARINO VERONESE

Questa Vita è condotta sull'Epistolario inedito di Guarino. Non vi ho apposto note, perchè ne avrebbero accresciuto smisuratamente il volume; dall'altra parte è stato mio intendimento di dare al racconto biografico una forma, per quanto era in me, artistica, liberandolo da ogni ingombro di citazioni e di discussioni e mantenendolo, possibilmente, sempre oggettivo.

Le molteplici relazioni di Guarino col suo tempo, raccolte in gruppi di maggiore o minor numero di anni, sono state ora intrecciate con la biografia, ora rappresentate separatamente, secondo l'opportunità. Da esse si vedrà come Guarino e il suo secolo si illustrino vicendevolmente, ma senza che la personalità Guariniana ne rimanga scemata o sopraffatta.

[4] Nella storia dell'umanismo Guarino è una delle più grandi e simpatiche figure; se io sia riuscito a ricomporla nella sua nativa interezza, tocca al lettore il dirlo; a me basta la coscienza di avere a questa ricomposizione consacrato non piccola parte della mia vita e sofferto per essa «fami, freddi e vigilie».

Catania 16 ottobre 1890.

R. Sabbadini.

[5]

Primi anni e primi studi di Guarino. (1374-1402)

1. Da donna Libera e da mastro Bartolomeo dei Guarini nacque Guarino in Verona nel 1374, l'anno della morte di Francesco Petrarca. Dalla patria egli desunse il soprannome di Veronese. Aveva un fratello, Lorenzo, il quale un bel giorno scomparve da Verona, senza che la famiglia ne avesse poi più notizie. Rimasero i due fratelli sin dai teneri anni orfani del padre. A Guarino l'immagine paterna tornava alla mente come una nebbia e un sogno. Bartolomeo prese parte alla guerra combattuta nel 1386 tra Francesco da Carrara, signore di Padova, e Antonio della Scala, signore di Verona, la quale finì miseramente con la disfatta dei Veronesi nella battaglia del 25 giugno presso a Padova. Le soldatesche veronesi erano guidate da Cortesia Serego, capitano che a dir di Guarino «di battaglie non se ne intendeva se non per quanto le avea lette nei libri o vedute nei quadri». Mastro Bartolomeo fu fatto prigioniero con altri ottomila e morì poco dopo tra i nemici. Allora Guarino era appena dodicenne. I due figli rimasero sotto la cura della madre Libera «il modello delle mogli e delle vedove», la quale da quel dì in poi si consacrò tutta alla loro educazione.

2. Guarino fece i primi suoi studi naturalmente in Verona, dove ebbe forse maestro di filosofia morale Paolo de Paolinis e condiscepoli il Maggi e Giannicola Salerno, più giovani di lui, quegli stessi ai quali fu più tardi in Verona venerato maestro. Dai suoi compagni fu subito stimato ed amato per la sua bontà d'animo e per l'attività. Aveva ingegno svegliato, memoria pronta e, ciò che soprattutto piace in un fanciullo, [6] bel modo di porgere e di recitare, nel che egli ammirava tanto il suo maestro Crisolora. Era inoltre molto temperante e questo contribuì a renderlo forte a sostenere le fatiche dello studio, al quale egli si sentiva irresistibilmente chiamato. E siccome Verona non poteva offrir mezzi più che per una educazione elementare, Guarino dovette recarsi altrove a sentire dotti maestri, visitando a tale scopo «molti luoghi d'Italia».

3. Fra quei «molti luoghi» va compresa la città di Venezia, nella quale egli «gettò le prime basi del suo vivere, dei suoi costumi e della sua educazione» e dove ebbe la fortuna d'incontrarsi nell'illustre patrizio Paolo Zane, che, ripromettendosi molto dall'ingegno e dall'attività di lui, lo prese a ben volere e gli fu largo di incoraggiamenti e di sovvenzioni. E fra quei «molti luoghi» va compresa soprattutto Padova, che allora come oggi era centro degli studi per quelle provincie che noi chiamiamo venete. A Padova teneva scuola di retorica un illustre maestro, Giovanni da Ravenna, cancelliere dei Carraresi. Tra gli allievi del Ravennate dovette Guarino avervi trovati molti dei suoi Veronesi, come Luigi Cattaneo, molti dei Veneziani, come Girolamo Donati; ci dovette avere trovato lo Zabarella, Pier Paolo Vergerio, il Polenton, Ogniben Scola e altri.

4. La scuola del Ravennate a Padova non era umanistica; l'umanismo penetrò a Padova nel 1408 col Barzizza. Il latino del Ravennate era quello dei teologi e dei giuristi, latino che più tardi chiamarono barbaro e del quale Guarino ci dà questo saggio assai istruttivo: «Vobis regratior quia de concernentibus capitaniatui meo tam honorificabiliter per unam vestram litteram vestra me advisavit sapientitudo». Guarino stesso nelle sue lettere adoperava il latino barbaro; di che lo rimproverava più tardi il figlio Niccolò, a cui era capitata fra mano alcuna di quelle antiche lettere del padre.

[7] 5. Terminati gli studi, si trasferì a Verona e ivi aperse una scuola privata. Fra i suoi allievi di quel tempo fu certamente Guglielmo della Pigna veronese. Costui nel 1413 si dottorò in giurisprudenza a Padova e prima di quell'anno era stato alunno di Guarino: ciò non potette essere che in Verona, perchè il Pigna non fu mai a Firenze.

6. Anche a Verona la cultura era al medesimo livello di Padova; l'umanismo in Verona fu portato solo da Guarino nel 1419. Però non mancava in questa città, alla fine del secolo XIV e al principio del XV, una classe di persone studiose; e' era Marzagaia, morto assai vecchio tra il 1431 e il 1432, che godeva la stima di Guarino, maestro di grammatica e autore della voluminosa opera De modernis gestis foggiata su quella di Valerio Massimo; c'erano alcuni della famiglia Nogarola, la quale pare si fosse messa a capo di un certo movimento letterario. Due Nogarola meritano particolare menzione, Angela e Giovanni: quella zia, questo zio delle famose sorelle Ginevra e Isotta.

7. Angela Nogarola, che deve aver vissuto parte a Verona, parte a Vicenza, scriveva versi latini, coi quali essa si indirizzava ai principi di quel tempo, come Pandolfo Malatesta, Giacomo da Carrara, Giangaleazzo Visconti; ai letterati, soprattutto vicentini, come Niccolò Facino, Antonio Loschi, Matteo Orgian. Reminiscenze classiche se ne incontrano, p. e. di Vergilio, Orazio, Ovidio, Lucano, ma il suo stile non è classico e i versi rimati attestano quell'indirizzo ancora barbaro, del quale si piaceva tanto il suo corrispondente vicentino Matteo Orgian. Troviamo in lei anche qualche reminiscenza petrarchesca, il che prova che essa non rimase estranea all'influenza del Petrarca.

8. Maggiore influenza senza confronto esercitò il Petrarca su Giovanni Nogarola, ma non però il Petrarca latinista, sibbene il Petrarca rimatore. Giovanni venne creato cavaliere [8] nel 1404 insieme con l'amico Giannicola Salerno; nel 1408 era tra i consiglieri della sua città. Fu guerriero, poeta e congiurato.

9. Nel 1405 Verona dal dominio degli Scaligeri era passata a quello della repubblica di Venezia. Il mutamento non dispiacque alla maggioranza dei Veronesi, i quali furono da allora in poi tra i più fedeli sudditi della Serenissima; ma rimase sempre in Verona un partito, che agognava il ritorno all'antico dominio. Alla testa di quel partito si mise nel 1412 Giovanni Nogarola, approfittando forse delle tristi condizioni in cui versava il governo veneto per l'invasione degli Ungheri. Ma il tentativo finì miseramente per il Nogarola, il quale fu preso e nel 28 decembre dell'anno stesso condannato e nel gennaio 1413 decapitato in Venezia.

10. È strano trovare stoffa di congiurato in un poeta amoroso petrarcheggiante. I congiurati del secolo XV furono umanisti, che s'ispiravano ai sentimenti attinti agli autori romani. Può darsi del resto che il Nogarola abbia nel Petrarca, oltre che il poeta amoroso, studiato e ammirato anche il poeta civile e che abbia esercitato sul suo animo una certa influenza pure Cola di Rienzo. In ogni modo il Nogarola ha anche cultura classica, come appare da qualcuna delle sue poesie volgari.

11. Le poesie volgari del Nogarola, le quali ci sono arrivate in buon numero, sono foggiate su quelle del Petrarca. Sono per la maggior parte sonetti con qualche sestina e qualche canzone. Dal Petrarca, oltre il nome di Laura, i pensieri, le strutture, toglie anche i versi interi. La sua lingua ha molti elementi veneti.

12. Nè il Nogarola era solo in Verona; altri Veronesi poetavano in volgare, p. e. suo fratello Leonardo, il conte Gregorio dal Verme, Tebaldo Broglio e Giannicola Salerno. Del Broglio sappiamo soltanto che nel 1405 fu dei commissari [9] i quali andarono a Venezia a far atto di sudditanza in nome di Verona al governo della Serenissima. Ben più conosciuto è il Salerno, nato nel 1379 e morto nel 1426: buon letterato e magistrato. Con tutti questi veronesi il Nogarola corrispondeva in rima. Di qualcuno di essi abbiamo anche le risposte, come del Salerno, il quale oltre alla poesia amorosa coltivava pure la satirica.

13. Il Nogarola carteggiava anche con amici di fuori, quali Antonio Loschi, Antonio Alvaroto e Tommaso Cambiatore. Con questi due ultimi corrispondeva in rima. Antonio Alvaroto era un valente giureconsulto padovano, al quale sono indirizzati molti sonetti; ma non ci pervenne nessuna sua risposta. Risposte e non poche abbiamo invece del Cambiatore, che era amico del Salerno, poichè alcuni sonetti sono dal Nogarola indirizzati in comune al Cambiatore e al Salerno.

14. Il Cambiatore è un uomo di qualche importanza. Nacque a Reggio e studiò a Pavia sotto il Pinotti, zio materno. Fu giurista e magistrato. Si occupava soprattutto di studi morali e di poesia volgare. Nella poesia è petrarcheggiante. Tradusse in ottave l'Eneide. Morì tra il 1451 e il 1456. Insegnò legge a Padova nel 1409; e fu probabilmente allora che conobbe il Nogarola. Era amico del suo concittadino Galasso conte di Correggio, cultore degli studi cavallereschi. Teneva commercio epistolare col modenese Gaspare Tribraco, col Bruni a Firenze, col quale discuteva di questioni morali, con Pier Candido Decembrio a Milano, al quale si raccomandava per un impiego presso il Visconti, e con Guarino.

15. Di buona parte di questi rimatori era amico Guarino; ma non pare che egli poetasse in volgare; egli batteva altra via, la via degli studi antichi. A lui più che il Petrarca rimatore dovette dare nell'occhio il Petrarca umanista. Ma più di tutto attrassero l'attenzione di lui il nome e la fama di un grande [10] straniero, del quale si parlava molto allora in Italia: il greco Manuele Crisolora.

16. Il Crisolora era capitato a Venezia nel 1396 con una ambasciata dell'imperatore di Costantinopoli; ma invece di parlare di politica, incominciò a parlare di letteratura. Spirava per l'aria un nuovo e forte risveglio degli studi classici; per il latino l'Italia potea bastare da sè, ma per il greco aveva bisogno di un maestro. Quale più bella occasione del Crisolora, venuto quasi per miracolo in Italia? Ne approfittò subito Firenze, dove il Salutati alimentava la sacra scintilla suscitata dal Petrarca; e nel 1397 Firenze aveva già il Crisolora professore di greco.

17. Tre anni insegnò il Crisolora a Firenze. Nel 1400 arrivò in Italia il suo imperatore, che faceva un viaggio politico per le corti di Europa. Gli si accompagnò, cogliendo quel pretesto per fuggire la pestilenza che infestava Firenze e anche per trarsi da una posizione ambigua, che gli era stata creata in quella città da un certo raffreddamento degli animi.

18. Col seguito dell'imperatore si trasferì alla corte del Visconti in Milano. Di là l'imperatore proseguì il suo viaggio diplomatico per la Francia e il Crisolora si fermò, invitato dal duca Giangaleazzo, protettore delle lettere, a dare un corso di retorica e di greco nello Studio di Pavia. Giangaleazzo aveva fatto pratiche col Crisolora per chiamarlo a Pavia sin da quando egli insegnava a Firenze. Fra gli scolari di Pavia ebbe Uberto Decembrio, segretario del candiotto Pietro Philargis, allora vescovo di Novara, più tardi arcivescovo di Milano e nel 1409 papa col nome di Alessandro V. Aveva il Crisolora tradotta letteralmente in latino la Repubblica di Platone; su quella traduzione letterale Uberto ne stese una un po' più elegante. Più tardi, nel 1438, la traduzione fu ripigliata da Pier Candido figlio d'Uberto e ridotta a forma [11] assai migliore. Pier Candido era allora bambino di due o tre anni, eppure la «figura angelica», come egli la chiamava di poi, del Crisolora gli rimase così impressa, che non se ne dimenticò mai.

19. Guarino contava omai ventott'anni. Che aveva egli fatto sino allora di buono? Quel poco di latino barbaro imparato a Padova era ben meschino acquisto per uno, come lui, che si sentiva dentro un irresistibile impulso a progredire. Capì che senza il greco non avrebbe conchiuso nulla e perciò prese una energica risoluzione.

20. Morto nel settembre 1402 Giangaleazzo Visconti, il Crisolora lasciò Pavia e si riunì a Venezia all'imperatore greco, che nei primi mesi del 1403 tornato dalla sua visita alle corti di Europa riprendeva la via dell'Oriente. Migliore occasione non poteva offrirsi a Guarino. Ed egli l'afferrò senza esitanza e si accompagnò al Crisolora per imparare da lui il greco.

Guarino a Costantinopoli. (1403-1408)

21. E qui comincia la vita nuova di Guarino. Egli forse trovavasi a Venezia quando vi arrivarono contemporaneamente l'imperatore dal suo viaggio diplomatico e il Crisolora da Pavia. Si accompagnò dunque al Crisolora e con esso salpò da Venezia per Costantinopoli.

22. Le spese del viaggio le pagò a Guarino Paolo Zane, se pure non se lo prese egli con sè, perchè lo Zane aveva per conto proprio e per conto della repubblica veneta continue occasioni di andare in Grecia. Arrivato a Costantinopoli, Guarino fu ospitato in casa dello stesso Crisolora, dove egli servì come domestico, mancandogli certamente il danaro per [12] pagare la pensione. E non ebbe a pentirsene, poichè così trattando anche con la gente bassa potè formar meglio l'orecchio alla lingua greca.

23. Due erano in quel tempo i Crisolora a Costantinopoli: Manuele e Giovanni, quello zio, questo nipote. Tutti e due furono maestri di Guarino. La famiglia dei Crisolora era nobilissima e imparentata con la dinastia dei Paleologi allora regnante. Per mezzo del Crisolora fu Guarino introdotto nella famiglia imperiale, dove trovò cortese accoglienza e fu preso a ben volere, specialmente da Giovanni, figlio dell'imperatore ed erede al trono. Gli venne anzi offerta dall'imperatore una posizione stabile a Costantinopoli, che egli però rifiutò.

24. La casa del Crisolora era in un amenissimo sito e Guarino ricorda con affetto i cipressi e l'orto pensile, dove andava spesso a studiare. Grande ammirazione poi destò in lui «la città regale coi suoi due mari, coi suoi sontuosi edifici, coi suoi monumenti d'arte;» e molto diletto prendeva nel sentire dalle bocche dei bambini e delle popolane uscire tanto fresca ancora e così grammaticalmente conservata la lingua di Demostene e di Senofonte, egli che nel suo volgare italiano non aveva riconosciuto più nessuna traccia dell'antica struttura grammaticale latina.

25. Manuele Crisolora andava e veniva spesso da Costantinopoli a Venezia per commissioni dell'imperatore; in quelle assenze Guarino frequentava la scuola del nipote di lui Giovanni. I primi anni del soggiorno di Costantinopoli furono da Guarino dedicati interamente allo studio; ma poi dovette pensare anche al proprio sostentamento e fu allora che si mise ai servizi del suo protettore Paolo Zane. E infatti in un documento del 1406 incontriamo Guarino con la qualità di notaio e cancelliere dello Zane. In quel tempo ottenne pure una magistratura a Scio. È ovvio supporre che Scio, sotto lo giurisdizione di Venezia, fosse in uno di quegli anni [13] governata dallo Zane e che Guarino lo seguisse come segretario.

26. Frutto degli studi di Guarino in Costantinopoli furono alcune epistole in verso e in prosa e qualche traduzione dal greco 9 come la Vita di Alessandro di Plutarco e la Calunnia di Luciano. La Calunnia fu da lui mandata da Costantinopoli al patrizio veneziano Giovanni Quirini. Tra le famiglie veneziane con cui era in intima relazione va ricordata quella dei Barbaro, che ebbe poi tanta parte nelle vicende della sua vita. Prima di partire per Costantinopoli aveva conosciuto i fratelli Zaccaria e Francesco, quest'ultimo fanciulletto ancora e che fu più tardi uno dei suoi più illustri scolari. Nel 1408 Francesco aveva manifestato il desiderio di percorrere la via degli studi; era da poco venuto a Padova Gasparino Barzizza, il Nestore dei maestri di quel tempo, e il Barbaro si preparava a frequentare la sua scuola. In Venezia però, dove si aveva più fiducia nel traffico che nella letteratura, il Barbaro veniva censurato, anzi beffato della sua risoluzione. Egli si difendeva mettendo innanzi l'esempio di Guarino e a lui scrisse dimandandogli un consiglio.

27. Guarino gli rispose incoraggiandolo a secondare imperterrito la propria vocazione e a non curarsi dei sarcasmi della gente profana e dedita all'interesse materiale: «essere le ricchezze un possesso labile, sola la cultura non andar soggetta a perdersi; che il solo vero bene è la virtù e che il sapiente è il re dell'universo». La lettera è infiorata di citazioni da Cicerone, Vergilio, Ovidio, Esiodo, Plutarco. Nello stile molto impacciato si nota un abuso di metafore. La conclusione è che egli anela il momento di abbracciare e baciare il suo Francesco e che tra poco tornerà sano e salvo, ma con la borsa vuota: spera in lui e negli amici per trovare una occupazione da campar la vita.

28. Nel 1408 dunque Guarino tornò da Costantinopoli. [14] Ma la trovò l'occupazione desiderata? Forse egli contava di trovarla in Venezia, ma s'ingannò. Qualche mese si sarà ivi fermato e non più; nel 1409 egli era in Verona sua patria, dove recitò il discorso di congedo per il podestà Zaccaria Trevisan. Però nemmeno a Verona si poté collocare; e allora tentò una nuova via: andò a Bologna. A Bologna risiedeva la curia pontificia: chissà che non l'attendesse colà la sua fortuna? Vi arrivò nel febbraio del 1410.

29. Vi arrivò in compagnia di due greci: Demetrio e Giovanni. Demetrio è quel Cidonio, che accompagnò sempre il Crisolora e che forse il Crisolora nel partire il 1408 per la Francia aveva lasciato a Venezia, con l'ordine di attenderlo colà o altrove. Chi fosse Giovanni, il cavaliere greco, non so: pare che dovesse portar dei libri e invece non portò che le sue vesti alla foggia greca, bizzarre, da quanto sembra, e che eccitavano l'ilarità nella moltitudine e nella curia.

30. La curia raccoglieva in quel tempo i migliori elementi della classe letterata d'Italia. Non vi si trovavano più i tre Veneti Zaccaria Trevisan, Marino Caravello e Pietro Miani, ma c'erano il Rustici e Bartolomeo da Montepulciano. C'era Bartolomeo della Capra, cremonese, vescovo allora della sua città, poi di Pavia e da ultimo arcivescovo di Milano, buono scopritore di codici; c'era Antonio Loschi, già famoso umanista; c'era lo Zabarella, arcivescovo e poi cardinale di Firenze, valente maestro e cultore di filosofia. Ma i due più belli ornamenti della curia erano certo il Poggio, sempre sbadato e distratto, a cui gli ozi di Costanza riserbavano così splendida fama, e il Bruni, che sino allora aveva sviluppata la sua operosità specialmente nella filosofia e nelle traduzioni dal greco.

31. In mezzo a questa gaia e colta società entra, novello ancora, Guarino, quantunque non per tutti novello; qualcuno era sua vecchia conoscenza dei tempi che era stato scolaro [15] in Padova, come lo Zabarella. E poi lo precedeva una valida raccomandazione, l'essere stato alunno del Crisolora in Costantinopoli. Al Bruni fece sopra tutti ottima impressione ed egli ce lo presenta senz'altro come giovane dottissimo. Così Guarino potè stringere sin d'allora con gli umanisti della curia quell'amichevole relazione, che crebbe poi negli anni successivi per reciproca stima e scambio di lavoro letterario.

32. Al Bruni venne subito in mente che Guarino sarebbe stato un ottimo acquisto per lo Studio fiorentino e infatti ne scrisse al Niccoli facendogliene la proposta. La proposta fu subito accettata, perchè dopo non molti giorni il Bruni riscriveva al Niccoli annunziandogli prossima la venuta di Guarino a Firenze.

Guarino a Firenze. (1410-1414)

33. Guarino pertanto nel marzo 1410 andò a Firenze, dove iniziò la sua lunga e famosa carriera didattica. Ivi trovò buona accoglienza e schietti amici e valenti scolari. Antonio Corbinelli gli offrì la propria casa, nella quale Guarino divise col suo ospite liberale «gli studi, i pensieri, il vitto, il sonno, i discorsi». Un amico sincero ebbe nell'«ottimo e generoso» Palla Strozzi, con cui lavorava in comune. Era in buoni rapporti con Angelo Corbinelli, «esemplare come uomo di stato e come educatore dei propri figliuoli;» con Paolo Fortini cancelliere della repubblica; con Roberto Rossi traduttore di Aristotele; con Antonio Aretino già magistrato a Vicenza, con Biagio dei Guasconi, con Girolamo Barbadoro, con la famiglia Boninsegni, col monaco Ambrogio Camaldolese. Tra i suoi migliori scolari di Firenze vanno ricordati i due Corbinelli e Giovanni Toscanella.

[16] 34. Oltre di questi amici c'erano in Firenze alcuni veronesi, come Luigi Cattaneo, che fu in Firenze giudice della mercanzia nel 1411, e il Giuliari, suo segretario. Nella metà poi del 1413 la vita letteraria a Firenze si dovette maggiormente animare per la presenza della corte di Giovanni XXIII; sebbene egli non potesse entrare in città, dove entrarono però quelli del suo seguito. Qui rivide Guarino tutti gli amici che aveva imparato a conoscere in Bologna e rivide anche il venerato suo maestro Crisolora.

35. Con la società letteraria del resto che si raccoglieva intorno al pontefice negli anni che la curia stette a Roma (1411-1413) Guarino era da Firenze in continua corrispondenza, specialmente col Crisolora. Il Crisolora, venuto la prima volta a Roma con Giovanni XXIII nel giugno del 1411, rimasto ammirato della grande metropoli dell'Occidente, approfittando dei suoi ozi scrisse una dissertazione dove mise Roma a raffronto con Costantinopoli, la grande metropoli dell'Oriente, e ne mandò una copia a Guarino. Guarino gli rispose ringraziandolo e facendo le sue lodi.

36. Oltre che con la società letteraria a Roma, Guarino entrò per mezzo di un suo vecchio amico in relazione con quella di Rimini, che metteva capo al marchese Carlo Malatesta, «eroe della penna e della spada»; con lui Guarino avviò scambio di libri.

37. Ma molto più vivi sono i rapporti di Guarino coi tre centri letterari del Veneto: Verona, Padova, Venezia. I due veronesi Guglielmo della Pigna e Luigi Cattaneo lo tenevano in relazione con la società di Verona. Il Cattaneo studiava legge a Padova. A Padova regnavano allora Gasparino Barzizza bergamasco e un condiscepolo di Guarino, Ogniben Scola padovano, intorno ai quali si raccoglieva tutta l'attività letteraria. Lo Scola specialmente era di una grande versatilità e, si direbbe, elasticità. Corrispondeva col Bruni e con lo [17] Zabarella, che erano presso la curia papale, e con Antonio Capodiferro; coi veronesi Giovanni Nogarola, Paolo Maffei, Luigi Cattaneo, il Giuliari; coi veneziani Giovanni Micheli, Niccolò Contarini, Marco Lippomano, Pietro Donati, allora (1412) protonotario e più tardi arcivescovo di Creta, e coi due Barbaro, Francesco e Ermolao, zio e nipote: Francesco giovinetto di ottime speranze, Ermolao poco più che bambino d'ingegno precoce.

38. Con questa società gaia, mobile, studiosa aveva strettissimi legami Guarino. Erano suoi amici tutti, che aveva avuto occasione di conoscere o a Venezia o a Padova prima di andare a Costantinopoli o nel ritorno; alcuni erano suoi confidenti, il protonotario Donati e i fratelli portoghesi Alfonso e Valesio, alunni del Barzizza. Ed egli si piace di rappresentare umoristicamente quella società padovana. «Ai pranzi di Pietro Donati non s'imbandisce Cicerone, Fabio e Macrobio, ma Alessandro, Perdicca e i sacerdoti Galli. A Padova si adora per patrono il dio Bacco, a cui si fa festa tutti i giorni. E gli iniziati del dio cominciano sin dal mattino a chiamare a raccolta con certe facce rubiconde, con certi nasi maestosi e bitorzoluti, con certi occhi lagrimosi! Ivi mattina giorno e sera sempre orgia. Altro che il ginnasio di Socrate e l'accademia di Platone! in illis namque disputari solitum aiunt, in his vero nostris dispotari, immo trispotari quaterque potari frequens patriae mos est.... Academici de uno, de vero, de motu disserunt, hi nostri de vino, de mero, de potu dispotant.

39. Questa società però attraversò un brutto momento. Negli anni 1411 e 1412 le città venete Udine, Venezia, Verona furono funestate da una terribile invasione di Ungheri; Padova, Vicenza, Verona vennero conquistate e saccheggiate. Lo Studio di Padova si chiuse, il Barzizza si rifugiò a Ferrara, lo Scola a Verona e di là a Cremona, i giovani patrizi veneziani a Venezia. Guarino soffrì molto per i danni toccati alla sua [18] amata Verona; e fosse per questo o per non so quali altri motivi, l'anno 1412 gli passò molto triste. «Tutti i favori della sorte mi si mutano in contrarietà; i pensieri, le deliberazioni sortiscono l'effetto opposto. Le mie più belle e più fondate speranze mi sguisciano di mano come serpenti. Fa una bellissima giornata? Mi metto in viaggio e giù acqua e grandine a rovesci: tutto mi succede al contrario dei miei desideri. Sicchè eccomi qui errante e ramingo mutar luogo ma non fortuna». E finisce invidiando all'amico Scola, a cui scriveva così sconfortato, la costanza nelle avversità e l'anima veramente stoica.

40. Par di vedere in Guarino come scossa e pericolante la sua posizione di professore a Firenze; altrimenti non si saprebbero spiegare quelle sue querimonie. Che egli avesse in quella città incontrate molte e potenti amicizie, si è veduto; bastino i nomi di Antonio Corbinelli, Roberto Rossi, Palla Strozzi, tutte persone autorevoli e a lui sinceramente affezionate. Ma è anche certo che vi deve aver trovato non poche ostilità. Se ne sente l'eco, un po' lontana ma abbastanza viva ancora, in una lettera posteriore di alcuni anni. «Io chiamo in testimonio Dio e i suoi santi, che nel tempo che io fui a Firenze non sorse, direi, giorno, che io non fossi tormentato da brighe, da insulti, da litigi. Vi è in codesta setta malvagia tanta smania, anzi avarizia di gloria, non di quella vera, ma di quella effimera e apparente, che pur di conseguirla non hanno alcun riguardo alla riputazione altrui. Onde non lodano nessuno se non con frasi mozze e soggiungendo sempre: — Si aspetta che faccia meglio per l'avvenire. — Se ti sentono lodare uno, se ne hanno a male, brontolano, fanno i visacci e, come se la lode data agli altri andasse a scapito della propria, invidiano i lodati e mordono i lodatori. Di qui animosità tra loro, odio contro gli altri. Queste non sono amicizie ma cospirazioni». Conchiude: at vero paucorum [19] improbitas plus ad nocendum quam plurimorum amor, modestia ad iuvandum pollet, praesertim cum fragile patrocinium haberi soleat ubi apud huiusmodi ingenia per innocentiam victitare studeas.

41. A chi alluda qui Guarino, non si sa, toltone Lorenzo Benvenuti. Si capisce bene che la vita di un uomo si intreccia con quella di altri che sono illustri, di altri che sono oscuri; e di persone oscure si tratta qui senza dubbio. Ma non era oscuro al contrario un altro fiorentino, che osteggiò accanitamente il nostro Guarino: quello stesso che lo chiamò allo Studio di Firenze e che fu poi forse causa di farnelo partire, intendo il Niccoli.

42. Sul Niccoli i contemporanei e specialmente i suoi nemici, come il Bruni e il Filelfo, non lasciarono sfuggirsi occasione di dire tutto il male possibile e caddero in esagerazioni. Ma dall'ammettere le esagerazioni al negare ogni fede alle loro, sia pur passionate, asserzioni, ci corre un bel tratto. Fu sparsa dal Filelfo la notizia che il Crisolora, Guarino, l'Aurispa, chiamati a Firenze dal Niccoli, furono poi da lui stesso o per invidia o per ingenita malvagità mandati via. Per l'Aurispa l'accusa è falsa, ma per il Crisolora, della cui partenza da Firenze si adducono altri motivi, non è falsa interamente, giacchè il Bruni in una lettera al Niccoli parla chiaro di animosità di costui contro il Crisolora. Quanto a Guarino poi l'accusa è vera almeno per metà; non sarà stato il Niccoli la sola causa per cui Guarino abbandonò Firenze, ma una delle principali senza dubbio.

43. Il Niccoli aveva delle buone qualità; e un amatore degli studi classici gli perdona molto, perchè molto ha fatto in vantaggio di essi, specialmente col raccogliere e copiare manoscritti. Guarino nella sua invettiva contro il Niccoli è un po' troppo crudele, quando mettendolo in canzonatura lo riduce alle proporzioni di un asino carico di libri. Già il raccogliere codici e materiali era merito non piccolo per quei [20] tempi di preparazione. Ma lasciando ciò, era forse il Niccoli null'altro che un semplice e dozzinale copista? Egli studiava e discuteva la forma delle lettere, facendo così opera utile, perchè su questa via egli fu condotto senza accorgersi a trattare questioni ortografiche. L'ortografia non è disciplina oziosa e lo mostrarono tutti quegli umanisti, che se ne occuparono di proposito, dal severo Barzizza al geniale Poliziano, non escluso Guarino stesso, che compose più tardi un trattato sui dittonghi latini e uno sugli spiriti greci: del resto nell'emendamento dei testi chissà quante volte egli non avrà discusso seriamente questioni di ortografia. Il Niccoli aggiunse due elementi nuovi a queste ricerche: il confronto delle forme latine con le corrispondenti greche e il sussidio delle lapidi, le quali non soffrono le alterazioni, a cui vanno soggetti i manoscritti.

44. Dove Guarino ha ragione è nella pittura che fa del carattere morale del Niccoli. Il Niccoli era in verità uomo moralmente meschino, che dava molto appiglio alla satira e alla caricatura. Quel vantarsi di saper tutto e dar la baia agli altri, mentre poi egli si lasciava cogliere grossolanamente in fallo, era uno dei suoi capitali difetti. Suo difetto era pure una tal quale burbanza da superiore coi pari; talchè si è tentati a prestare intera fede a Guarino, dove racconta che il Niccoli gli domandò dei codici, spacciando nei crocchi che egli fosse suo schiavo. Altro suo difetto era l'invidia e deve esser vero il fatto narrato da Guarino, che venuto il Niccoli in gelosia di un condiscepolo, a cui era inferiore per ingegno, volesse obbligare lui, Guarino, a cacciarlo dalla scuola. Ma Guarino era uomo di carattere e non si sarebbe a niun costo piegato a servire così bassamente i fanciulleschi dispettucci del suo protettore. Guarino oppose energica resistenza; e il Niccoli lo cominciò a perseguitare prima nei circoli privatamente, poi pubblicamente con una lettera.

[21] 45. Guarino non recedette: ut conviciari et maledicere petulans superbumque arbitror, ita respondere et remaledicere civile fasque iudico; e rispose. Non possiamo dire se fosse più mordace la risposta o la provocazione; ma la mordacità guariniana non fa certamente torto alla tempra dell'uomo. Dopo tutto Guarino fu il provocato e quanto a nobiltà d'animo ne avea da vendere al Niccoli e a molti altri. Pongasi poi mente al concetto che Guarino si era formato dell'uomo di lettere e si vedrà che distanza da lui al Niccoli. Egli ebbe ragione di spargere il ridicolo sul Niccoli, che si rese schiavo degli sciocchi capricci e delle prepotenze di una druda; ebbe ragione di affermare, che il volgo non poteva non scandolezzarsi di un uomo, il quale delle lettere si facea scudo a peccare: perchè nel concetto di Guarino il letterato deve essere virtuoso, deve avere un alto valore morale, deve essere insomma un uomo superiore.

Guarino a Venezia. (1414-1419)

46. Il cozzo di Guarino col Niccoli era stato troppo violento e quell'ostilità aveva acquistato maggior gravità diventando pubblica. Il Niccoli nelle faccende dello Studio fiorentino avea gran peso e la posizione di Guarino a Firenze dovette rendersi insostenibile.

47. Egli era colà ancora nei primi mesi del 1414; ma poco più vi rimase. Giusto in quell'anno, verso la metà, capitò a Firenze Francesco Barbaro, non si saprebbe dire per quali ragioni. Forse era corsa qualche trattativa tra la famiglia Barbaro e Guarino da quando questi cominciò a trovarsi a disagio in Firenze; forse il Barbaro desiderò di conoscere da vicino quel centro di umanisti, così ormai [22] famosi per tutta Italia e con alcuno dei quali era probabilmente in corrispondenza.

48. Comunque, a Firenze il Barbaro si sentì come in casa propria. Sedicenne appena, com'era allora, aveva pur levato un certo rumore intorno a sè per la precocità del suo ingegno e per il rapido progresso negli studi; al che si aggiungeva la nobiltà e liberalità della sua famiglia. Non era egli stato alunno di Giovanni da Ravenna, cancelliere dei Carrara a Padova, non meno celebre dell'omonimo che insegnava a Firenze? Non aveva egli udite le lezioni di Gasparino Barzizza, prima a Venezia in casa propria, dove il Barzizza era stato ospitato, e poi a Padova dove l'illustre umanista aveva piantata la sua feconda scuola? Non aveva egli conosciuto a Venezia quel Manuele Crisolora, che aveva insegnato a Firenze?

49. Ben a ragione pertanto il Barbaro respirò aria sua a Firenze e si mosse liberamente in quel circolo di umanisti, che nè potevano poi dimenticarlo, nè potevano essere dimenticati da lui. Ivi si strinse in amicizia con Giovanni di Bicci dei Medici e coi due suoi figliuoli Cosimo e Lorenzo, allora studiosi e più tardi fautori degli studi. Conobbe Palla Strozzi, Roberto Rossi, i Corbinelli, Leonardo Bruni e il frate Ambrogio Traversari, che di tutta quella schiera eletta gli restò il più intimo. Con lui ebbe infatti negli anni successivi vivo carteggio, che tenne strettamente legate le tre città le quali più di tutte allora rappresentavano l'umanismo, Venezia, Padova e Firenze.

50. Nel luglio del 1414 mosse Guarino da Firenze col Barbaro verso Venezia. Passando da Bologna, i due umanisti risalutarono gli amici della corte pontificia. Giovanni XXIII sin dal febbraio del 1414 si era stabilito in Bologna, donde partì poi il 1.º ottobre alla volta di Costanza. Tra quegli amici Guarino e il Barbaro videro anche il Crisolora, il quale anzi volle accompagnarli fino a Venezia. Imbarcatisi sul Po i nostri [23] viaggiatori percorsero felicemente il fiume, ma quando entrarono nel mare furono colti dalla nausea. Come mai, si domandarono, non si sofferse la nausea sul Po, bensì sul mare? Allora il Crisolora, «tesoro inesauribile di dottrina», spiegò ai compagni come cagione della nausea siano un senso esterno e un interno: «l'esterno essere l'olfatto, perchè l'acqua marina esala odori disgustosi, l'interno essere il timore, perchè il mare nasconde sempre, anche sotto belle apparenze, minacce e pericoli». Noi ci figuriamo Guarino pendere tutt'occhi e tutt'orecchi dalla bocca del Crisolora, nel quale ammirava tanto quel filosofeggiare bonario e sentenzioso anche sulle più minute questioni.

51. L'arrivo di Guarino a Venezia «fu un trionfo». Ivi egli era molto conosciuto; ivi l'aveano veduto partire e tornare da Costantinopoli, avea già intimi vincoli di amicizia con la famiglia di Paolo Zane il suo benefattore, coi Donati, coi Barbaro e altre illustri case patrizie. Inoltre la gioventù veneziana lo aspettava con ansia, perchè tolte le momentanee apparizioni del Ravennate del Barzizza e del Crisolora, una scuola propria e stabile ivi non si era ancora fondata.

52. Appena giunto fu intanto generosamente ospitato in casa Barbaro, dove oltre a Francesco c'era il fratello Zaccaria con la moglie e il figlio Ermolao, il piccolo portento d'ingegno, allora forse di sei o sette anni. E Francesco Barbaro meritamente si gloria di questa ospitalità offerta al grande maestro.

53. Ma Guarino ben presto si costituì la propria dimora, che egli popolò di alunni privati, mettendo così le prime basi della scuola-convitto. Non era egli forse stato un famiglio in casa del Crisolora a Costantinopoli? e non praticava così a Padova il suo collega Barzizza, provetto institutore? Il Barzizza teneva in casa sua una parte dei suoi scolari, tra i quali forse quel Vittorino da Feltre, che più tardi era destinato a dare il proprio nome a questa instituzione. Ebbe a convittori [24] figli d'illustri famiglie veneziane, tre nipoti del cardinale Branda Castiglioni, un figlio dei marchesi Malaspina e di qualche altro principe. Li faceva sorvegliare da persone fidate, qualche volta dai suoi stessi figliuoli; destinava alla loro istruzione appositi maestri: egli sedeva al timone, per dirla con la sua frase, invigilando il buon andamento generale.

54. Così Guarino a Venezia. La sua casa era una famiglia di studenti, talvolta assai numerosa: chiamava convitto (contubernium) la famiglia, camerate (contubernales) gli studenti. Nell'invitare a Venezia l'amico Paolo de Paolinis, professore di filosofia morale a Firenze, così gli scriveva: «Vieni e faremo vita comune; comune avremo il cibo, i discorsi, il sonno. Nè ti credere in ciò di recarmi incomodo; tutto si acconcierà nel migliore e più agevol modo possibile. Per te non faccio nessuna novità nè di apparecchi nè di cibi nè di letti, nulla nulla; preparati a una vita da studente, alla quale tu sei stato avvezzato, educato, cresciuto. Non ti prometto pietanze squisite, vasi preziosi, ricca supellettile; mangerai rape e fave, berrai in bicchieri di legno e adopererai posate alla buona. Condiremo ogni cosa coi continui ragionari, con le risa, coi giuochi, col brio; così Curio traeva in terra una vita celeste. Oro e argento non te ne posso offrire, ma buon umore e lieta brigata quanta ne vuoi».

55. Appena posto piede in Venezia, Guarino scrisse al Barzizza, che già dovea conoscere di persona, del suo arrivo e come sarebbe andato a trovarlo a Padova; a cui con altrettanta squisitezza ed urbanità il Barzizza rispose che sarebbe toccato a lui venirlo a vedere a Venezia. Così si strinse fra i due umanisti quel legame di reciproco affetto e stima, il quale fu veramente esemplare: che nè invidia nè gelosia rallentò mai, anche quando il Barzizza si vide rubare, come era naturale, dal nuovo collega gran numero di scolari «che erano stati primi ad amarlo». È bello veder quel [25] loro scambio di codici e di pietosi sensi. Affettuose sono le condoglianze che Guarino fa al Barzizza in morte della moglie, affettuosi e veramente paterni gli ammonimenti che il Barzizza dà a Guarino sul mutar residenza e sul cercarsi dopo tanto peregrinare un posto sicuro e stabile. Da buoni colleghi si aiutano scambievolmente nei loro studi, professando l'un per l'altro quella stima che meritavano, nel che il Barzizza dava esempio di generosa modestia, proclamando Guarino il più dotto dell'età sua e il vero modello della bontà e dell'onestà.

56. Questa stessa affettuosa corrispondenza troviamo negli scolari delle due città vicine. Col Barbaro e col Giuliani, già allievi suoi ed ora di Guarino, il Barzizza è sempre in carteggio: loda al Giuliani l'orazione in morte del Crisolora, al Barbaro il De re uxoria, a lui e al Giustinian le traduzioni dal greco. Comuni amici del Barzizza e di Guarino restano il Corner e il Vettori, che ora fanno vita a Venezia, i fratelli Giona e Lazzarino Resti, Alfonso portoghese, Filippo di Cipro, che stanno a Padova; amico comune Cristoforo Parma, maestro vagante, che un anno troviamo a Padova, un anno a Ferrara, un anno a Verona, un anno a Venezia. Da Venezia Guarino si congratula degli studi di Battista Bevilacqua, a cui raccomanda gli amici suoi; e da Padova il Bevilacqua compiange in una affettuosa lettera a lui diretta la morte di Zaccaria Barbaro. Passa da Venezia a Padova e da questa a quella Pietro Donati, arcivescovo di Creta, ben voluto dai letterati delle due città. Da Venezia Guarino mette in relazione Francesco Bracco, suo camerata, col Donati, col Gualdo, col Barzizza a Padova e briga con tutti gli amici di Firenze per far nominare alla magistratura della mercanzia Filippo di Cipro, residente in Padova.

57. A Padova si erano incontrati alla scuola del Barzizza Giorgio da Trebisonda, Francesco Filelfo, Vittorino da [26] Feltre, destinati tutti e tre ad occupare un posto cospicuo tra gli umanisti della prossima generazione; e da Padova si partono l'un dopo l'altro tutti e tre: il Filelfo a piantar scuola in Venezia, il Trebisonda a udirvi Guarino e a fare il copista in casa Barbaro, Vittorino a imparare un po' di greco dal dotto Veronese, a cui per compenso raffinò il gusto latino, facendo così quello che il Platina felicemente chiama «scambio di merci».

58. Ma ciò che più tiene vive le relazioni tra Venezia e Padova è la corrispondenza di Guarino con Girolamo Gualdo vicentino, a cui lo legavano anche rapporti di famiglia. A lui manda gli scritti suoi, come la lettera sulla vittoria di Gallipoli, e gli scritti degli amici, come l'orazione funebre del Poggio per lo Zabarella, le traduzioni dal greco e qualche lettera del Barbaro; e con lui scambia codici.

59. Nè in questi rapporti manca l'arguzia e la burletta, giacchè per quanto gli umanisti fossero quasi sempre al verde e in lotta tutto il giorno con le prime necessità della vita, pure la serenità e il brio non venivano loro mai meno. Quegli che alimentava la gaiezza in questa società era soprattutto il veneziano Giannino Corradini, che faceva il medico a Padova; «l'amenissimo e argutissimo Corradini,» ammiratore entusiastico di Guarino e delle sue lettere, al quale per ogni lettera che riceveva mandava in dono una gallina. «Ma bada, gli doveva scrivere Guarino, bada che questa mia non è nè lettera nè epistola, se no c'è il pericolo che mi capiti qui all'improvviso una gallina. Del resto vogliamo proprio fare il patto dello scambio delle lettere con le galline? io già non mi preoccupo che me ne venga nausea; tu valente medico non puoi mandare, naturalmente, cibi nauseosi. E intendi bene: io non seguo la setta degli Stoici e dei Peripatetici, ma degli Epicurei. Ho poi speciale antipatia per certi autori e simpatia per certi altri: antipatia per Cicerone, [27] Lentulo, Fabio, Macrobio, autori insipidi; simpatia per Vitellio, Cepione, i sacerdoti Galli, Perdicca, compagno di Alessandro, e Carneade, non il vecchio ma il giovane».

60. A Padova andava spesso Guarino «a celebrarvi, come egli diceva, i sacri riti dell'amichevole sodalizio, del quale era consigliere e ospite». «Di ritorno ier l'altro, o diletto Gualdo, dalla mia visita al sodalizio di Padova, avevo d'innanzi agli occhi e mi risonava ancora negli orecchi la vostra festività, la cortesia, il brio condito di gravità; e tanto la mente mia si era immersa nel ricordo, che voi mi eravate al fianco compagni del viaggio». In un altro ritorno da Padova a Venezia si erano imbarcati Guarino, il Barbaro, il Giustinian e il Giuliani. Chiese di salire con loro un vecchiotto, che fu lo spasso della brigata. «Di che genere sei?» gli domandò il Giuliani. «Maschile», rispose quegli. «Me ne ero accorto, riprese il Giuliani, dalla barba bianca che ti copre il volto.» Allora il vecchiotto disse che era maestro di scuola. «Ho capito, replicò il Giuliani, sei ludi magister.» «Sì, e credo che ci chiamino così, perchè facciamo scuola ai bambini, i quali amano i giochi (ludus).» Risata generale. Intanto il Giuliani cavò di tasca un Persio e cominciò a leggere la sat. II: hunc, Macrine, diem numera meliore lapillo.» «Che significa numerare meliore lapillo»? domandò il Giustinian al maestro. E quegli franco soggiunse esser nato dal costume antico di contare i giorni con le pietre; perciò Persio inculca a Macrino di contare esattamente i suoi giorni, ma con una pietra di valore, p. e. con del marmo. Altra risata generale. E con queste corbellerie compirono la traversata, che non se ne accorsero nemmeno.

61. Nulla di importante avvenne nel primo anno che Guarino fu a Venezia, se ne eccettui l'arrivo nel gennaio 1415 dell'amico Valerio Floro dalla Grecia, che si recava ambasciatore alla repubblica e di là al papa a Costanza. Il Floro, [28] a cui Guarino dedicò il trattatello sui Dittonghi, gli era legato d'amicizia da parecchio tempo, come pure Cristoforo vicentino, al quale Guarino partecipa la fausta novella dell'arrivo del Floro. Per mezzo poi dello stesso Cristoforo abbiamo occasione di vedere come erano sempre vive le relazioni di Guarino con Antonio Loschi tornato di fresco (verso la metà del 1415) da Costanza a Vicenza, dove si godette sei anni di tranquillità, aspettando per il papato tempi migliori.

62. Ma ecco da Costanza giungere e propagarsi per tutta Italia una triste notizia: il 15 aprile 1415 era morto colà Manuele Crisolora. Fu un colpo terribile per Guarino, il suo più entusiastico ammiratore. Il primo pensiero che gli corse alla mente fu di tessergli un elogio, che fosse un monumento di gratitudine e di affetto; ma lo stordimento per la sventura e l'altezza del tema ne lo distolsero. Da Costanza lo aveva a ciò eccitato il Vergerio, ma gli risponde che le sue spalle non reggerebbero al peso e addita piuttosto il Vergerio stesso come adatto più di ogni altro all'impresa. Il Rustici e il Poggio si erano pure proposti di dirne le lodi, ma non ne fecero poi nulla; e il Crisolora restò senza l'elogio di qualcuno dei suoi scolari ed amici: meno fortunato in questo di tanti che lo precedettero e che lo seguirono.

63. Però se tacquero gli scolari del Crisolora, parlò uno scolaro di Guarino. Guarino infatti verso il luglio dello stesso anno (1415) preparò una solenne commemorazione del Crisolora, affidando l'incarico del discorso d'occasione al patrizio Andrea Giuliani. Il Giuliani non fece un quadro biografico del Crisolora, ma ne tessè le lodi, tenendosi sulle generali e tributando ardente e viva ammirazione all'illustre defunto.

64. Il Barzizza da Padova lodò l'oratore, «che risuscitava i bei tempi dell'eloquenza antica». Guarino poi disseminò [29] in un momento l'orazione del Giuliani, encomiandola altamente. Ne parlò nella lunga lettera consolatoria a Giovanni Crisolora, nipote del morto, ne parlò nella lettera a Giacomo Fabris giureconsulto veronese, la mandò agli amici di Costanza e di Ferrara. A Verona la portò egli stesso verso la fine del 1415 e in quell'occasione si parlò del Crisolora nel crocchio degli amici, quale Niccolò Brenzoni, l'abate di S. Zeno, il Salerno, il della Pigna; tra essi il Fabris aveva conosciuto il Crisolora, anzi aveva avuto l'onore di ospitarlo in casa propria. E con l'orazione del Giuliani lessero a Verona pure la lettera consolatoria di Guarino a Giovanni Crisolora; e i due scritti riscossero i più sinceri applausi: applausi tanto più vivi, quanto che il Giuliani era a Verona conosciuto ed amato e già si era letto il giudizio dato sul suo discorso dal Barzizza, la maggior autorità letteraria di quel tempo. Gli amici veronesi avevano poi un'altra ragione di congratularsi col Giuliani, perchè egli in quei giorni era passato a seconde nozze con una ricca e virtuosa signorina veneziana.

65. Guarino in quel suo giro del 1415 toccò Padova, dove s'incontrò con alcuni del circolo letterato ferrarese, seppure non prolungò il viaggio fin proprio a Ferrara. Le relazioni tra Ferrara e Venezia erano molto amichevoli. Era marchese allora di Ferrara Niccolò d'Este, fautore dei buoni studi, il quale veniva di quando in quando a Venezia per assistere alle feste pubbliche e ai tornei; e c'era stato giusto di fresco nell'aprile del 1415 accompagnato dal suo aiutante Uguccione dei Contrari e forse anche dal cavaliere Alberto della Sale suo condottiero. In quella e in altre occasioni Guarino potè incontrarsi con quei signori, qualcuno dei quali era anche dilettante di letteratura, come il cavaliere della Sale.

66. Negli ultimi anni del secolo XIV le condizioni della cultura in Ferrara non erano troppo floride, giacchè il Vergerio [30] non conosceva che un nome che in quel tempo (1392) facesse onore agli studi, Bartolomeo da Saliceto. Le condizioni si migliorarono certo con la riapertura dello Studio nel 1402. Negli anni 1411 e 1412 fece capolino a Ferrara il Barzizza, che aveva mandato colà la numerosa sua famiglia, sia perchè a Padova il vitto costava troppo caro, sia perchè l'invasione degli Ungheri aveva portato lo scompiglio nelle città del Veneto. In quelle visite il Barzizza conobbe molti personaggi della corte e pare che ne abbia ricevuta buona impressione. Viveva ancora, ma decrepito, Donato degli Albanzani, già segretario degli Estensi e istitutore di Niccolò III. Vi era il suo amico Lodovico conte di S. Bonifacio, studioso dei classici latini e specialmente dei moralisti; vi conobbe Uguccione dei Contrari e strinse relazione con Bartolomeo Mella, referendario del marchese.

67. Che qualche traccia non lasci il contatto, sia pur passeggiero, di un umanista come il Barzizza, non si può negare; perchè un certo impulso vien sempre dato, il quale si alimenta poi con la corrispondenza epistolare. Ma più che il Barzizza lasciò traccia la corrispondenza epistolare e la relazione personale di Guarino. Giacomo Zilioli, che fu più tardi consigliere intimo del marchese, deve certo a Guarino, se divenne liberal mecenate degli studiosi. E col giurista Niccolò Pirondoli e specialmente col medico Ugo Mazzolati avviò Guarino viva corrispondenza, che giovò moltissimo a promuovere gli studi in Ferrara.

68. Col mezzo di comuni amici che andavano e venivano da Ferrara, come Francesco Bracco, i Ferraresi erano messi a parte delle produzioni letterarie che uscivano in Venezia. Così l'orazione del Giuliani e le lettere di Guarino sulla morte del Crisolora e il De re uxoria del Barbaro furono a suo tempo trasmesse a Ferrara. Così Ugo Mazzolati riceveva le versioni da Plutarco di Guarino e da lui si faceva emendar [31] codici. Ugo pose tale affetto a Guarino, gli pose tale stima, che lo chiamava padre e si affliggeva se da lui non ricevesse almeno una lettera al mese. A Ferrara godeva la stima di Guarino un altro medico, Bartolomeo Mainenti; e ivi si trovò per qualche anno il grammatico Cristoforo Parma, amico del Mazzolati.

69. Mentre Guarino moltiplicava e intrecciava così la sua attività e le sue relazioni con Padova, Costanza, Vicenza, Verona, Ferrara, ferveva il lavoro e l'operosità nella sua scuola a Venezia, dove i suoi alunni facevano rapidi progressi e producevano ottimi frutti. Abbiamo parlato dell'orazione funebre del Giuliani; nè fu la sola, perchè egli ne compose un'altra in morte dello zio Paolo. Nel testamento però lo zio aveva vietato qualunque pompa funebre e l'orazione non fu recitata; il che non impedì a Guarino di pubblicarla all'insaputa dell'autore mentre era a Costanza. Nel 1418 il Giustinian recitò l'orazione funebre per Carlo Zen; due orazioni, l'una funebre in morte del diletto Corradini, rapito nel fior dell'età all'affetto degli amici, l'altra per la laurea del Perugino Guidaloti, avea pronunziate il Barbaro nel 1416 a Padova. Il Barbaro levò assai più rumore per un altro lavoro, il De re uxoria, uscito verso il maggio del 1416 e dedicato all'amico Lorenzo dei Medici in occasione delle sue nozze.

70. Questo opuscolo morale, scritto in venticinque giorni, tratta delle principali questioni attinenti al matrimonio: della sua essenza, della economia domestica, del coito, dell'allevamento dei figli. Si intende da sè che le massime non sono attinte alla pratica, ma all'erudizione del suo precettore; però un elemento pratico c'era, quello attinto al senno e all'esperienza di Zaccaria Trevisan, morto tre anni innanzi, uomo ascoltato sempre con affettuosa riverenza dal giovinetto Barbaro. In quel libro egli depositò tutta l'erudizione latina [32] e greca, che aveva acquistato nei due anni di scuola di Guarino. Erano purtroppo lavori di semplice parata, condotti sugli esemplari classici, senza anima e senza sentimento, senza un alito di quella vita che allora viveano; la sola parte lodevole e durevole era l'acume dell'ingegno e la vivacità della forma.

71. Il Barbaro fece nè più nè meno di quello che s'aspettava il Barzizza, gran fabbro di lettere esercitatorie e di orazioni accademiche. Il Barzizza infatti saputo della pubblicazione di quel trattato, ne scrisse al Barbaro domandandogliene una copia. «Attendo la tua Res uxoria, che sento aver tu pubblicato testè. E mi si dice anche che il lavoro risponda degnamente al tuo ingegno e ai tuoi studi. Non dubito punto che esso sia scritto con senno ed eleganza; giacchè l'avrai certamente infiorato in molti luoghi di sentenze latine e greche; ma desidero vederlo per poterlo giudicare più col mio giudizio che con quello degli altri.»

72. Primo a riceverne copia fu naturalmente Lorenzo dei Medici e da lui gli amici fiorentini che lo lodarono. L'ebbe e lo ammirò Niccolò Pirondoli a Ferrara. A Costanza Guarino lo mandò allo Zabarella, presso cui lo lesse il Vergerio, il quale poi ne scrisse parole di grande elogio al medico veneziano Niccolò Leonardi. E da Guarino lo ricevette anche il Poggio, che lo passò al Rustici e a Biagio dei Guasconi. Il Poggio gli rispose che da quel saggio c'era da ripromettersi assai bene del giovinetto autore, ma che egli più che mai nel leggere il trattatello si era distolto dal pensiero di prender moglie, considerando i gravi pesi di quello stato.

73. Questo quanto riguarda i frutti dati negli studi latini. Nè minori furono quelli dati, specialmente tenuto conto della novità, negli studi greci, i quali anzi in Venezia ebbero un vero fondamento e ricevettero incremento solo per opera di Guarino. Tra la fine del 1415 e il principio del 1416 il [33] Giustinian aveva tradotto il Cimone di Plutarco, rendendo così, come dice Guarino, testimonianza di gratitudine alla memoria del Crisolora, che primo aveva aperta la via alla cultura greca in Italia. Nel medesimo tempo il Barbaro tradusse l'Aristide dello stesso Plutarco. Questi due primi saggi furono subito mandati a Verona al Salerno, che li avrà comunicati certamente agli amici di colà. Ben presto seguirono due nuove versioni da Plutarco: del Lucullo per opera del Giustinian e del Catone per opera del Barbaro. Le quattro vite erano già pubblicate nella fine del 1416 e vennero spedite al Traversari a Firenze e al Gualdo a Padova.

74. Questi studi greci, appunto perchè una novità, incontrarono qualche opposizione a Venezia. Organo di tale malcontento si fece Lorenzo Monaco, cancelliere di Creta, dando così il primo esempio della guerra, che diventò poi famosa, tra la letteratura greca e la latina. Lorenzo Monaco, già amico del Barbaro e ammiratore de' suoi lavori, quando lo vide tutto inteso agli studi greci, gli scrisse una lettera per dissuadernelo, cercando di mostrare che tanto lo studio del greco quanto le traduzioni dal greco erano inutili. Il Barbaro replicò con una lettera assai vivace, nella quale sostiene la necessità degli studi greci e l'utilità delle traduzioni dal greco, appoggiandosi all'autorità degli antichi e all'esempio dei più grandi traduttori moderni, Guarino e il Bruni. Di questa lettera Guarino mandò una copia al Gualdo a Padova, mentre da Firenze glie l'avea chiesta il Bruni, il quale, paladino come era degli studi greci, voleva entrare in lizza a rompere una lancia per essi.

75. La seconda metà del 1416 Venezia fu visitata dalla peste, lo spauracchio di Guarino, uomo forte e coraggioso, meno che davanti all'epidemia. Già sin dal maggio se ne vociferava e si diceva che Guarino in compagnia del Barbaro si sarebbero rifugiati a Firenze. Invece si rifugiarono a Padova, [34] dove li troviamo al principio di luglio. Vi venne più tardi anche Zaccaria Barbaro con la famiglia e Vittorino da Feltre, che in quei giorni stava a Venezia. Nel tempo della sua dimora a Padova Guarino ricevette dal Poggio la famosa lettera sul supplizio di Girolamo da Praga e lo ricambiò con la sua sulla vittoria di Gallipoli.

76. Era ancora a Padova sul finire dell'anno, ma non pare sia sempre stato fermo colà, poichè almeno una volta fu certo a Verona. «Ho errato qua e là, egli scrive, come uno Scita e un Nomade». E di ciò si preoccupava non poco: «mi par mill'anni che finisca questa pestilenza e che noi possiamo tornare ai nostri studi; giacchè come il vomere non adoperato irrugginisce, così l'animo non esercitato illanguidisce. Ormai intorno alle tempie spuntano i capelli bianchi, la vecchiezza s'avanza (aveva allora 42 anni) a gran passi e lo scrigno è vuoto». Eppure c'era chi lo faceva ancora (come in fin dei conti era veramente) uomo fresco e voleva dargli moglie. Racconta egli che mentre stava a Padova vennero da lui alcune persone, che dopo un preambolo preso alla larga gli proposero un buon matrimonio. Guarino rispose celiando, che le mogli non gli piacevano, se non finchè erano mantenute dagli altri; che del resto la moglie egli l'aveva e cercava da un pezzo di far divorzio: questa moglie era la povertà. Ma il proposito negativo non durò molto tempo.

77. Di ritorno a Venezia nel 1417 tradusse il Temistocle di Plutarco e lo dedicò a Carlo Zen, il quale, quantunque più che ottuagenario, trovava modo di occuparsi di letteratura; ma erano gli ultimi lampi di una vita agitata, spesa in pro' della patria; e il dì 8 maggio dell'anno seguente, 1418, chiuse la sua carriera mortale, accompagnato dalla parola calda ed eloquente del Giustinian, che gli recitò l'orazione funebre in mezzo all'ammirazione degli astanti. Assisteva un pubblico sceltissimo, tra cui anche gli amici della corte di Ferrara. [35] Fu un nuovo trionfo per Guarino, il quale aveva ormai resi celebri i suoi tre migliori scolari, educandoli così in pari tempo a quella disinvoltura presso il pubblico, che è tanto necessaria a chi si applica all'amministrazione dello stato. E tutti e tre riuscirono uomini di stato, superiore a tutti il Barbaro, ma benemeriti anche il Giustinian e il Giuliani. Il Giuliani anzi era già entrato da prima nella carriera pubblica; e mentre studiava sotto Guarino aveva ottenuto l'ufficio di cassiere in Padova. Alla fine poi del 1417 lo incontriamo, probabilmente in qualità di ambasciatore della repubblica, a Costanza, dove si era pure recato da Padova il Barzizza, con la speranza forse di migliorare fortuna nella prossima elezione del nuovo pontefice, la quale dovea por termine allo scisma.

78. Per tal modo furono raddoppiate le relazioni, già sì frequenti e cordiali, tra Costanza e Venezia. Da Venezia infatti andavano di quando in quando ambasciatori a Costanza, come il Floro, che aveano amici comuni nelle due città; da Venezia partirono nel 1415 per il Concilio i cardinali veneti; da Venezia passò, diretto a Costanza, Carlo Malatesta, procuratore del pontefice veneto Gregorio XII. Tra Venezia e Costanza erano attivi gli scambi di lettere e codici col Poggio, il Vergerio, lo Zabarella, Bartolomeo da Montepulciano dall'una parte, con Guarino, il Barbaro, Niccolò Leonardi dall'altra.

79. La corte pontificia era giunta a Costanza il 28 ottobre 1414 con Giovanni XXIII e ne ripartì il 16 maggio 1418 con Martino V. Giovanni XXIII quando vide non potersi più sostenere di fronte al Concilio, fuggì di là il 19 marzo 1415, ma ripreso fu solennemente destituito il 29 maggio dello stesso anno. A questo atto ne seguì un altro il 4 luglio 1415, cioè la rinunzia di Gregorio XII per mezzo del suo procuratore Carlo Malatesta. Da allora in poi il Concilio, più libero nella sua azione, discusse e approvò una serie di [36] provvedimenti e di riforme ecclesiastiche; da ultimo nell'8 novembre 1417 i cardinali e i vescovi entrarono in conclave, dal quale l'11 uscì eletto Martino V.

80. Tra i personaggi di nostra conoscenza troviamo a Costanza il cardinal fiorentino Zabarella, buon letterato e filosofo e generoso mecenate degli studi, «l'asilo dei dotti», come lo chiama il Poggio, sotto la cui protezione e al cui servizio stavano il Rustici, il Vergerio, Bartolomeo da Montepulciano. C'era il vescovo Capra addetto, come sembra, alla corte dell'imperatore Sigismondo; c'erano il Poggio, il Crisolora, il Loschi, il Bruni, arrivato quest'ultimo in ritardo verso la fine di decembre 1414: tutti quattro al servizio di Giovanni XXIII. Altri di minor conto, ma che pur meritano di essere ricordati, erano Biagio Guasconi, Caronda, Zomino da Pistoia, Bartolomeo del Regno, Benedetto da Piglio.

81. Deposto Giovanni XXIII, i suoi segretari si trovarono squilibrati e senza appoggio. Già prima della deposizione il Bruni, che aveva odorato il vento infido, sin dal principio del marzo 1415 avea preso il volo ed era tornato a Firenze, donde non si mosse più, attendendo tranquillamente ai suoi studi prediletti. Anche il Loschi nel corso del 1415 partì di là e si ritirò nella natia Vicenza aspettando tempi migliori. In compenso nella seconda metà del 1417 quel circolo di letterati si accrebbe del Giuliani e del Barzizza; ma nessuno potè compensare due gravi perdite: quella del Crisolora nel 1415 e quella del cardinal Zabarella il 26 settembre 1417, al quale il Poggio recitò l'orazione funebre, comunicata poi a Guarino a Venezia e da Guarino agli amici di Padova, città nativa dello Zabarella, dove avea tanti anni studiato e insegnato.

82. Ci fu in queste relazioni tra Venezia e Costanza anche un piccolo scandalo. Sul principio del 1416 Caronda sparse la voce che Guarino avesse composto un libro, nel quale [37] avea raccolto tutti gli errori dei recenti traduttori dal greco; il Bruni naturalmente, come il più attivo dei traduttori, vi era impegnato. Bartolomeo da Montepulciano ne scrisse a Guarino chiedendogli una copia dell'opuscolo. Guarino gli rispose meravigliato di una simile fandonia e se ne lagnò anche col Poggio, che fece del suo meglio per cancellare ogni traccia della malevola invenzione; e tutto per allora finì lì.

83. Dal soggiorno della corte pontificia in Costanza l'umanismo ripete uno dei più grandi impulsi, venutogli con le scoperte di codici latini, delle quali il Poggio fu l'eroe. Approfittando dell'ozio che gli concedeva l'interregno pontificio egli intraprese da Costanza alcuni viaggi, parte in Francia, parte in Germania. Quelli in Francia, che furono i primi e li fece da solo, cadono nella seconda metà del 1415. Andò a Parigi, dove trovò un Nonio Marcello, che del resto era conosciuto, se non letto, già innanzi, poichè fin dal 1407 si sapeva esisterne una copia in Pavia. Trovò a Cluny un primo nucleo di orazioni ciceroniane e un secondo a Langres.

84. I viaggi in Germania invece cadono negli anni 1416 e 1417. Il centro di questa seconda serie di esplorazioni fu la badia di S. Gallo, dalla quale egli mosse alle badie circostanti. Qui il Poggio ebbe compagni il Rustici e più ancora Bartolomeo da Montepulciano. Anzi Bartolomeo nel febbraio 1417 proseguiva per proprio conto le ricerche e giusto in quel tempo scoperse a S. Gallo un Vegezio e un Festo.

85. Le notizie delle scoperte volavano subito per tutto, specialmente a Firenze e a Venezia. Da Venezia il 6 luglio 1417 il Barbaro scriveva al Poggio una lunga lettera di congratulazione, nella quale si trovano nominati i migliori acquisti fatti: Tertulliano, Silio Italico, Marcellino, Manilio, Lucio Settimio, Valerio Flacco, Capro, Probo, Eutichio, Nonio Marcello, Lucrezio, Asconio Pediano, Quintiliano, oltre ai suaccennati scoperti in Francia e a quelli di cui ci [38] ha lasciato notizia il Rustici, cioè Vitruvio, Prisciano (Partitiones XII versuum Aeneidos) e Lattanzio (De utroque homine).

86. Questi autori o erano interamente ignorati o mal noti. A Venezia e a Padova arrivò subito un Marcello, non dopo la metà del 1416; Guarino e il Barzizza ebbero anche un Asconio, Guarino un Lucrezio. Ma i due più preziosi acquisti furono Quintiliano e le orazioni di Cicerone. Un Quintiliano l'ebbe Guarino dal Poggio, uno il Barzizza, probabilmente dal cardinale Branda Castiglioni. Il Poggio poi scoprì un secondo Quintiliano, di cui si impossessò e che portò o mandò in Italia: quello stesso che ora si conserva nella Laurenziana di Firenze. Anche di questo ricevette Guarino copia dal Poggio.

87. Per le orazioni di Cicerone invece Guarino e il Barbaro si dovettero rivolgere al circolo fiorentino, con cui il loro commercio epistolare non era meno vivo che con quello di Costanza, specialmente per alcuni Veronesi, che dimorando in Firenze contribuivano ad alimentare la corrispondenza tra le due città. Veronese era Galesio della Nichesola, ufficiale della mercanzia negli anni 1416-1417; veronese il Salerno, podestà nel 1418, col suo vicario Guglielmi; veronese Paolo de Paolinis, professore di filosofia morale. Nel 1418 Guarino raccomandava per l'ufficio della mercanzia in Firenze Filippo di Cipro al Corbinelli, allo Strozzi, al Barbadoro, al Boninsegni. E in uno di quegli anni fece, in compagnia di suo zio Francesco, una gita a Firenze il piccolo Ermolao Barbaro, che vi conobbe il Marsuppini, il Traversari e gli altri. Guarino era tornato in pace col Niccoli sino almeno dal 1416 e con lui e col Traversari scambiava codici.

88. Questo commercio avea di solito per intermediario il Barbaro, la cui corrispondenza col Traversari era copiosissima. Il Niccoli mandava a Venezia le orazioni di Cicerone scoperte dal Poggio e le Epistole ad Attico, rendeva conto di [39] un Tucidide vendutogli dall'Aurispa a Pisa, di un Trogo scoperto dall'Adimari in Spagna e mandava le orazioni di Demostene tradotte dal Bruni. Il Traversari poi inviava a Venezia le lettere del Crisolora, copiava per il Barbaro l'Agesilao di Senofonte ed emendavagli un Lattanzio; traduceva la Scala Santa e Grisostomo e ne spediva copia a Venezia.

89. Da Venezia non erano meno generosi; di là partivano le nuove produzioni del Barbaro e del Giustinian; di là Guarino spediva gli opuscoli di Senofonte e il Barbaro colmava una lacuna al Livio del Traversari. La ricca collezione del Barbaro, della quale presentemente stava compilando il catalogo, fornì ai Fiorentini le lettere di Platone e di Basilio, un Nicandro, Alessandro Afrodisio, un Apollonio, un Filostrato, un Diogene. Anche Venezia ebbe la sua importante scoperta, poichè Guarino nei primi giorni del 1419 trovò fra molti codici sacri l'Epistolario di Plinio in otto libri, antichissimo, ora perduto, e che fu l'archetipo di una intera famiglia di codici Pliniani.

90. Tirata la somma, Guarino nel quinquennio che stette a Venezia impresse un potente impulso agli studi. Quello fu un breve periodo, ma un periodo aureo, in cui Venezia brillò come faro dell'umanismo. A Venezia mettono capo le fila da Costanza, da Firenze, da Padova; e Guarino le raccoglie e le compone in mirabile unità. Ma Venezia dovea cedere presto il primato ad altre città, contentandosi di passare in secondo ordine, vuoi perchè non era favorita da tutte quelle condizioni che danno lunga vita a un centro di studi, vuoi perchè Guarino piantò altrove le sue tende, lasciando però dietro di sè larghe tracce in quella schiera di valorosi patrizi, che frequentarono la sua scuola.

91. Guarino si cominciò a sentire a disagio in Venezia sin dalla fine del 1417; anzi trattava per avere un posto [40] presso la curia pontificia. Che volesse abbandonare l'insegnamento per cercarsi uno stato meno precario e più durevole? Già si lamentava nel 1416 quando comparivano i primi capelli grigi; e il Barzizza lo eccitava paternamente a costituirsi una buona volta una posizione stabile. Quelle esitanze di Guarino fecero rinascere la speranza nei Fiorentini di riaverlo, ma fu vana lusinga.

92. Fallito il tentativo con la curia, Guarino mutò punto di appoggio e rivolse le sue mire a Verona. Quanti vincoli non aveva egli a Verona! Tutti gli amici, tutti i parenti, che lo amavano, che lo stimavano, lo avrebbero voluto colà. Colà si era trasferito nella prima metà del 1418 il suo carissimo Cristoforo Parma, colà egli avrebbe desiderato tirare da Firenze il veronese Paolo de Paolinis. Il suo diletto Maggi e l'ottima madre metteano in opera tutti i mezzi per farlo venire a Verona; e pare che egli cominci a cedere.

93. Le sue visite alla città natale diventano più frequenti: il Maggi e la madre gli aveano proposto un matrimonio. Si offriva a Guarino quella posizione, che egli poteva considerare ormai come stabile e definitiva, il suo sogno era in via di avverarsi; egli avrebbe abbandonato la vita del maestro errante, che piaceva tanto all'amico Cristoforo. Alla fine di ottobre del 1418 egli torna da una visita a Verona lasciando, come si dice, carta bianca alla madre e al Maggi; e il matrimonio è combinato con Taddea Zendrata figlia di Niccolò.

94. Le nozze furono celebrate il 27 decembre dello stesso anno; come dote gli vennero assegnate delle case in Verona e dei terreni a Valpolicella. Non condusse però seco subito la moglie; il che non gli impedì di difendere strenuamente, per quanto νεοθάλαμος, il matrimonio quando Antonio Corbinelli pretendeva tra il serio e lo scherzevole di dimostrargli, che esso nuoce agli studi. Verso il principio del 1419 prese moglie anche Francesco Barbaro, a cui poco dopo morì il [41] fratello Zaccaria: due nuove ragioni che distaccarono maggiormente Guarino da Venezia.

95. Nel marzo 1419 Federico Pittato, cugino della moglie, gli scriveva come ella lo sospirasse e come fosse aspettato a braccia aperte da tutta la città. Spesi pochi giorni a sbrigare le ultime faccende e a prender commiato dagli amici, Guarino già ai primi di aprile dovette probabilmente trovarsi a Verona.

Guarino a Verona. (1419-1429)

96. Ecco nell'aprile del 1419 Guarino in Verona sua patria, in seno alla propria famiglia, nella casa dotale in contrada Falsurgo, circondato dall'affetto della madre, della sposa e degli altri parenti e degli amici. Non ha nessun incarico ufficiale per insegnare, ma egli apre subito scuola privata, alla quale accorrono i giovani delle migliori famiglie veronesi: i fratelli Verità, Lodovico Cavalli, Lodovico Mercanti, Lodovico Polentino, Bartolomeo Pellegrini, Bartolomeo Brenzoni, il Pisoni, il Maggi; da Bologna viene il Lamola.

97. Però questa scuola ebbe tristi auspicii, giacchè dopo poco più di un mese a Verona si sviluppò la pestilenza; gli scolari si sbandarono, i cittadini fuggirono e anche Guarino riparò nella sua villa di Valpolicella, portando seco la famiglia propria e quella del suocero. I fratelli Verità si ricoverarono a Cerea, il Brenzoni nella sua villa omonima sul lago di Garda, il Pisoni e il Maggi a Riva di Trento; il Lamola tornò a Bologna.

98. Guarino stava a Valpolicella già nel maggio. Era la prima volta che egli piantava residenza nella villa e perciò si compiace di ammirarla e di gustarne le bellezze. E non [42] si può tenere dall'invitare a partecipare di tanta gioia i suoi cari, come il parente Battista Zendrata e Tommaso Fano e Zenone Ottobelli, cercando di adescarli con una minuta descrizione del luogo.

99. Comincia dal clima. Clima dolcissimo e mitissimo. Con questi calori eccessivi del giugno, scrive Guarino, altrove si muore, qui invece par di essere in primavera. Di giorno serenità incantevole, di notte si possono contare le stelle. Qui raramente spirano venti impetuosi; sempre mossa e dolce è l'aria, che col suo susurro invita al sonno. Qui si vive lunga vita e questi vecchi contadini sono vegeti e robusti e nel pieno possesso delle loro facoltà mentali. E la sua posizione? deliziosa. Valli apriche, nè profonde, nè scoscese, coronate tutt'all'intorno da colline verdeggianti e fertili al pari della pianura. Qua oliveti, là vigneti, altrove prati vestiti di erbe e irrigati da numerosi e perenni ruscelletti e giù in basso l'Adige serpeggiante.

100. Passando alla villa, essa è piantata su un dolce pendìo, nè troppo alto da stancare chi ci voglia salire, nè troppo basso da impedire la vista di un ampio orizzonte. Di dietro e ai fianchi è circondata da colli in forma di anfiteatro, la facciata si apre davanti a una estesa pianura, traversata dall'Adige, e in fondo alla quale torreggia Verona. Questo l'esteriore della villa. L'interno offre buone stanze; ci è un portico, dove all'estate si respira l'aria fresca e all'inverno si gode un buon sole. Le finestre dànno alcune sui prati, altre sulla pianura, altre sul fiume. Davanti ci è un'aia e nell'aia un pozzo ricco di acqua.

101. Noi non vogliamo negar fede alla descrizione di Guarino; ma ci sorprende che essa sia fatta quasi tutta con le medesime frasi adoperate da Plinio nel descrivere la sua villa di Toscana. La corrispondenza delle descrizioni ci obbligherebbe ad ammettere la corrispondenza delle due ville; però [43] io amo meglio credere che qui Guarino abbia sacrificato un poco la realtà della sua villa alla idealità di una descrizione foggiata su un modello classico come Plinio.

102. Alla villa non mancavano feste di famiglia e visite di amici, che andavano a godere la compagnia di Guarino; e Guarino stesso di là faceva qualche escursione, come quella verso l'ottobre sul lago di Garda, nella tenuta Brenzoni. Ivi restò una settimana e ricevette una profonda impressione di quei luoghi montuosi, che egli vide forse allora la prima volta. Ed è graziosa la scherzevole caricatura che egli ne fa al Brenzoni, confrontando il carattere selvaggio di quei monti col carattere mite della sua Valpolicella. Ma anche nella caricatura si sente che Guarino ha colto in sul vivo quella natura orrida; e qui non segue nessun modello classico. Tutto reminiscenze classiche è invece il carme a Lodovico Mercanti sul lago di Garda, dove però spirano sentimento vero i pochi versi che alludono alla parentela fra gli abitanti del lago e i Veronesi.

103. Da Valpolicella tiene vivo carteggio coi suoi scolari, ai quali raccomanda di ripassare le poche lezioni imparate, per non trovarsi poi a disagio nella ripresa del corso. E scherza con essi, come col distratto Pisoni, e impartisce savi consigli, come al Polentino e al Pellegrini, e non rifugge dal correggere gli spropositi di lingua latina, come a Lodovico Cavalli e a Giacomo Verità, ai quali spiega come in latino non si adoperi, parlando a una persona sola, il voi ma il tu. In tutte queste lettere ai suoi scolari tra i consigli savi e le parole affettuose campeggia però una preoccupazione: la preoccupazione della peste, sulla quale non si sapeano far prognostici e che intanto gli impediva di tenere aperto il corso. È chiaro che Guarino da quell'interruzione dubitava potergliene venir danno. Egli non avea nessuna nomina ufficiale e forse cercava di guadagnarsela con la simpatia e la stima, che gli [44] avrebbe procacciato il corso privato. Per questa ragione desiderava affrettare il ritorno a Verona, che fu fissato per il 28 ottobre.

104. Il Maggi, che in tali faccende si mettea sempre alla testa, reduce da Riva di Trento, e lo Zendrata e altri aveano progettato una dimostrazione per il ritorno di Guarino e di sua moglie. Si erano sposati a Verona nel Natale del 1418; indi Guarino era ripartito solo per Venezia, dove stette fino a tutto il marzo del 1419. Non si erano ben ricongiunti a Verona, che scapparono a Valpolicella. Chi li avea veduti gli sposi novelli? chi li avea festeggiati? E Guarino, il famoso maestro vagante, che alla fine rientrava in patria, chi l'avea festeggiato, se dopo un mese poco più dovette interrompere le lezioni? Era dunque giustissimo che il ritorno suo in città fosse accolto con una ovazione. Guarino tentò tutti i mezzi per eludere, modesto e riservato come era, le pratiche degli amici; ma possiamo credere che gli amici abbiano vinto.

105. Rientrato in città Guarino sentì di trovarsi, come ho già detto, in una posizione incerta; e infatti al Lamola scrive esortandolo a tornare, chè per un anno almeno contava di fermarsi in Verona. E intanto si dà le mani attorno per aprire solennemente il suo corso scolastico 1419-1420 e domanda al Gualdo e al Barzizza Asconio Pediano e Quintiliano. Intendeva fare un corso di retorica. E la prima orazione inaugurale pronunciata in Verona prelude effettivamente a un corso di retorica. Se Guarino non ebbe motivi di mutare il tempo, fu pronunciata verso il Natale.

106. L'impressione prodotta nel pubblico deve essere stata favorevolissima, perchè il Consiglio di Verona nel seguente anno 1420, il dì 20 maggio, con 45 voti su 50 nominò Guarino insegnante di retorica per un quinquennio con lo stipendio annuo di 150 scudi. Gli fu imposto di leggere le Epistole e le Orazioni di Cicerone; nel resto gli si lasciava libera scelta. [45] Così gli fu lasciata libertà anche di dar lezioni private e di riscuotere per esse emolumenti.

107. E fu bene che Verona si fosse assicurato Guarino per un quinquennio, giacchè in quell'anno stesso, non molti mesi dopo, sembra che lo rivolessero a Venezia e a Firenze. Certo un invito formale gli venne da Vicenza. L'anno seguente o al più tardi il 1422 lo invitò, e con buone condizioni, alla sua corte anche il principe Gianfrancesco Gonzaga di Mantova, prima che ci andasse Vittorino da Feltre. Ma Guarino ricusò sempre, adducendo a tutti la medesima ragione, che egli era impegnato con Verona, dove non insegnava tanto allettato dall'interesse quanto indotto dall'utile dei suoi concittadini e da carità di patria.

108. Verso la metà del settembre di quell'anno, 1420, passava per il territorio veronese Lodovico Migliorati signor di Fermo, mandato da Carlo Malatesta a dar soccorso al fratello Pandolfo, che era assediato in Brescia dal Carmagnola. Guarino in nome della sua città indirizzò una lettera al principe, pregandolo di risparmiare nel passaggio i poveri contadini e le terre.

109. Nel 1421 la scuola di Guarino fu visitata e frequentata da due celebri alunni forestieri: frate Alberto da Sarzana ed Ermolao Barbaro veneziano. Frate Alberto fu con Bernardino da Siena l'uno dei due monaci per i quali Guarino nutrì stima e venerazione illimitata, egli che di fronte agli altri monaci, quali fra' Timoteo da Verona, pure suo scolaro, e fra' Giovanni da Prato, si mostrò indipendente per quanto rispettoso. E conobbe di persona anche Bernardino, quando andò a predicare nella cattedrale di Verona l'anno seguente, 1422, anzi in quei pochi mesi l'ebbe frequentatore delle sue lezioni. Frate Alberto allorchè si presentò alla scuola di Guarino era uomo fatto e conosciuto per la sua predicazione. Passato da Firenze, dove conobbe tra gli altri il Niccoli, e da Padova [46] e Venezia, dove conobbe i dotti Veneti, sopra tutti il Giuliani e il Barbaro, giunse a Verona nel settembre 1421, fornito di cognizioni sacre e di buone qualità oratorie; gli mancava la cultura letteraria, un po' di greco e un po' di raffinatura nella forma latina. Ciò fu quello che egli imparò da Guarino, al quale conservò perenne riconoscenza ed affetto, tanto che ancora parecchi anni dopo, nel 1434, lo chiamava non il suo precettore, ma il suo direttore spirituale, perchè lo aiutava a vestir di bella forma i dettati divini.

110. L'altro scolaro, Ermolao Barbaro, figlio del fu Zaccaria e ora sotto la tutela dello zio Francesco, venne a Verona qualche mese prima, nell'estate del 1421. Ma questi era ancora fanciullino, tredicenne appena, un portento di precocità intellettuale; eppure fanciullino come era aveva fatto la sua brava visita a Firenze dove conobbe e si fece «amici» il Traversari, il Niccoli, il Marsuppini. Ermolao fu più tardi vescovo di Verona. Questi due nuovi scolari diedero dopo un anno frutti della loro operosità: frate Alberto con un discorso pronunziato a Verona nella festa del Corpus Domini (11 giugno 1422) ed Ermolao con la traduzione latina di Esopo dedicata al Traversari (1.º ottobre 1422).

111. Nell'agosto del 1421 Guarino lavorava intorno all'orazione funebre per Giorgio Loredan, il vincitore di Gallipoli (nel 1416), caduto vittima in quest'anno stesso di un agguato sulle coste siciliane. Guarino aveva aggravato la mano sugli autori dell'agguato, ma il Barbaro prudentemente lo consigliò a mitigare alquanto l'acerbità del linguaggio, che nonostante rimase molto aspro. Non sappiamo se Guarino sia andato a recitare l'orazione a Venezia, dove del resto si suppone tenuta. Il Barbaro in quei mesi estivi peregrinava per il territorio padovano, vicentino e veronese, fuggendo la peste che infestava Venezia. Anzi a Montagnana il 1.º ottobre si incontrò con Guarino.

[47] 112. Due altri avvenimenti dobbiamo registrare in quest'anno: l'uno fausto, l'altro tragi-comico. Il fausto è la nascita del primo figlio Girolamo, venuto alla luce il 20 settembre. Gli mise nome Girolamo allo scopo di perpetuare la memoria dell'amicizia con Girolamo Gualdo, a cui scrive che, se non potrà lasciare al figlio eredità di sostanze, cercherà di costituirgli un buon corredo di cognizioni. Ecco ora l'avvenimento tragi-comico. Un tale Antonio Quinto, tipo di demagogo da trivio, si intruse un bel giorno nel Consiglio di Verona e alla presenza di tutti e del podestà e del capitano cominciò una filippica contro Guarino, sostenendo che gli si dovea levare lo stipendio per non aggravare inutilmente il bilancio del comune. Informatisi gli astanti della sua condizione e come si fosse intruso, venne fatto uscire tra i fischi universali. Fuori di Consiglio poi fu tutto quel giorno un coro di lodi in favor di Guarino, specialmente da parte del Pasi, provveditor del comune. Guarino come è ben naturale da questo incidente guadagnò anzichè scapitare.

113. Buon successo ottenne la prolusione di Guarino del 22 maggio 1422 al De officiis di Cicerone. Il Maggi ne volle una copia, accompagnata da considerazioni sulla sua struttura retorica. Questo fu l'anno della famosa scoperta delle opere retoriche di Cicerone, trovate dal vescovo Landriani a Lodi e decifrate e trascritte a Milano per opera di Gasparino Barzizza, di Cosimo Raimondi e di Flavio Biondo. La notizia della scoperta giunse a Verona nel giugno e il 18 dello stesso mese Guarino mandava al vecchio amico e collega Barzizza il suo scolaro Giovanni Arzignano, quale ambasciatore del circolo letterato veronese, a riportare una copia delle nuove opere ciceroniane. L'Arzignano tornò col solo Orator, che fu subito distribuito agli amici.

114. Nell'autunno passò Guarino a Valpolicella, dopo due anni che non c'era stato. La corrispondenza da Valpolicella ci [48] fa conoscere due nuovi e valenti scolari di Guarino: Giacomo Lavagnola veronese, che battè poi la via delle magistrature, fu capitano a Firenze, podestà a Siena e Bologna e senatore di Roma; e Tommaso Pontano, che frequentò di poi i circoli di Venezia e Firenze, e professò a Bologna e nell'Umbria.

115. Alla fine del 1422 o al principio del 1423 nacque a Guarino il secondo figlio Esopo Agostino. Nell'aprile 1423 si festeggiò anche a Verona l'elezione del doge Francesco Foscari, tanto più che egli era conosciuto colà, essendovi stato capitano nel 1421. Guarino ebbe l'incarico di redigere a nome della città una lettera di congratulazione. La monotonia delle solite occupazioni fu interrotta quest'anno da una gran gita fatta per il contado veronese negli ultimi giorni di luglio e nei primi di agosto. Vi prese parte una numerosa comitiva di uomini e di donne: c'erano p. e. Guarino, lo Zendrata, il Concoreggio, il Sabbioni, lo Spolverini, il Manfrin, il cui cavallo fece per parecchi giorni dipoi le spese ai motteggi e alle risate degli amici. Ci furono divertimenti di caccia, di pesca e soprattutto gran mangiate. Nella brigata c'era una persona nuova per noi, ma che d'ora innanzi diverrà nostro conoscente, Flavio Biondo da Forlì, esule dalla sua patria, il quale errando da un paese a un altro in cerca di un punto d'appoggio capitò eventualmente per pochi giorni a Verona. Nell'autunno Guarino fece la solita villeggiatura a Valpolicella.

116. Ma ecco avanzarsi un anno tempestoso per Guarino, il 1424. I timori della pestilenza si erano affacciati sin dai primi decembre del 1423 e Guarino allora stesso pensava ad un eventuale ricovero. La minaccia continuava verso la metà gennaio 1424, ma pare che poco dopo sia entrata una sosta.

117. Intanto veniva il febbraio e Verona riceveva la visita di un personaggio illustre, l'imperatore Giovanni Paleologo di Costantinopoli. Era arrivato a Venezia il 15 decembre [49] 1423. Ivi si fermò un paio di mesi e in quel tempo fu ossequiato da Leonardo Giustinian e da Francesco Barbaro, che adoperarono con lui il linguaggio greco. Egli senz'altro riconobbe in loro degli scolari di Guarino, nè si ingannava; e domandò notizie di Guarino, che egli ricordava benissimo. Ripartito alla volta di Milano, fece sosta a Verona, dove entrò il 21 febbraio, accolto solennemente dalle autorità, salutato da un discorso di Guarino e ospitato nella badia di S. Zen. Guarino ebbe così occasione di rinfrescar le dolci memorie del suo soggiorno a Costantinopoli e di conoscere alcuni del seguito dell'imperatore, coi quali più tardi strinse intima amicizia, p. e. l'Aurispa. Fu in quella circostanza che egli seppe una cattiva novella. Gli raccontarono come il Filelfo introdottosi in casa di Giovanni Crisolora, nipote del morto Manuele, ebbe commercio impudico con la moglie e indi sposò la figliola. Il Poggio riferisce alquanto diversamente: che il Filelfo abusando dell'ospitalità offertagli dal Crisolora gli viziò la figliola e che indi per interposizione di alcuni mercanti italiani lo scandalo fu riparato con un matrimonio. Il giorno dopo l'imperatore riprese il viaggio.

118. Ai primi di maggio troviamo Guarino già in villa; ciò significa che la pestilenza faceva progressi. Questa volta non è la villa di Valpolicella, ma di Montorio, altra bella posizione dei dintorni di Verona. Montorius è il mons ὡραῖος, il mons speciosus, come Polizella è πολύζηλος, il paese desiderato. Le stanze doveano essere un poco in disordine ed egli pone subito mano a racconciarsi la propria camera da letto, incaricando l'amico Faella di fornirgli da Verona dei mattoni. A Montorio stava a suo agio, senza troppe preoccupazioni, ora godendosi la campagna, ora studiando e corrispondendo con gli amici e scolari, che erano chi in città, chi fuori. Tra gli scolari ne incontriamo tre nuovi: un veneziano, Bernardo Giustinian, figlio di Leonardo, amico di [50] Ermolao Barbaro; un veronese, Bartolomeo Genovesi; un fiorentino, Mariotto Nori, del quale avremo occasione di occuparci ancora più tardi.

119. Da Montorio poi faceva frequenti escursioni nei paesi circonvicini a trovarvi gli amici. Così il 26 maggio andò a visitare Giacomo Lavagnola nella sua villa di Poiano; il 4 e 5 giugno fu a Zevio «a rinfrescare l'amicizia» col Faella, che da forse un mese era stato nominato vicario di quel distretto. Qualche giorno dopo dovette incontrarsi a S. Sofia col Salerno e col Maggi e insieme con essi fece la seconda passeggiata a Zevio. E questa seconda riuscì oltre ogni credere dilettevole. «Sta bene lo studio, dice Guarino, ma di quando in quando uno svago ci vuole: tanto per ristorare le forze e tornare al lavoro con maggior lena. In fondo il frutto delle lettere non è mica di amare la solitudine, ma anzi di fuggirla e imparare a vivere nel consorzio degli uomini: non basta vivere, bisogna anche convivere». Il Faella, che conosce il gusto dei suoi ospiti, li accoglie presentando loro senz'altro un bel codice antico di santi padri. Non ci volea di meglio per Guarino, che lo contempla avidamente e rispettosamente e vi leggicchia dentro qua e là. Eccoli intanto a mensa i quattro bravi amici: ma «mensa socratica», sobria e per compenso condita di motti arguti, di urbanità, di citazioni classiche, di serietà e di facezie. «Si siede non tanto per mangiare, quanto per ragionare». E dopo la mensa non mancarono i canti e i suoni. Perchè doveano mancare? «Non fa Vergilio cantare il crinito Iopa alla mensa di Didone? e Omero non fa cantare Demodoco alla mensa di Alcinoo?»

120. Il 25 giugno passò dalla villa di Montorio a quella di Valpolicella per assistere alla mietitura: «l'occhio del padrone ingrassa il cavallo». Ivi trovò anche il tempo di tradurre i Paralleli di Plutarco e mandarli al Lavagnola. Ma [51] non era trascorso un mese dacchè stava a Valpolicella, quando Guarino sente parlare di casi di peste anche nei paesi limitrofi alla villa. Visto dunque che tanto in città, quanto nel contado non c'era più scampo, si risolse di cercare altrove un rifugio e sceglie Venezia. Intanto andrà egli solo a preparare il posto; indi tornerà a prendere la famiglia.

121. Partì il 28 luglio, pernottando a S. Martino in casa dell'amico Concoreggio, per trovarsi pronto il mattino seguente di buon'ora. Andò a Venezia, preparò il posto e dopo pochi giorni fu di ritorno a Verona, dove trovò una brutta novità, la morte del padre di Battista Zendrata. Fa intanto i fagotti e con la moglie e i due bambini va a S. Martino. Ivi mette la moglie, incinta, su una mula, carica i due bambini in due corbelli su un'altra mula, monta a cavallo anche lui e la carovana si muove alla volta di Este per passare di là a Venezia. Ma che è che non è, la famiglia di Guarino agli ultimi di agosto si trova a Trento. Probabilmente appena messisi in cammino, ebbero notizia del divieto ai Veronesi di entrare a Venezia, perchè provenienti da luogo infetto. Allora Guarino mutò strada e si riparò nel Tirolo. Ivi portò anche la suocera.

122. Si rifugiò dapprima a Trento, ma anche là dopo qualche giorno si ebbero casi di peste; e allora egli mutò residenza e ancora ai primi di settembre si trasferì in un paese vicino, a Perzen o Pergine. Il paese gli fece un'ottima impressione. Già era di buon augurio il nome stesso, da περῖ ζῆν (pro vita). «Bella la posizione. Sull'alto del colle il castello, a basso le abitazioni, all'intorno campi ben coltivati, verdeggianti prati, orti fiorenti. Scorre tra mezzo il paese un fiumicello, che con le onde cristalline invita a bere e col mormorio concilia il sonno; e lì presso tre laghi. Ivi divertimenti di caccia e di pesca. Gli abitanti poi abbastanza ospitali e servizievoli». Questa fu la prima impressione; ma dovette [52] ben presto modificarla e infatti più tardi sentiamo che egli giudica molto diversamente i Tirolesi, chiamandoli barbari ed eterni beoni. Un tal concetto dei Tirolesi egli del resto l'aveva alcuni anni innanzi, quando nel 1419 scrivendo al Maggi, che stava a Riva di Trento, diceva di quegli abitanti coi suoi soliti scherzi di parola: ii non tam filiis vacant quam phialas vacuant nec tam liberos patres erudiunt quam Liberum patrem hauriunt.

123. Ed ora al Maggi stesso compie il quadro: «Alcuni popoli ebbero protettore Saturno, altri Nettuno, altri Apollo; qui il patrono è Bacco. A lui è sacro tutto l'anno, anzi tutta la vita di questa gente; ma c'è poi la sua festa solenne. Quel giorno, mattino mezzodì e sera, è un continuo trangugiare inni a Bacco e tutti bevono e chi più beve più crede campare. Uno tracanna i tre secoli di Nestore, un altro tracanna la longevità propria e quella dei figli e dei nipoti. Chi vuota il bicchiere tutto d'un fiato, vive lunga età; chi non lo finisce, guai per lui! la vita gli si troncherà a mezzo. E io che vedo tutto ciò e che ne sento nausea, devo far l'occhio ridente e batter le mani. Me mi chiamano la gru, perchè ho il collo liscio e sottile. Questa gente qui, uomini e donne, hanno il gozzo e taluni tanti piccoli gozzi, come se portassero intorno al collo una collana di ova. E come ne vanno superbi! e chi non ne ha, peggio per lui. Infatti ne vuoi sentire una? Testè è rimasto vacante un posto di parroco. I candidati erano due e il paese tentennava assai nella scelta, quand'ecco si presenta un terzo competitore con un enorme gozzo. Manco a dirlo; è stato scelto lui, per quanto fosse ignorante e poco costumato; ma l'uomo gozzuto qui è il Messia». Altrove chiama porci i Tirolesi, aggiungendo che temeva non gli accadesse quello che accadde ai compagni di Ulisse nell'isola di Circe.

[53] 124. Fatta però la dovuta tara allo scherzo e all'esagerazione, nel Tirolo Guarino non si trovò male, eccetto le preoccupazioni per il prossimo parto della moglie e per la scarsezza del danaro. Ma per il danaro pensava il suo parente Zendrata, che ora gli riscuoteva alcuni piccoli crediti, ora si faceva anticipare la mesata dello stipendio. Del resto Guarino ricorreva in ogni suo bisogno alla sagace e affettuosa cura dello Zendrata, col quale corrispondeva frequentemente per mitigare così il dolore dell'assenza. Si teneva in stretta relazione anche col Maggi, al cui consiglio faceva sempre capo prima di prendere qualche grave risoluzione. Nè dimenticava gli altri amici che erano a Verona, quali i fratelli Cattaneo, Damiano Borgo, Leonardo Alighieri, il Guidotti, il Nori, il Genovesi; o fuori di Verona, come il Faella vicario a Zevio e il Salerno rifugiatosi per la peste a Reggio.

125. Ma intanto a Verona si preparava una brutta sorpresa al nostro Guarino. Un poco profittando della sua assenza, un poco della circostanza che tra qualche mese gli scadeva il quinquennio, un poco della maligna calunnia messa in giro da taluni che egli curasse più gli scolari interni che non i pubblici: profittando di tutto ciò qualche suo invidioso prese a muovergli guerra e tanto maneggiò che il Consiglio del comune stava per pigliare la deliberazione di non rinnovare il quinquennio a Guarino e di licenziarlo. Lo Zendrata e il Maggi si adoperarono molto in quest'occasione per scongiurare il pericolo; ma chi più di tutti ruppe una lancia per l'onore di Verona e di Guarino, fu un suo discepolo, il quale pronunziò davanti al Consiglio un bellissimo discorso, splendido monumento della riconoscenza professata dal discepolo e dell'affetto inspirato dal maestro. Peccato che il caso ci abbia negato il nome del generoso giovane.

126. Comincia egli col dire che quella è la sua primizia letteraria e che intende offrirla alla gratitudine che nutriva [54] verso il precettore. Traccia la vita di Guarino per sommi capi, rammentando i suoi primi studi, l'andata a Costantinopoli, il ritorno, la condotta a Firenze, a Venezia, a Verona. Ricorda gli onori e gli elogi tributatigli dalla casa imperiale di Costantinopoli, dai suoi scolari, l'invito a Mantova rifiutato, la magistratura di Scio. Mette in rilievo le benemerenze civili di Guarino verso Verona, ma soprattutto il suo carattere morale, di cui fa un quadro commovente, in particolar modo dove parla della sua generosità nel perdonare o non nuocere ai suoi nemici e del suo amore per la giustizia nel proteggere i deboli contro i prepotenti. Quanto alla calunnia che Guarino prediligesse gli alunni interni a scapito dei pubblici, la respinge sdegnosamente ed energicamente, egli che come studente pubblico non si accorse mai di quella parzialità.

127. Questo fu un altro piccolo trionfo per Guarino, come nel 1421: quantunque egli non avea bisogno di una simile soddisfazione, chè gliene era stata data una da fuori, la quale potea ben compensarlo delle misere invidie di qualche suo concittadino. Infatti nella prima metà di novembre gli venne un invito da Venezia e uno da Bologna. L'invito di Bologna «era più onorifico per l'antichità e la fama di quell'Ateneo», l'invito di Venezia «era più lucroso per le vecchie e rispettabili conoscenze» che vi avea Guarino. Egli stette in forse fra le due città, ma nel medesimo tempo interrogava gli amici di Verona per sentire gli umori del Consiglio; giacchè egli «preferiva un modesto collocamento in Verona a uno lauto altrove». Il partito degli onesti vinse e lo Zendrata esortò Guarino a ritornare in patria; ciò prova che la rielezione era assicurata.

128. L'appianamento di questa difficoltà fu coronato dal parto felice della moglie, la quale il 7 decembre a Trento, dove erano tornati da Pergine sin dal 21 novembre, diede in luce [55] un maschio. Guarino e i parenti furono contenti del maschio e il padre gli mise nome Manuele per gratitudine verso il suo antico maestro e perchè il figlio avesse uno stimolo continuo a ben fare, se voleva rendersi degno del nome che portava. Così Guarino può pensare al ritorno. Intanto partì lui agli ultimi di decembre, lasciando a Trento la moglie e i bambini, per il ritorno dei quali si sarebbe atteso che fosse passato il crudo rigore invernale.

129. Era appena tornato Guarino, che il Consiglio nella seduta del 10 gennaio 1425 lo confermò per un altro quinquennio con le medesime condizioni del primo. Però nelle considerazioni che accompagnano la proposta ce n'è una nuova e che torna a lode di Guarino, dove si dice che il Consiglio, «avendo inteso dei molti onorifici inviti pervenuti a Guarino da altre città, reputava conveniente non lasciarsi sfuggire un personaggio che era di decoro e di utilità a Verona». La famiglia avrà forse aspettato la primavera; certo era di ritorno nel principio dell'aprile. Guarino pertanto riprese tranquillamente le sue occupazioni, intramezzate da qualche gita fuori. Così ne fece una nell'aprile a Vicenza a trovarvi il Barbaro e il Biondo, ne fece una nel luglio a Montorio e una terza a Venezia nel 16 ottobre per un pubblico incarico.

130. Ma la gita a Montorio fu per una funesta circostanza, la morte della suocera, che egli amava e apprezzava molto perchè virtuosa quant'altra donna mai. «Le faccende domestiche erano per essa un passatempo; avea senno e prontezza virile negli affari di maggior gravità; conosceva bene il mercato, ponderava le parole, nelle liti era rispettato il suo consiglio, in casa faceva ella da medico». Era morta di perniciosa sulla fine di giugno e Guarino sentì bisogno di un poco di pace campestre per mitigare il dolore della perdita. Nell'autunno non andò egli a Valpolicella, mandò invece la [56] moglie a sorvegliare la vendemmia, poichè essa dopo la morte della madre «era diventata erede come delle sostanze così delle incombenze materne».

131. Intorno all'agosto incontriamo a Verona il Giuliani coi figli e con Filippo Camozzi, maestro di casa. Forse era venuto con qualche pubblico incarico del governo di Venezia. Con altri due amici veneziani si trovò Guarino agli ultimi di settembre: i due Ermolai, il Barbaro già suo scolaro e il Donati. Il Donati veniva da Vicenza, dove stava col podestà Francesco Barbaro, a visitare Verona che non aveva mai veduto. Guarino gli fece da guida.

132. Quest'anno abbandonarono la scuola di Guarino due dei suoi più famosi allievi: Martino Rizzoni veronese, più tardi maestro della Isotta Nogarola, il quale andò nel settembre a Venezia come institutore privato in casa Tegliacci; e Giovanni Lamola bolognese, che a un dipresso nel medesimo tempo si ritirò a Bologna, di dove lo ritroveremo nuovamente in corrispondenza con Guarino.

133. Nel giugno dell'anno seguente 1426 ci fu l'arrivo in Verona dei figli Paolo e Bonaventura di Giacomo Zilioli consigliere del marchese di Ferrara; essi venivano alla scuola di Guarino e con ciò si rendevano più intimi i legami d'affetto della famiglia Guarini con la corte di Ferrara.

134. Ma nello stesso mese un avvenimento triste conturbò l'animo di Guarino: la morte di Giannicola Salerno, rapito nella età di soli 47 anni agli amici e alla patria, l'amico d'infanzia e il condiscepolo di Guarino e più tardi il suo rispettoso e amorevole scolaro. Incontrandolo poco innanzi un suo conoscente mentre andava a scuola da Guarino: «Cavalier Nicola, gli disse, che vai a fare a scuola a codesta età»? A cui Nicola: «A viver la vera vita, la vita dello spirito». «E quando finirai»? «Quando sarò stanco di diventar più dotto e più virtuoso». Guarino più che per i suoi meriti [57] come magistrato, lo ammirava per la sua grande virtù. Sono singolari i giudizi che del Salerno hanno dato Lorenzo Giustinian e Bernardino da Siena: due monaci che la chiesa ha beatificati. Il Giustinian diceva che chi amava Dio non poteva esimersi dal venerare il Salerno. Bernardino poi dopo aver avuto un colloquio col Salerno, nel partirsi da lui si battè il petto esclamando: Povero me, che mi credevo che la virtù albergasse sotto la cappa del monaco; sotto la cappa di quel cavaliere ce n'è tanta da farmi arrossire. Quando morì era uno degli amministratori per la guerra di Venezia col Visconti e nella carestia che in quel tempo travagliava Verona egli si adoperò assai a provvedere di grano i suoi concittadini. Guarino gli elevò un perenne monumento d'affetto in una delle sue più belle orazioni, che egli recitò pubblicamente: «piangeva egli e piangeva il pubblico che lo ascoltava». Indi la mandò al Rizzoni a Venezia, perchè la diffondesse tra i comuni amici dell'estinto, quali i Giustinian e i Barbaro.

135. L'autunno di quest'anno toccò a Guarino andare a Valpolicella a sorvegliare la vendemmia. La moglie dovette stare a Verona per il parto e l'11 ottobre diede in luce il quarto figlio, Gregorio. Nè «tra lo spumar dei tini» dimenticò gli studi, chè tradusse in quei giorni il Filopemene di Plutarco e lo dedicò al Maggi. E nemmeno mancarono le riunioni geniali degli amici, che andavano a Valpolicella a passare un paio di giornate. Anzi in una di quelle occasioni, dopo pranzo, Guarino comunicò «per frutta», egli dice, una lettera da Firenze di Mariotto Nori. Erano presenti il Lavagnola, il Genovesi, il Brugnara, il Faella, il Maggi e altri. A Firenze per opera di un «uomo di vetro», di un «fanfarone» era successo un piccolo scandalo alle spalle di Guarino; e il Nori gliene dava partecipazione. Guarino ben lontano dall'adontarsene, lesse in crocchio e commentò [58] la lettera, ridendo egli il primo ed eccitando le risate dell'uditorio.

136. Nel 1427 Guarino fabbricò. I figli gli crescevano, egli dice, e la casa doveva essere allargata. In effetto i figli crescevano, perchè dal 1421 al 1426 gliene nacquero quattro e presentemente la moglie era incinta del quinto, che nacque tra l'ottobre e il novembre e fu anch'esso maschio, Niccolò. Guarino non sospettava certo che il numero avrebbe continuato a salire fino ad arrivare nel 1441 a tredici: e tutti vivi! Per un uomo che aveva preso moglie a 45 anni non c'era male. I lavori della fabbrica lo importunarono alquanto. «Non mi chieder lettere, scrive al Rizzoni, perchè le riceveresti piene di polvere e di arena. Mattoni, cementi, calcinacci mi rintronano le orecchie, mi offendono le narici; non prendo più libri in mano e son quasi diventato muratore anch'io, sporcandomi tra i ferramenti e la calce. Non vedo l'ora di uscirne».

137. Questo scriveva nell'agosto; nel settembre era a Valpolicella. Ma nemmeno in villa gli die' pace la fabbrica; c'erano sempre dei residui da ultimare, per i quali si serviva della cooperazione dell'amico Benedetto Cremonese, maestro privato. Benedetto era amico della famiglia Guarini e anche della gazza che formava la delizia del piccolo Girolamo; anzi gliela mandò a salutare. Girolamo fu molto soddisfatto dell'attenzione. Il secondogenito Esopo Agostino, che, come il suo omonimo favolista greco, «si dilettava di fiabe e di apologhi rusticani», andò in campagna a S. Floriano a trovare la sua balia, ma ivi ammalò; poco dopo però era fuori di pericolo.

138. Da Valpolicella avea Guarino progettato un'altra gita, come quella del 1419, al lago di Garda col Brenzoni, ma non si potè muovere, un po' perchè avea continue visite di amici veronesi, un po' perchè il numero dei convittori [59] che portava con sè era tanto grande, che quando uscivano «pareano uno stormo di uccelli o di locuste: dove trovar mezzi di trasporto e alloggio per tanta gente?» La sera del 13 ottobre vide dalla villa un gran splendore di fiaccole a Verona. Egli non ne indovinava il motivo; seppe dipoi che si festeggiava la battaglia di Maclodio, vinta il giorno avanti (12 ottobre) dal conte di Carmagnola, condottiere al soldo della repubblica veneta, contro il Piccinino, condottiere al soldo del Visconti.

139. Quel fatto d'arme levò gran rumore allora e commosse l'animo anche del nostro Guarino, che ideò un'orazione in lode del vittorioso condottiero. Intorno all'orazione lavorava nel principio del 1428; nel febbraio era già compiuta. Dopo di aver detto nell'esordio che anche il tempo presente non difetta di uomini illustri e che è giusto rendere il dovuto omaggio alla grandezza del Carmagnola, Guarino divide il discorso in due parti. Nella prima parte espone la vita del condottiero, nella seconda ragiona delle sue virtù militari e civili. Le virtù militari vengono messe in luce specialmente con la vittoria sul Malatesta a Brescia (del 1421) e con la vittoria di Maclodio (del 1427); le virtù civili col governo di Genova affidatogli dal Visconti. Termina Guarino col celebrare la repubblica veneta, che seppe comprendere e apprezzare i meriti del valoroso condottiero, quando appunto egli era fatto segno all'invidia e alla calunnia.

140. La prima metà dell'anno 1428 corse tranquilla. Ma tra la fine di giugno e il principio di luglio si manifestarono dei sintomi di peste a Verona. I cittadini cominciarono a mettersi in salvo e gli scolari disertarono le lezioni; allora anche Guarino provvide ai casi suoi e si ricoverò a Valpolicella sulla fine di luglio. Ivi stette almeno un tre mesi, attendendo sempre allo studio con gli allievi convittori, e quando si assicurò che il pericolo era cessato, tornò in città. [60] Nel decembre i timori si rinnovarono e già erano corse pratiche tra Guarino e lo Zilioli per cercare un rifugio in Ferrara.

141. Sui primi del 1429 abbiamo una sosta. Però nel marzo si riaffaccia il pericolo: ci furono alcuni casi di morte. Che si farà? giacchè Guarino sente che anche Ferrara è minacciata. Negli ultimi di marzo le morti aumentano e Guarino ha ricevuto un nuovo invito di recarsi a Ferrara. Questa volta alle premure dello Zilioli si sono unite quelle del marchese; Guarino non può rifiutare e ringrazia. Ma come staccarsi dai suoi Veronesi, che gli vollero tanto bene? Gli bisogna tempo: «non uno strappo vuol essere, ma una scucitura»; aspettino almeno tutta l'estate che egli possa accomodare le sue faccende.

142. Se non che il morbo incalza e il tre d'aprile Guarino si decide alla partenza, domandando al marchese la lettera di passo per i suoi stati; chiede al Consiglio di Verona la licenza di assentarsi con la famiglia e gli viene concessa con deliberazione del 7 aprile. Qualche giorno dopo imbarcò la famiglia e poche masserizie e per l'Adige prese la via di Ferrara, dove lo troviamo già il 23 d'aprile.

143. Guarino in Verona insieme con le funzioni di maestro esercitò anche quelle di cittadino. Non passò anno dal 1420 al 1428, in cui egli non avesse un posto nelle pubbliche amministrazioni della sua città. Fu dei 72 deputati totius anni nel 1421. Fu consigliere aggiunto nel 1422, consigliere effettivo dei 50 nel 1423, 1425, 1427, 1428; consigliere dei 12 nel 1424, 1426. Nel 1425 fu della commissione per il riordinamento dello spedale di S. Giacomo e Lazzaro.

144. Fece parte di parecchie ambasciate: di una a Vicenza nel 1425 per una questione di acque che danneggiavano il territorio veronese; di una a Venezia nel 1424 per una questione che aveva il comune di Verona col clero riguardo alle collette. È questa probabilmente l'ambasceria, nella quale [61] Guarino «mise in opera tutta la propria energia, affrontando anche coraggiosamente le suggestioni degli avversari». Per la medesima questione tornò a Venezia nel 1425. Ambasciatore a Venezia lo incontriamo anche nel 1428 per ottenere l'allontanamento di alcune bande armate, che infestavano le campagne del Veronese. Quando non poteva andare egli in persona, scriveva. Così scrisse a Francesco Barbaro raccomandandogli l'interesse di alcuni Veronesi; scrisse a Daniele Vettori parole forti e infiammate per muovere il governo della Serenissima a mettere un riparo alle continue sollevazioni dei contadini delle campagne veronesi; scrisse a Lodovico principe di Fermo nel suo passaggio per il territorio di Verona pregandolo di risparmiare i contadini.

145. Nelle occasioni solenni la parola dotta ed elegante di Guarino si faceva interprete dei sentimenti universali della città, come nel 1423 per l'elezione del doge Francesco Foscari, nel 1424 per la venuta in Verona dell'imperatore di Costantinopoli. Ogni anno poi all'entrare o all'uscir di carica dei podestà e capitani, che la Serenissima mandava a Verona, Guarino componeva quei discorsi d'uso, ai quali sapeva sempre dare un certo carattere di originalità. Essi ci sono rimasti tutti; e quanto piacessero allora, è dimostrato dal gran numero di esemplari che ne furono tratti. Guarino faceva anche il consulente gratuito, soprattutto quando era chiamato in lite qualche povero, che non aveva i mezzi e tanto meno il coraggio di tener testa alle prepotenze di qualche insolente.


146. Questo il quadro della vita e dell'operosità di Guarino negli anni che dimorò a Verona. Ma Guarino non visse solo per Verona e per i Veronesi, sibbene anche per gli amici e colleghi che avea di fuori; anzi per un umanista la vita consiste più, si può dire, nel commercio epistolare con [62] gli amici di fuori, che negli avvenimenti del luogo dove egli insegna. E noi infatti vedremo che una vasta e molteplice rete di relazioni congiunge Guarino con un gran numero di città e di circoli letterari, i quali saranno ora passati brevemente in rassegna. Così avremo la seconda parte e il compimento del quadro.

147. Per cominciare dalle città della Serenissima repubblica veneta e dall'estremo settentrione, incontriamo a Cividale nel Friuli un gruppo d'amici, anzi di parenti di Guarino per parte di sua moglie: i Gioseppi, famiglia oriunda di Verona, della quale vivevano due fratelli Pietrobono e Costantino; aveano una nipote Bartolomea, cugina per parte di madre di Taddea, moglie di Guarino. Era allora in Verona Lodovico Ferrari, figlio di Cecilia, un giovinetto che studiava con Guarino, cugino egli pure per parte di madre di Taddea e di Bartolomea. Le relazioni tra i parenti di Verona e di Cividale erano cordiali, perchè alla fine del 1423 Guarino avea ideato di rifugiarsi a Cividale per la pestilenza. I Gioseppi avevano interessi a Verona, pei quali si pigliava cura Guarino, che alla sua volta li teneva informati delle proprie notizie, p. e. della morte della suocera, del numero dei figliuoli, della salute della moglie. Nel 1428 la Bartolomea si sposò a Giovanni da Spilimbergo, buon maestro di retorica, che insegnò a Cividale e ad Udine; e da allora in poi si strinsero intimi legami di amicizia tra Guarino e il maestro Giovanni. L'annunzio del matrimonio fu dato da Giovanni stesso a Guarino, il quale rispose congratulandosi e accettando la sua amicizia. Lettere di congratulazione scrisse anche il piccolo Lodovico Ferrari.

148. Con Padova Guarino mantenne rapporti negli anni 1419-1420, finchè ci si trovarono il Gualdo ed il Barzizza, al quale ultimo domandò sulla fine del 1419 Quintiliano e Asconio Pediano, per cominciare il suo corso di retorica a [63] Verona. Ma quando il Gualdo si stabilì definitivamente in Vicenza, sua patria, e il Barzizza nel 1420 si trasferì a Milano, invitato dal Visconti ad insegnare colà, vennero a mancare i principali vincoli che tenevano congiunto Guarino a Padova, se si eccettui il breve tempo nell'estate del 1421, in cui ci soggiornò il Barbaro, che era fuggito da Venezia per la pestilenza.

149. Vivissime sono invece le relazioni con Venezia. Di là giunse nel 1419 la triste notizia della morte di Giona Resti, vittima della pestilenza. Nel 1420 l'amico Cristoforo Parma, il maestro vagante, lasciò Venezia e andò a insegnare a Vicenza, sua patria, chiamatovi dalle continue insistenze dei concittadini, con gran dispiacere di Leonardo Giustinian, il quale aveva affidato alla sua cura il piccolo Bernardo. Il Giustinian quando dava a Guarino questa notizia, stava a Murano, dove trascorreva tranquillamente i mesi del calore estivo, riposandosi dalle fatiche dei pubblici uffici e cominciando ad esercitarsi nel canto, che egli poi adattò alle Laudi, delle quali divenne in seguito autore fecondo e famoso.

150. A Venezia il Barbaro, che non aveva ancora principiato la sua carriera diplomatica e amministrativa, continuava a studiare e a ricorrere a Guarino per lumi. Era anch'egli ammogliato e la sua Maria già era diventata amica della Taddea di Guarino. E amici comuni erano molti Veronesi, quali il Maggi, il Pellegrini, il Brenzoni, i Verità. Nel 1421 il Barbaro peregrinò alcuni mesi a cagione della pestilenza che infestava Venezia e si incontrò con Guarino nel 1 ottobre a Montagnana. In quest'anno Guarino compose l'orazione funebre per Giorgio Loredan. L'anno seguente un'altra morte di persona veneziana lo rattristò, la morte di Bianca, modello delle madri di famiglia, figliuola di Francesco Pisani allora podestà di Verona.

[64] 151. La venuta di Ermolao Barbaro a Verona avea resi più intimi i vincoli di Guarino con la famiglia Barbaro. Era stata anzi progettata una gita di Guarino a Venezia; ma siccome era d'inverno e tempo piovoso, egli preferì, diceva, di andarci «con la penna piuttosto che coi piedi». Del resto il Barbaro stava sulle mosse per recarsi a Treviso ad assumere la pretura di quella città, che fu il primo suo passo nella carriera pubblica. Entrò in carica agli ultimi di decembre 1422 e la depose nel decembre dell'anno seguente.

152. In quell'anno (1423) Treviso diventò un piccolo centro umanistico; bastava il Barbaro per dar vita a un circolo letterario, ma ci capitò anche il Giustinian. Vi andarono pure i due famosi minoriti, Alberto da Sarteano, uscito allora dalla scuola di Guarino, e Bernardino da Siena, che dopo aver predicato a Treviso passò nel settembre a Feltre e indi a Belluno. Guarino invidiava al Barbaro e al Giustinian i colloqui coi due monaci; e realmente i due patrizi veneti e Guarino appartenevano a quella categoria di umanisti, che conciliavano la cultura pagana con un sincero sentimento cristiano. Il Barbaro di natura sua tendeva all'ascetismo e agli studi sacri; anzi dopo l'incontro con fra' Bernardino prese l'abitudine di intestare le lettere da Gesù, di che più tardi lo canzonava il Poggio; il Giustinian fu cantore di Laudi ed ebbe un fratello beatificato, Lorenzo; Guarino era studiosissimo dei testi sacri ed ebbe in casa un figlio sacerdote, Manuele.

153. A questa piccola ma eletta schiera si aggiunse Flavio Biondo, che giunse a Treviso nella seconda metà inoltrata dell'anno stesso 1423. Il Biondo era andato nel 1422 da Forlì sua patria a Milano a trattare in nome della sua città qualche pubblico interesse. Arrivò a Milano appunto nel tempo che il Barzizza era occupato a decifrare il codice Lodigiano delle opere retoriche di Cicerone. E approfittò dell'occasione [65] per trarsi copia del Brutus, che mandò al Giustinian a Venezia e a Guarino a Verona. Così si mise in relazione con gli umanisti veneti. Nel ritorno in patria si fermò a Ferrara, dove conobbe quei letterati, tra cui il Mazzolati; e fu anzi col mezzo di lui che fece recapitare il Brutus a Guarino. Arrivò in Forlì al principio del 1423, quando già si preparava la sommossa contro gli Ordelaffi, alla quale prese parte anch'egli. La sommossa scoppiò nel maggio, ma ebbe infelice esito, perchè la città fu occupata dal Visconti. Il Biondo con tutti gli altri complici dovette esulare. Errò in qua e in là; nel luglio ci comparisce a Verona, più tardi lo rivediamo a Ferrara, ad Imola; finalmente fu invitato a Treviso dal Barbaro, che lo prese come proprio segretario. E così il Biondo trovò per qualche tempo una posizione onorevole presso la repubblica di Venezia, di cui fu poi fatto cittadino.

154. Saputo Guarino dal Casalorsi che il Biondo era tornato col Barbaro da Treviso a Venezia, gli scrive per alcuni codici, che lo prega di fargli avere da Pietro Tommasi. Il Biondo e il Tommasi dunque si erano conosciuti. Nel gennaio e febbraio di quell'anno, 1424, i Veneziani ospitarono l'imperatore di Costantinopoli, e il Barbaro e il Giustinian lo accolsero con un discorso greco; il che tornò a lode del loro maestro Guarino, il quale pochi giorni dopo vide parimenti l'imperatore a Verona. Alla metà di aprile Guarino per un'ambasceria andò a Venezia e rivide gli amici. Troviamo quest'anno alla sua scuola a Verona Bernardo Giustinian insieme con Ermolao Barbaro, ma le lezioni furono interrotte dalla pestilenza. I due allievi al primo affacciarsi del pericolo si rifugiarono a Venezia, dove contava di recarsi pure Guarino.

155. E ci andò infatti alla fine di luglio per apparecchiare il posto alla famiglia, ma tornato a Verona dovette mutar [66] direzione, perchè Venezia chiuse i passi ai provenienti da luoghi infetti. Quando gli amici di Venezia seppero del dispiacevole contrattempo e che Guarino era confinato sulle montagne tirolesi, tutti unanimi, il Parma, il Barbaro, il Giuliani, i Giustinian, sin dal principio di settembre fecero pratiche presso Guarino per trarlo fuori di là in luogo migliore e gli offrirono intanto Murano, finchè si fosse tolto il divieto. Non accettò, forse perchè a Pergine si era accomodato abbastanza bene. Qualche mese dopo Venezia offriva a Guarino un nuovo collocamento come professore; la proposta partì dal Barbaro, dal Giustinian e dal Giuliani. Guarino stette un po' in dubbio ma poi rifiutò, perchè riconfermato a Verona.

156. Del 1425 andò a stabilirsi in Venezia il suo scolaro Martino Rizzoni in qualità di institutore privato in casa Tegliacci. Guarino lo mise subito in relazione coi principali suoi amici veneziani e corrispondeva frequentemente con lui per sorreggerlo coi suoi amorevoli e savi ammonimenti nei primi passi della nuova carriera e animarlo nei primi scoraggiamenti. Infatti non tutti i figli del Tegliacci corrispondevano alle cure del Rizzoni; ma il vecchio maestro gli ripeteva di lasciar correre l'acqua per la china, inculcandogli l'uti foro di Terenzio. A suo tempo poi interpose i propri buoni uffici presso il Tegliacci per fargli ottenere un aumento di onorario. Nel 1426 Guarino si servì del Rizzoni per diffondere a Venezia l'elogio funebre del Salerno. Così l'ebbero il Giustinian e il Barbaro. Il Barbaro nella metà di quell'anno era stato ambasciatore a Roma e nel ritorno a Venezia diede relazione a Guarino di una gita a Genzano e dei codici greci che vide nel chiostro di quel paese. Di un'altra ambasceria a Roma fu incaricato il Barbaro due anni dopo, nel 1428, e in quell'occasione portò con sè il nipote Ermolao.

[67] 157. Nel 1427 ritornava da Costantinopoli a Venezia Francesco Filelfo, il quale avviò pratiche con Bologna per ottenervi un posto di professore. L'intermediario di queste pratiche fu Guarino.

158. Della stima che godeva Guarino a Vicenza fa testimonianza l'invito venutogli di là nel 1420 ad occupare il posto di insegnante lasciato libero dal Filelfo. Il Filelfo insegnò a Vicenza per lo meno l'anno scolastico 1419-1420; nel marzo del 1420 partì da Vicenza per Venezia e di là per Costantinopoli. Guarino, già nominato a Verona, non potè accettare. Intanto facea pratiche presso quella comunità per succedere al Filelfo Giorgio da Trebisonda, aiutato in ciò dalle raccomandazioni di Francesco Barbaro e di Pietro Tommasi; anzi a questo scopo fece egli una corsa a Vicenza nel gennaio. Il Trebisonda riuscì nel suo intento e fu nominato professore a Vicenza.

159. Guarino e il Trebisonda si erano conosciuti a Venezia nel 1417-1418, dove per alcuni mesi il Trebisonda udì le lezioni di Guarino; ma non furono in buoni rapporti di vicinato quando insegnavano l'uno a Verona, l'altro a Vicenza. Il Trebisonda avea molta boria greca, congiunta a leggerezza giovanile, e non conosceva il latino che un po' grammaticalmente: tre circostanze che impedivano di renderlo simpatico a Guarino. Quando gli scolari di Guarino passavano da Verona a Vicenza, pare che il Trebisonda nell'accettarli alla sua scuola li sottoponesse a un esame troppo pedantescamente grammaticale; e Guarino, più stilista che grammatico e abituato ad elevarsi dalla parola al pensiero e al sentimento, doveva aver concepito un certo disprezzo per quell'uomo.

160. E a lui infatti allude con frasi coperte, ma molto acri, in una lettera del 1421. Ivi parla di certi mostri d'uomini, che «arrivati alle prime pagine della grammatica si dànno il pomposo nome di scienziati. Essendo soli essi ignoranti, [68] si credono giusto appunto i soli sapienti e non par loro vero, quando si imbattono negli allievi altrui, di dimostrarne la ignoranza, interrogandoli su quelle pedanterie, che essi hanno imparato a furia di sgobbo e che sono indegne di un uomo e da lasciarsi ai ragazzetti, quali sono le figure, i casi, i gerundi e quisquiglie di simil genere. La sorte di gente di tal fatta è che gli scolari entrano da loro rape ed escono carote». Il Trebisonda rimase a Vicenza certo sino al termine del 1426, in ogni modo non molto dopo, perchè nel 1428 era tornato per qualche tempo in Grecia; e poi egli lasciò Vicenza, mentre Guarino stava ancora a Verona. Anzi, diceva lui, la dovette lasciare per le mene di Guarino, che era geloso del suo vicino collega; secondo invece una testimonianza più attendibile, la vera ragione era che egli con le sue fanfaronate avea nauseato i Vicentini.

161. Contemporaneamente al Trebisonda insegnò a Vicenza il vicentino Cristoforo Parma, ma come institutore privato. Cristoforo era prima a Venezia, ma i Vicentini fecero tante premure, che lo ottennero nel 1420, quantunque non deve aver molto incontrato. Qualche anno dopo lo ritroviamo a Venezia. Negli anni 1420-1421 era in Vicenza Pietro Tommasi, medico e letterato veneziano e vecchia conoscenza di Guarino. Saputo Guarino che il fratello, già morto, di Pietro aveva composto un trattato sulla povertà, gliene domanda un esemplare con uno dei suoi soliti giochi: «arricchiscimi, gli scrive, della tua povertà, perchè io possa conoscere sì grande virtù e imparare ad esercitarla di buon animo». Il Tommasi lo aveva incoraggiato a tradurre in latino una orazione greca di Manuele Crisolora, anche per rendere un tributo alla memoria dell'illustre maestro. Guarino non la tradusse, ma per compenso rispose al Tommasi affettuose parole in lode del Crisolora. A Vicenza Guarino aveva molti amici, quali il Francaciani, Matteo Bissaro, Niccolò [69] Dotti, suo scolaro, e più di tutti Girolamo Gualdo, col quale teneva viva corrispondenza, scambiando codici, mandandogli i propri lavori, p. e. l'orazione funebre per il Loredan, e informandolo dello stato della sua famiglia. Girolamo era come uno di casa e Guarino volle perpetuare la loro scambievole amicizia mettendo il nome di Girolamo al suo primogenito. Nemmeno nel 1424 sulle montagne trentine Guarino si dimenticò di lui e da Pergine gli mandò le proprie notizie.

162. Più attivi si fanno gli scambi di Guarino con Vicenza nel 1425, l'anno in cui vi andò podestà Francesco Barbaro. Era stato nominato a quel posto sin dal 1424, ma quello fu anno di gran peste a Vicenza e il Barbaro si trattenne a Venezia. Avea preso possesso della nuova carica certo al principio del 1425 e portò seco il Biondo, come segretario, e il nipote Ermolao; più tardi ci troviamo qualche altro della famiglia Barbaro ed Ermolao Donati. Ivi Francesco Barbaro rinnovò l'amicizia col Gualdo, che aveva conosciuto a Padova e a Venezia. Col Barbaro Guarino corrispose frequentemente, soprattutto per raccomandazioni spettanti al suo ufficio di podestà, sempre ben inteso con la clausola σὺν τιμῆ σου. Col Biondo era pure in frequente relazione ora per codici, come quello dell'Epistolario Pliniano, di cui l'arcivescovo Capra desiderava una copia, e delle opere retoriche di Cicerone; ora per affari di altro genere, come l'incarico dato dal Biondo a Guarino di cercargli dei cavalli e un cuoco.

163. La risposta di Guarino sul cuoco comincia con un saluto culinario. Indi segue dicendo che, voltate le spalle alla letteratura, si dedicò tutto al mestiere della cucina. «Ho raccolto intorno a me una assemblea di guatteri, vivandieri, parassiti e mangioni e ho messo loro innanzi il nome del cuoco vescovile, quale candidato al posto da te offerto. La candidatura [70] fu accolta ad unanimità e con plauso. Quel cuoco netta così bene i piatti, che quando non gli basta lo strofinaccio, chiama in aiuto la lingua e anche i calzoni. È pure molto economico; così p. e. se qualche animaluccio gli cade dalla testa nelle pietanze, si fa uno scrupolo di levarnelo: sarebbe un assottigliare la porzione; parimenti si dica di qualche goccia che gli si stacchi dal naso. E misura il condimento, anzi per risparmiare il lardo adopera il sego. Uomo inoltre quietissimo, chè dorme giorno e notte per le gran sbornie che piglia. Lo chiamano Chichibio». È noto che Chichibio è il protagonista di una novella del Decamerone.

164. Il Biondo aveva con sè la moglie e doveva far con essa una gita a Verona, la quale sarebbe riuscita graditissima a Guarino, perchè così le loro donne avrebbero avuto occasione di conoscersi. Ma il Biondo non potè. Guarino in compenso gli mandò per qualche tempo a Vicenza il piccolo Girolamo. Andò poi egli due volte a Vicenza: la prima nell'aprile, la seconda nel giugno. Nella prima Guarino vide Giovanni da Castelnuovo, maestro di retorica, che stava allora a Vicenza. La visita gli fu restituita per parte degli amici di casa Barbaro dai due Ermolai, il Barbaro e il Donati. Nella funesta occasione della morte della suocera Guarino ricevette parole di sincera condoglianza e di conforto dal giovinetto Ermolao Barbaro e dal Gualdo. Il Gualdo in quel tempo partiva per Firenze, dove aveva ottenuto una magistratura, con lettere commendatizie del Barbaro e di Guarino.

165. Da Vicenza partì più tardi, nell'ottobre, anche il Biondo per andare a Padova come segretario di Francesco Barbarigo, nominato di fresco capitano di quella città. Quel posto fu ottenuto dal Biondo per mezzo dei buoni uffici di Guarino e del Barbaro. Il Barbaro si trattenne molto ancora a Vicenza, sino cioè al principio dell'anno seguente 1426, [71] perchè attendeva alla compilazione e pubblicazione degli statuti della città: lavoro poderoso e grandemente meritorio, che immortalò la pretura vicentina del Barbaro. Alla fine del 1425 era ultimato e Guarino, pregato dai Vicentini e dal suo diletto scolaro, gli premise l'introduzione.

166. Nel 1426 il Gualdo tornò dalla magistratura di Firenze, portando notizie di quella città. Nell'agosto del 1427 prese moglie. Alle nozze era stato invitato anche Guarino, ma non potè andare. «Del resto, gli scrive, non hai perduto nulla, perchè ad aprir certe brecce in certi castelli ci vuole la tattica nuova di voi altri giovanotti; noi veterani del secolo passato abbiamo una tattica ormai antiquata e che adesso non serve più». E ritorna poi su queste allusioni scherzose e un po' ardite: «Quanto sei valoroso patrono per i tuoi clienti, altrettanto devi essere robusto guerriero con la tua Penelope; decet enim hisce primis congressibus ut quantum te lectio singularem, tantum te lectus pluralem cognoscat. Qua in re culare, hui! curare volui dicere, debebis, ut non solum tu uxorem duxeris, ut scribis, sed et te uxor ducat, ut mutua sit vicissitudo». Nel giugno 1428, quando il Gualdo per la peste si era da Vicenza ricoverato a Sarego, Guarino gli mandò in dono il suo S. Agostino, postillato da lui quando era in Tirolo, perchè con quella lettura ingannasse le lunghe ore d'ozio, traendone insieme frutti di pietà cristiana.

167. Non meno che tra Guarino e Vicenza, il Gualdo servì di anello di congiungimento tra Guarino e Firenze. Egli andò due volte a Firenze. La prima nel 1420 e fu una gita di piacere. In quell'occasione il Gualdo conobbe personalmente fra gli altri il Niccoli e il Traversari, coi quali parlò a lungo di Guarino. A Firenze aveano concepite speranze di riaverlo, ma erano illusorie; Guarino «a niun costo sarebbe più tornato a Firenze». Si parlò anche delle invettive pubblicate in quell'anno contro il Niccoli da due suoi nemici, l'uno [72] dei quali il Benvenuti, quegli stessi che non avevano risparmiato nemmeno Guarino quand'era in Firenze. Egli era già stato informato di tutto dal Niccoli e dal Traversari, ma ora che il Gualdo di ritorno da Firenze gli fornì notizie più minute, si sente oltre ogni credere nauseato.

168. La seconda volta che il Gualdo andò a Firenze fu nel 1425, quando ottenne per mezzo dei buoni uffici di Francesco Barbaro la magistratura della mercanzia in quella città; partì nell'agosto con lettere commendatizie del Barbaro e di Guarino. Così Guarino ebbe occasione di rinfrescar la memoria con gli amici fiorentini. Tornato il Gualdo nel 1426, gli scrisse di un certo scalpore sollevato da un tale a Firenze contro Guarino, su di che dava maggiori ragguagli una lettera da Firenze di Mariotto Nori.

169. Nè fu questo il solo screzio che ebbe Guarino nelle sue relazioni con Firenze. Ce ne fu un altro, e quello veramente dispiacevole. Si trattava del Bruni. Era stato riferito da persone autorevoli, ma pare malignamente, che il Bruni a Firenze in presenza dei Medici e di altri avea sparlato di Guarino in modo da ledergli l'onore. Del che egli sdegnato scrisse, non al Bruni direttamente, e in ciò fece male come egli stesso confessa, ma ad amici comuni, lagnandosi dell'offesa in modo molto vivace e risentito. Per tal guisa l'incidente, che doveva esser leggero, ingrossò e già si minacciava una rottura fra i due vecchi e provati amici. Il Bruni pare sia stato il primo a muovere i passi per toglier l'equivoco e scrisse, verso il febbraio del 1421, al Salerno allora podestà a Siena. Il Salerno si interpose subito tra i due contendenti e con buon esito, poichè Guarino rispose a lui, che il malinteso era cessato e scrisse nel medesimo tenore al Bruni. Il Bruni non rispose, ma non ce ne era bisogno: tutto era appianato di tacito accordo; dall'altra parte stuzzicare certe ferite ancor fresche, sia pure con retta intenzione, [73] è sempre pericoloso; il silenzio è il miglior partito. Del resto Guarino non mancò mai, scrivendo agli amici di Firenze, di mettere i saluti per il Bruni. Quando poi si presentò una favorevole occasione, la nomina del Bruni a cancelliere della repubblica fiorentina nel 1427, allora Guarino se ne congratulò con lui per lettera. E il Bruni rispose in guisa da dare ampia soddisfazione al vecchio amico, toccandogli delicatamente dell'antico litigio e ringraziandolo delle congratulazioni.

170. Del rimanente, tolti questi due screzi, le relazioni di Guarino con Firenze furono sempre cordiali, soprattutto col Niccoli, col Traversari, con Angelo Corbinelli, con Giovanni Boscoli e, meno il piccolo incidente, col Bruni. Nel 1422 Ermolao Barbaro, suo alunno, dedicò al Traversari la versione latina di Esopo. Nel febbraio del 1424 capitò a Firenze dal Traversari frate Alberto da Sarteano, che gli parlò piacevolmente di Guarino. Nel 1423 andò a Verona a studiare con Guarino Mariotto Nori, un raccomandato del Traversari. Il Nori era stato qualche tempo prima commesso d'affari a Venezia di Palla Strozzi; venuto a Verona, vi si trattenne un paio d'anni; indi passò alcuni mesi a Mantova a copiar codici per i principi Gonzaga; tornò a Verona e di là nel 1426 rimpatriò a Firenze.

171. Aveva una bella calligrafia, specialmente nella scrittura che allora chiamavano «antica». Guarino andava in visibilio quando ne parlava e gli fece copiare un Giustino. Era un bravo giovinotto, di buona famiglia, ma aveva un difetto: l'instabilità congiunta a un po' di vanità. Guarino lo chiamava figlio di Eolo sia perchè mobile, sia perchè borioso; quando p. e. parlava de' suoi antenati, contava miracoli e le sparava grosse quanto mai. Ma saputo pigliare per il suo verso, gli si faceva fare quel che si voleva. Nel rimpatriare si fermò a Ferrara, dove conobbe lo Zilioli, [74] che gli propose la trascrizione di un Servio antico e difficilmente decifrabile. Le pratiche durarono a lungo in mezzo a molte incertezze, ma finalmente dopo più di un anno la copia fu compiuta e l'eleganza e l'esattezza dell'esemplare soddisfecero Guarino e lo Zilioli, compensandoli così del patito ritardo.

172. Il numero degli amici di Guarino a Firenze è cresciuto negli ultimi mesi del 1425 con l'arrivo dell'Aurispa, che fu nominato professore di quello studio. Nel 1427 partiva da Verona alla volta di Roma Marco Campesano; nel passaggio per Ferrara fu da Guarino raccomandato allo Zilioli e nel passaggio per Firenze al Nori, al Niccoli, al Boscoli.

173. Non molto intimi nè molto frequenti sono i rapporti di Guarino con Roma, dove non c'è che il Poggio, che lo tenga in una certa corrispondenza con la curia pontificia. E nelle sue lettere a Guarino il Poggio non si dimentica del Barbaro, il quale del resto si trovò con lui due volte a Roma: nel 1426 e nel 1428. Tutte e due le volte ci andò come ambasciatore; nel 1426 di ritorno passando da Firenze riconciliò il Niccoli col Bruni. Non mancavano poi Veronesi che andassero a Roma; così nel 1421 ci fu il Salerno a prendere possesso della dignità senatoria e a recitarvi il discorso di ringraziamento innanzi al papa; nel 1425 c'era il canonico Filippo Regini, alunno di Guarino, nel 1426 un prete Alessandro che dava un po' da dire sulla sua condotta, e non so in quale anno un altro prete, Antonio Malespina vicario del vescovo. A Roma si recò, per non poter reggere al peso delle imposte, nel 1425 un amico del circolo fiorentino, Antonio Corbinelli, e in quell'anno stesso vi morì, con gravissimo dolore e lutto di Guarino, che era stato da lui ospitato in casa propria a Firenze e che l'amava come un fratello. La triste notizia fu partecipata a Guarino dal canonico [75] Filippo e da Guarino al Barbaro, che parimenti stimava ed amava l'estinto.

174. Guarino fece una gita a Mantova, che gli lasciò poco gradita impressione, perchè in tre giorni che vi stette non seppe ben distinguere se era giorno o notte. «Ivi non si vede che acqua e non si odono che rane. Le case sono in maggior numero che gli abitanti; nelle piazze si trovano le alghe e per le strade si inciampa nei porci». Quando vi andò c'era il Giuliani, probabilmente con qualche pubblico ufficio. A Mantova Guarino conosceva il vescovo. Nel 1425 eravi vicepodestà un veronese, Galesio della Nichesola, al quale Guarino scrisse una lettera, perchè rintracciasse una orazione di Cicerone trovata in Verona e migrata colà.

175. Guarino godeva molta stima presso i signori Gonzaga, che lo invitarono alla loro corte come institutore. Non accettò e poco dopo fu invitato Vittorino da Feltre, suo alunno a Venezia, che nutriva sempre amore e rispetto per il suo maestro. I buoni frutti della scuola di Vittorino si videro ben tosto in una lettera che il principino Lodovico, decenne appena, scrisse nel 1424 a Guarino. Guarino rispose compiacendosi dei felici risultati e congratulandosi che dal maestro inetto, che avea prima, fosse passato sotto la disciplina di Vittorino, che egli chiama optimus vir e doctissimus magister e dal quale gode di sentirsi lodato. «Del resto se mi chiama suo precettore, più che merito mio, è bontà e gratitudine sua, il quale ottimo com'è mi decanta quale desidererebbe che io fossi. E quel poco che io gli insegnai, e quanto poco sia stato lo so io, egli lo esagera al punto da far di una pulce un elefante. Prendilo pertanto, se hai fede in me, a guida nella vita e nello studio e imita costantemente il suo esempio ed egli diventerà per te quello che dice Omero di Fenice per Achille: eccellente maestro di ben dire e di ben operare». Il principino gli domandava una redazione [76] corretta dell'Orator di Cicerone e Guarino gliela promette, appena avrà il modo e l'opportunità.

176. Anche a Brescia troviamo un piccolo nucleo di amici di Guarino; ma è costituito non di elementi stabili, sibbene raccogliticci, ed ha breve vita, dal 1427 al 1428; gli elementi appartengono al gruppo veneziano. È il caso a un dipresso di Treviso nel 1423. Brescia fu, si può dire, il perno delle operazioni strategiche della guerra combattuta negli anni 1426-1428 tra Milano e Venezia. La Serenissima mandò a Brescia in qualità di capitano Niccolò Malipiero, in qualità di podestà Pietro Loredan. Il Loredan si portò come cancelliere il Biondo.

177. Il Biondo pertanto era stato nel 1425-1426 a Padova col Barbarigo e ora nel 1426-1427 accompagnava il Loredan a Brescia. Ma in quest'anno lasciò il servizio della repubblica veneta. Forlì dopo un triennio di occupazione viscontea era stata sgombrata e consegnata in potere del papa Martino V, che vi mandò a governarla Domenico Capranica. Il Biondo così era libero di rimpatriare, anzi ottenne un posto presso il Capranica e intanto avea fatto partire per Forlì la famiglia; egli vi andò nell'agosto 1427. Guarino fu in frequente carteggio col Biondo a Brescia, a cui si raccomandava ora perchè gli trovasse una serva, ora perchè gli narrasse gli avvenimenti della guerra. Ma sugli avvenimenti della guerra poteva informarlo meglio Battista Bevilacqua, che aveva un comando nell'esercito sotto la condotta suprema del conte di Carmagnola. E in effetto gli descrisse minutamente la giornata di Maclodio; e della descrizione si giovò Guarino nel comporre l'elogio del Carmagnola, del quale mandò copia al Bevilacqua perchè lo diffondesse. Guarino avea progettato nel maggio di quell'anno, 1427, una gita a Brescia a trovarvi il Biondo, ma non la fece. Non ne dovette smettere del tutto l'idea, perchè in quel torno trattava [77] col Capra, arcivescovo di Milano, un abboccamento a Brescia, quantunque nemmeno questa volta ci andò.

178. Col Capra entriamo nel circolo milanese. Il Capra fu fatto arcivescovo di Milano nel 1414, ma non entrò in stabile possesso della sua residenza che nel 1422. Prima di quel tempo avea preso parte attiva al Concilio di Costanza, dove si trovò presente per la elezione di Martino V. Indi fu incaricato di alcune ambasciate alle corti europee, p. e. in Germania, donde tornava nel 1422 e fu allora che fece l'ingresso a Milano. Nel principio del 1428 passò governatore a Genova, dove stette circa un quinquennio; e poi prese parte al Concilio di Basilea, ma per poco tempo, chè morì colà nel 1433. Fu uomo illuminato, promotore degli studi, ricercatore di codici e perciò lo vediamo in intimo e frequente commercio con gli umanisti. Guarino e il Capra erano vecchi conoscenti, ma da molti anni non si scrivevano; solo nel 1425 rinnovarono l'amicizia. In quell'anno il Capra, saputo che Guarino aveva scoperto e divulgato il nuovo codice dell'Epistolario di Plinio, gli scrisse pregandolo di allestirgliene una copia. Guarino lo soddisfece servendosi dell'opera del Biondo. Nel 1427 andarono a Milano Francesco Brenzoni e Filippo Regini canonico, veronesi; e in quell'occasione ci fu scambio di lettere affettuose tra Guarino e il Capra.

179. Guarino allora interpose l'arcivescovo perchè gli ottenesse da Giovanni Corvini un Macrobio; ma l'interposizione non giovò a nulla; il Corvini era stato battezzato dal Capra per un'arpia, poichè accumulava codici senza farne parte agli amici. Nè era stato quello il primo tentativo di Guarino per aver codici dal Corvini, specialmente un Gellio e un Macrobio, ai quali fece l'amore parecchio tempo. Avea già interposto il Casati, un milanese, conosciuto nel 1419 per mezzo del Maggi, avea interposto lo Zilioli, ma sempre inutilmente. Da ultimo Guarino cercò di mettersi in corrispondenza [78] diretta col Corvini e ciò fece nel principio del 1428, prestandogli un proprio codice. Ma il Corvini anche questa volta duro; sicchè Guarino ebbe ragione di risentirsene e dargli dello scortese, giurando che non gli presterebbe più codici.

180. Giovanni Corvini era nativo di Arezzo, donde partì presto per Milano e ivi entrò al servizio del Visconti come segretario. Morì nel 1438. Aveva buoni rapporti con gli umanisti fiorentini, quali il Niccoli, il Traversari, e coi milanesi, soprattutto col Barzizza, che fu institutore di uno dei suoi figliuoli. La passione predominante del Corvini era raccoglier codici, dei quali possedeva già una rilevante collezione sin dal 1412, p. e. un Epistolario ad Attico, una commedia latina a noi ignota e quel Gellio e quel Macrobio, a cui dava la caccia Guarino.

181. A Milano in quel tempo veniva su un forte ingegno, che spiegò grande operosità nel campo politico e nel campo letterario: Pier Candido Decembrio, nato nel 1399 a Pavia. Ivi bambino dai tre ai quattro anni aveva ricevuto le carezze di Manuele Crisolora, che insegnava a Pavia nel 1400-1403. Nel 1413 il padre Uberto faceva pratiche per collocarlo presso la curia pontificia, ma preferì poi di metterlo al servizio del duca Filippo Maria Visconti; morto il Visconti, il Decembrio passò nella curia. Negli anni 1420-1430 le relazioni del Decembrio si fecero estesissime. Corrispondeva con Ogniben Scola, che stava a Pinerolo, con Gerardo Landriani vescovo di Lodi, coi Bossi di Como, con Feltrino Boiardo di Ferrara, col Loschi a Roma, con Galasso Correggio e Tommaso Cambiatore a Reggio, con Carlo Fieschi e Giovanni Stella a Genova e col De Marinis arcivescovo di quella città, coi Medici, col Niccoli e col Bruni a Firenze. Non parliamo dei letterati e uomini di stato del circolo milanese, come Zanino Ricci, Guarnerio Castiglioni, il [79] Becchetti, Cambio Zambeccari, Antonio da Rho, il Capra, il Barzizza.

182. Nel 1425 strinse rapporti anche con Francesco Barbaro e con Guarino. Nell'ottobre di quell'anno il Decembrio andò a Venezia, a trattare con la Serenissima un acquisto di vettovaglie per Milano. Contava egli di visitare a Vicenza il Barbaro e a Verona Guarino; ma la partenza da Venezia fu affrettata e le due visite non furono fatte. Ciò non tolse al Decembrio, tornato che fu a Milano, di scrivere all'uno e all'altro e stringere per lettera quell'amicizia, che non aveva potuto personalmente. Guarino corrispose volentieri all'invito e da buon maestro correggeva gli errori di greco delle lettere del Decembrio, il quale allora moveva i primi passi nella conoscenza di quella lingua.

183. Sulla fine dello stesso anno andarono ambasciatori a Venezia anche il Corvini e il Barzizza. Il Barzizza intendeva parimenti di fermarsi a Verona a salutar Guarino, ma ne fu impedito pur esso. Glie ne scrisse un paio d'anni più tardi, chiedendogli scusa, nella occasione che gli raccomandava Francesco Mariani, suo allievo, il quale si recava a studiare il greco da Guarino. Il Barzizza stava a Milano sin dal 1420, come professore di retorica. Ivi nel 1422 rese un gran servizio alle lettere, decifrando e dividendo in capitoli le opere retoriche di Cicerone trovate a Lodi dal vescovo Landriani. Il codice fu portato al Barzizza a Milano da Giovanni Omodei; il Barzizza lo fece esemplare dal cremonese Cosimo Raimondi. In quell'anno stesso Guarino mandò a nome degli umanisti veronesi il suo alunno Giovanni Arzignano dal Barzizza a trarre una copia del nuovo codice. Ma per allora non si potè ottenere che l'Orator. Solo più tardi, nel 1428, Guarino ebbe per mezzo del Lamola un apografo intero ed esattissimo dell'archetipo di Lodi. E un altro codice ebbe per mezzo del Lamola, il Macrobio cioè del Corvini. Il Lamola era a Milano [80] dalla fine del 1426, in cerca di nuova fortuna. Ivi aveva trovato una occupazione presso Cambio Zambeccari e intanto si era messo in relazione con l'arcivescovo Capra e con altri illustri personaggi di Milano.

184. Avanti di andare a Milano il Lamola stava in Bologna, sua patria. Quando seppe nel 1419 che Guarino era passato a Verona, andò alla sua scuola, che frequentò sino all'ottobre circa del 1425. Così il Lamola diffuse a Bologna la fama del suo maestro e Guarino intrecciò vivo commercio epistolare con quell'antico e rinomato centro di studi. Assai vi contribuì anche la presenza in Bologna del Salerno, che fu podestà di quella città il secondo semestre del 1419, e si acquistò tanto la stima pubblica, che allo scader dell'ufficio gli venne riconfermato per un altro semestre, dal gennaio al giugno 1420, onore raro a concedersi. Una bella prova della nominanza che godea Guarino a Bologna l'abbiamo nell'offerta di una cattedra che gli fu fatta nel 1424 dai Bolognesi, i quali del resto non si perdettero di coraggio al primo rifiuto e rinnovarono qualche tempo dopo, verso il 1430, l'invito per mezzo di Alberto Zancari amico di Guarino; ma anche la seconda volta rifiutò.

185. Bologna nel tempo che Guarino insegnava a Verona presenta un vivace e molteplice movimento di operosità letteraria. Non ultima fra le cause è la parte che vi presero l'arcivescovo Niccolò Albergati, liberal mecenate, e il suo segretario Tommaso Parentucelli, il futuro papa Niccolò V. Entrambi corrispondevano con gli umanisti di Firenze e cercavano codici. Ma lo scovatore era proprio il Parentucelli, che nei viaggi dell'Albergati nel 1427-1428 in Lombardia e a Ferrara, dove trattava la pace come intermediario fra Venezia e Milano, visitò chiese e monasteri in cerca di codici, p. e. il monastero di Nonantola sul territorio di Modena e quello di Pomposa presso Ferrara, la chiesa di S. Ambrogio [81] di Milano, la Certosa di Pavia, la cattedrale di Lodi. Scopritore e possessore di buoni codici era pure il Rinucci, segretario del veneziano Gabriele Condulmier, amico di Guarino, il futuro papa Eugenio IV e allora (1424) legato apostolico a Bologna. Troviamo a Bologna altra gente di minor levatura, p. e. tra il 1424 e il 1425 Berto Ildebrandi, Andreozzo Pierucci senese, frate Andrea da Rimini, Giovanni da Luni, Antonio grammatico, Giovanni Toscanella, un antico scolaro di Guarino a Firenze, Tommaso Pontano, suo scolaro di Verona.

186. Un novello impulso fu dato agli studi in Bologna dalla venuta dell'Aurispa. Egli tornava da Costantinopoli col seguito dell'imperatore. Si fermò con lui a Venezia, a Verona, e con lui andò a Milano, dove si trattenne sino al giugno del 1424. Di là prese la via di Bologna. L'Aurispa giungeva coi suoi trecento codici greci, con l'aiuto dei quali sperava di carpire da qualche città, p. e. da Firenze, un grasso collocamento. Egli era esperto mercante di codici e sapea trarre il maggior profitto possibile dalla sua merce. Però le trattative con Firenze gli andarono fallite, almeno per il momento; intanto dovette acconciarsi ad accettare una cattedra di greco a Bologna. Guarino, che nel febbraio 1424 lo aveva conosciuto a Verona, nel febbraio dell'anno dopo, di ritorno dal Tirolo, gli scrive congratulandosi dell'onore che gli avevano reso i Bolognesi. Le pratiche con Firenze ebbero miglior esito nel 1425; infatti nel settembre dell'anno stesso l'Aurispa partì per quella città, dove aveva ottenuto la cattedra di greco.

187. Prima che l'Aurispa lasciasse Bologna, vi capitò Antonio Panormita, lo studente girovago, che dopo aver peregrinato per Firenze, Padova, Siena, veniva a piantar le tende a Bologna. Con l'Aurispa erano conoscenze vecchie; ivi rinnovarono l'amicizia, e il poco tempo che stettero insieme [82] lasciò traccia in alcuni epigrammi all'Ermafrodito, al quale il Panormita dava allora gli ultimi tocchi.

188. La pubblicazione dell'Ermafrodito a Bologna nel gennaio del 1426, se pure non uscì qualche mese prima, fu uno degli avvenimenti più memorabili di quei tempi. Le poche voci, che in sul principio gridavano allo scandalo, rimasero coperte dal coro universale degli applausi, che partivano dagli umanisti spregiudicati, ammiratori della forma disinvolta e facile e avidi di quelle nudità pagane, che aveano gustate in Ovidio, negli epigrammi di Marziale, nei Priapei e un pochino anche in Catullo. L'opposizione grossa e pericolosa sorse più tardi, quando, calmato il primo entusiasmo, i minoriti dal pulpito ebbero agio di scagliar l'anatema sul sacrilego libello. E dico anche opposizione pericolosa, intendendo quella che fu mossa al Panormita dal partito milanese, capitanato dal frate Antonio da Rho; poichè quel partito aveva una certa autorità e presso il pubblico e nella corte e a furia di punzecchiare scosse la posizione del Panormita in Pavia.

189. L'araldo dell'Ermafrodito fu il Lamola, che lo spedì a Guarino ad insaputa dell'autore stesso, e poi andò a Roma a diffonderlo tra gli umanisti della corte pontificia, dove lo lessero subito il Loschi, il Poggio ed altri. Guarino, l'uomo dei severi costumi, il paladino del matrimonio, l'esatto osservatore delle pratiche cristiane, divorò quegli epigrammi, dove si predicava tutto il contrario di ciò che egli sentiva e professava, e ne fece propaganda a Verona. Il giudizio che ne diede nella lettera al Lamola è rimasto famoso, possiamo dire, quanto l'Ermafrodito stesso.

190. Egli ammira la dolcissima armonia del verso, la spontaneità della dicitura, la naturalezza della frase, la scorrevolezza del periodo. Ma il componimento è lascivetto e alquanto procace. «E che forse per questo si dovrà scemar [83] lode all'ingegno del poeta? Apelle e gli altri pittori dipinsero nude certe parti del corpo che devono star celate: meritano perciò minor lode? Non ammireremo la valentia di un artista, anche quando ci ritragga al vero e maestrevolmente un verme, una biscia, un topo, uno scorpione, una rana, una mosca, che pur sono bestie poco simpatiche, anzi moleste? Io per parte mia lodo il poeta e applaudo al suo ingegno e mi diletto dei suoi motteggi, faccio buon viso alle piacevolezze e approvo quella petulanza, che sa di postribolo. Del resto io mi rido delle prediche di certi sciocchi, i quali non vedono salvezza all'infuori delle lagrime, dei digiuni, dei miserere e non sanno che altro è vivere altro è scrivere. Io do retta invece al mio illustre compatriota Catullo, che ne sa qualche cosa più di loro e che dice chiaro e tondo, come l'onestà e la decenza si deva cercare nel poeta e non nei versi, i quali anzi dilettano, quando siano un tantino lascivi e solleticanti. E Catullo era pagano. Prendete un cristiano, S. Girolamo, scrittore severissimo e casto e vedrete che anche egli adoperava frasi oscene, quali non adoprerebbe il più sfacciato libertino». Termina proclamando il Panormita, poeta siciliano, il redivivo Teocrito.

191. Da questo momento in poi si strinse tra il Panormita e Guarino un'amicizia che durò, meno qualche piccola musoneria, cordiale e inalterata. La corrispondenza tra i due umanisti si fece subito frequente e il Panormita mandava codici a Guarino, come un Erodoto e un Cornelio Celso. Di Celso pare sia stato il Panormita lo scopritore. Certo lo pubblicò Guarino per il primo nel 1426 e l'ebbe da Bologna per mezzo del Panormita e del Lamola. In ricambio Guarino fornì loro le notizie fresche fresche delle strepitose scoperte fatte da Niccolò da Cusa in Germania, tra le quali nientemeno che la Repubblica di Cicerone, che si risolse poi [84] nel Somnium Scipionis. Niccolò da Cusa, il futuro cardinale, era più conosciuto allora come Niccolò da Treviri; aveva accompagnato, ventiquattrenne appena, nel 1425 in qualità di segretario il cardinale Orsini nella sua legazione di Germania e avea scoperto a Colonia un gran numero di codici: dicono ottocento.

192. Negli anni 1426-1428 con la società del Panormita a Bologna c'era oltre il Lamola anche Bartolomeo Guasco, altro scolaro e maestro girovago, che fece il mercante in Sicilia, poi il diplomatico, indi il professore e finalmente di nuovo il diplomatico e che conosceva gli umanisti bolognesi e fiorentini. Degli umanisti fiorentini parlò al Panormita il Barbaro, passato da Bologna nell'ottobre del 1426, di ritorno da Roma. In quell'occasione il Barbaro avea riconciliato a Firenze il Niccoli e il Bruni. Nel 1427 si trasferì da Venezia a Bologna la famiglia Tegliacci e con essa l'institutore Martino Rizzoni. Al Rizzoni Guarino volea far conoscere il Panormita, affinchè d'accordo gli procurassero un Prisciano, di cui era in possesso Alberto Zancari; ma a quell'ora il Panormita non stava più in Bologna, essendo partito per Firenze e Roma. Il commercio epistolare col Rizzoni è sempre frequente; egli teneva informato Guarino delle novità bolognesi e scambiava con lui notizie letterarie. Un bel giorno venne la malinconia al Rizzoni e volea farsi monaco. Guarino glie ne scrisse, non proprio dissuadendolo, ma dandogli a capire che ci pensasse bene e che prima passasse parola con lui.

193. Il Rizzoni si trovò a Bologna col Filelfo, che vi era arrivato sin dal febbraio 1428, passando per Ferrara, dove raccomandato da Guarino fece conoscenza di quei signori e letterati e vi lasciò tanto buona impressione, che nel 1429 lo invitarono ripetutamente a insegnare colà. L'anno 1428 egli ottenne un collocamento a Bologna, per [85] il quale sin da Venezia aveva fatto premure presso Guarino. Quando Guarino seppe dal Rizzoni, che il Filelfo si era collocato a Bologna, se ne compiacque, ma gli rincrebbe che avesse accettato l'offerta per un solo semestre. Non gli sembrava nè decoroso, nè vantaggioso. Addebitava al Filelfo, pare, un po' troppo di fretta. «Con un collocamento così precario non guadagna nè il professore nè l'insegnamento». Ma il Filelfo aveva altre mire: egli mirava a Firenze che, partito l'Aurispa, ricco di codici ma piuttosto povero di scienza, scorgeva nell'ingegno vasto e poderoso del Filelfo un ottimo acquisto per il proprio Studio. E infatti nel 1429 il Filelfo andò professore a Firenze.

194. Più che mai intimi sono i legami di Guarino coi letterati e la corte di Ferrara. Guarino avea colà molti conoscenti, come Federico Spezia, Stefano e Lelio Tedeschi, Giovanni Coadi, i cavalieri Alberto della Sale e Feltrino Boiardo, Ugolino Elia, Niccolò Pirondoli, col quale ultimo scambiava semi di ortaglia e di piante. «Desidero come pegno di amicizia che le tue piante allignino qui da me, in modo che col loro fiorire e crescere fiorisca e cresca l'amor nostro e invecchiando verdeggi e verdeggiando invecchi. Consegnerai al latore della presente alcuni noccioli di pesche duracine, ma badiamo bene! di razza genuina e degni del donatore. Me li hai promessi e so dall'altra parte che sei esperto coltivatore. È giusto poi che come dai miei orti sono partiti semi e piante a colonizzare i tuoi, così ne partano dai tuoi a colonizzare i miei. In tal guisa le pesche venute qui dal suolo ferrarese potranno ripetere quella sentenza platonica (riferita da Cicerone): noi non siamo nate solo per noi, ma anche per la patria e per gli amici. E poichè tu sai ben coltivare i campi, devi anche imitarli (come dice nuovamente Cicerone) nel rendere che essi fanno il cento per uno. Vi aggiungerai anche dei semi di finocchio». [86] Come si vede, due citazioni ciceroniane in proposito di semi.

195. Fra tutti i Ferraresi i più assidui corrispondenti sono Ugo Mazzolati e lo Zilioli. Il Mazzolati era intimo di Guarino sin da Venezia; ora le relazioni diventano più cordiali e il Mazzolati tiene informato il suo illustre amico veronese di ciò che avviene a Ferrara, come della nomina dello Zilioli a consigliere del principe e degli scandali a corte, p. e. la decapitazione della Parisina e la fuga di Meliaduce, figlio del marchese; lo mette in relazione coi letterati che capitano a Ferrara, come col Biondo, che alla fine del 1422 mandava per mezzo di lui a Verona il Brutus di Cicerone; gli invia qualche codice da emendare, come un Gellio, uno Svetonio; gli regala delle penne d'oca, di cui andava rinomata Ferrara, non fosse altro per indurlo a scrivere più spesso; gli fa presente di pesci delle paludi ferraresi per la quaresima. «I tuoi pesci, gli risponde Guarino, mi sono arrivati quali messaggeri della imminente quaresima e mi hanno avvertito che purtroppo i giorni della baldoria sono finiti e che bisogna mutar dieta e sistema di vita, pensando un poco anche all'anima e tenendosi a stecchetto col mangiare. Anzi a rendere gli onori di casa ai tuoi illustri messaggeri ho destinato della gente non meno illustre, p. e. un Cicerone, un Fabio, un Lucio, un Lentulo, un Macrobio, un Cornificio, così saranno in buona compagnia».

196. Ma venne il giorno funesto che troncò questo legame di gaia e schietta amicizia: nella prima metà del 1427 il Mazzolati morì. «Perdita per me gravissima, chè era egli onest'uomo e fedelissimo amico, il quale in me amava un figliolo, venerava un padre, rispettava un maestro e io ho perduto in lui un padre, un figlio, un discepolo. Mi conforta però che egli tal morì qual visse. E chi infatti visse, più retto, più liberale, più fedele del mio Ugo? Ci è da [87] trarre un ammaestramento da questa morte: che noi dobbiamo trovarci pronti al fatal passo, poichè da un momento all'altro siamo esposti a perire. Il mio Ugo io lo amai vivo e lo amo morto».

197. L'altro grande amico ferrarese di Guarino era lo Zilioli, consigliere intimo del marchese d'Este fin dal 1422. Egli era sempre a fianco del signore, di cui Guarino lo chiama «il fido Acate». Nel 1426 mandò a scuola a Verona i due figli minori Paolo e Bonaventura. Il figlio maggiore Ziliolo studiava a Ferrara, dove si dottorò in legge nel 1427 insieme col suo fedel compagno Ugolino Elia, altro corrispondente di Guarino. I due figli minori arrivarono a Verona nel 1426. Fu loro dato per aio un Antonio da Orzinovi, chiamato il Bresciano, che prima era stato copista a Padova e di là nel 1424 andò a Verona da Guarino. Furono poi raccomandati specialmente alle cure della Taddea, e in tal modo fra la Taddea e le donne di casa Zilioli si strinsero legami d'affetto; e le Zilioli mandavano spesso regali alla famiglia Guarino. «Abbiamo per legge d'amicizia, scrive egli allo Zilioli, tutto in comune fra noi; mancava che mettessimo in comune i figli, che come per nascita sono tuoi, così per adozione saranno miei. Io li abituerò a vivere socraticamente, cioè con poco cibo e alla buona. Ma il meno che darò loro in cibo lo compenserò in tanta maggiore istruzione e dottrina, acciocchè te li restituisca più buoni e più dotti di quando me li hai affidati».

198. Fra gli amici di Guarino, che in questo periodo di tempo andarono a Ferrara o vi passarono, notiamo il bolognese Zancari e il Panormita, che visitarono Ferrara, questi nel principio del 1427, raccomandato e presentato da Guarino, quegli nel principio del 1428. Vi passò Mariotto Nori quando tornava nel 1426 a Firenze; vi passò il Filelfo nel febbraio del 1428, diretto a Bologna. Il Biondo vi passò [88] almeno due volte: la prima nel decembre del 1422, la seconda nel principio del 1428. La seconda volta egli avea con sè la famiglia; pare perciò che vi si sia trattenuto a lungo. In questa occasione tanto il Biondo quanto lo Zilioli trattavano con Guarino per trovare un maestro a Meliaduce figlio del marchese. Lo Zilioli aveva suggerito una persona, ma Guarino ne lo sconsiglia con frasi risolute; non sappiamo a chi si alludesse. Piuttosto credo che Guarino abbia messo innanzi il nome dell'Aurispa e si combina infatti che l'Aurispa si stabilì in quel tempo a Ferrara e che appunto poco dopo fu nominato maestro di Meliaduce.

199. Tutta questa intimità e questi vincoli con Ferrara contribuirono non poco a trarvi colà Guarino. Mancava solo una occasione ed essa venne con la pestilenza. Guarino cercava un rifugio e gli fu offerto a Ferrara. Egli accettò; ma c'era in lui l'intenzione di abbandonare Verona? Probabilmente non avrebbe saputo dirlo nemmeno lui stesso. Di Verona egli non si poteva lagnare; vi era anzi amato e gli dispiaceva staccarsene. Senonchè una volta messo il piede in Ferrara, si trovò quasi senza volerlo attratto nell'orbita di quell'astro maggiore; e Verona rivide il suo Guarino come cittadino e come amico, non lo riebbe più come insegnante.

Guarino a Ferrara Primo quinquennio
(1430-1435)

200. Guarino giunse a Ferrara nell'aprile del 1429 e appena giunto meditava di ripartirne, perchè anche ivi si era manifestata la peste. Si rifugiò in un paese vicino, ad Argenta, nella casa di Luigi Morelli, insieme coi figlioletti dello Zilioli, col loro institutore Antonio Bresciano e con alcuni [89] amici ferraresi. Nei primi giorni tutto camminò bene; ma verso la metà di giugno Argenta fu invasa con violenza dall'epidemia. Guarino senza indugio sparpagliò parecchi dei suoi domestici, mandandoli chi qua, chi là, ma non potè evitare che tre della sua casa fossero attaccati: il suo parente Giovanni d'Este, Paolo Zilioli e l'institutore Antonio. Antonio si salvò, ma Giovanni e Paolo rimasero vittime. Lo Zilioli ritirò subito in casa l'altro figlio, Bonaventura.

201. La morte di Paolo fu un grave colpo a Guarino, ai genitori, ad Antonio Bresciano, il quale fece di tutto per salvarlo e non se ne potea dar pace. Il più forte fu il padre; la madre ne rimase tanto desolata, che solo al veder persone che glie lo rammentassero dava in smanie. Così l'11 novembre Guarino andò a Porto, su quel di Ferrara, dove villeggiavano gli Zilioli per tenersi lontani dalla peste; procurò bensì di nascondere la sua venuta, ma ciononostante donna Zilioli lo seppe e questo bastò per rinnovarle l'acerba ferita. Il povero Guarino sentì profondo dolore di quella perdita. Lo chiamava il «suo Paolo». «Giovinetto di buona indole, d'ingegno, modesto, studioso e che facea concepire di sè le più belle speranze. Oh quanto giovamento mi aspettavo da lui per i miei figli!» Morì munito di tutti i conforti della religione ed ebbe un accompagnamento se non pomposo, che non lo permetteano le condizioni sanitarie, certo affettuoso.

202. Dopo la disgrazia di Paolo, Guarino cambiò di alloggio, andando ad abitare nella casa di Giacomo del Bando. Nella casa di Luigi Morelli, che fu chiusa, lasciò una parte delle masserizie e supellettili, le quali più tardi, nell'agosto, gli furono rubate da un monaco, che vi si era introdotto nonostante che fosse luogo infetto. Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames, esclama Guarino nel raccontare le prodezze del frate, homo religiosus, paupertatis professor!

[90] 203. In sul principio di luglio si diffuse la falsa notizia della morte di Guarino. La notizia giunse anche a Pavia, dove la udì il Panormita da un prete venuto da Venezia, il quale l'aveva intesa colà da certi veronesi. Il Panormita non si può trattenere dallo scriverne all'Aurispa, che era in quel tempo a Ferrara, sfogando il proprio cordoglio per sì grave perdita e tessendo sincere e magnifiche lodi di Guarino, di cui esalta specialmente la modestia, i meriti letterari e la bella abitudine che aveva d'incoraggiare gli studiosi e gli amici. Conchiude eccitando l'Aurispa a comporre lui più degnamente l'elogio dell'illustre defunto.

204. Effettivamente la notizia si era sparsa in Verona, dove e amici e cittadini tutti lo piansero morto, esaltandone le virtù e i meriti. Quando lo Zendrata si accertò della falsità di quella voce, ne scrisse a Guarino, esponendogli quanto lutto avesse destato in Verona il triste annunzio e congratulandosi, perchè annunzio di morte falsa è presagio di vita lunga. Guarino lo ringraziò chiamandosi fortunato che a lui vivo fosse toccato di sentire le lodi che gli sarebbero state tributate dopo morto. Coglie nel medesimo tempo occasione di dire quant'egli ami la sua città nativa, con la quale, anche peregrinante per diverse terre in cerca di aria salubre, mantiene pur sempre affettuosa corrispondenza.

205. Così egli si ricorda al compare Damiano Borghi, ad Agostino Montagna, a Bartolomeo Brenzoni, al Maggi, agli Ottobelli, ai Fano. A Verona si erano ricoverati anche alcuni amici di fuori, quali Stefano Tedeschi e Tommaso Cambiatore, che stava allora traducendo in ottava rima l'Eneide.

206. Lo Zendrata visitò Guarino ad Argenta, di dove passò nell'agosto diretto a Forlì. Per mezzo di lui Guarino affittò la propria casa di Verona. Ivi abitava la madre e per la madre sola era troppo vasta. «Sarebbe opportuno [91] prendere a pigione per lei la casetta di Antonio Verità, che stava di faccia; la sua si poteva affittare per un paio d'anni, chè tanti egli contava di rimaner fuori: così se ne sarebbe cavato un certo profitto». Raccomandava però allo Zendrata di trattar la faccenda con la madre molto delicatamente, sia per l'affetto che ella portava a quella casa, sia perchè le rincrescesse l'assenza del figlio da Verona.

207. Quando nemmeno ad Argenta si sentiva più sicuro per il diffondersi del contagio, pensò Guarino di mutar paese e si recò nel 27 settembre a S. Biagio a cercarvi un'abitazione e scelse quella di Paolo Rasponi; poscia vi andò con la famiglia. Ivi rimase sino al 21 decembre, nel qual giorno ritornò a Ferrara.

208. La vita di Guarino in questi ultimi mesi di fuga fu molto angustiata. In famiglia continue malattie e morti: morti di amici e malattie delle fantesche e dei bambini. Niccolò, l'ultimo nato, ammalò di vermi e poi di febbre per la dentizione, Agostino e Gregorio di febbre, Manuele di una caduta, poichè vivace com'era giocando cadde e si ruppe la nuca. A Guarino toccava far da balia. L'abitazione era ristrettissima. «Una sola camera serve da dormitorio, da cucina, da granaio, da portico, proprio come la povera gente che del medesimo abito si fa ora mantello, ora camicia, ora lenzuolo. Spesso i bicchieri, le pentole, i piatti, i codici si disputano il posto. Mi accade di stender la penna verso il calamaio e la intingo nella saliera, intanto che i ragazzi mi fanno intorno uno strepito d'inferno».

209. Uno dei pensieri che più affannavano Guarino era quello dell'imminente parto della moglie; ma s'ingannò nei calcoli, perchè il 9 ottobre comincia a vedere i segni del prossimo parto e nel 30 decembre la moglie non aveva ancora partorito. Come trovare la levatrice? A S. Biagio ce n'era una abbastanza brava, ma nemica giurata dell'acqua e [92] troppo devota di S. Martino. E il giorno del parto che sarà di lui? Avrebbe dovuto abbandonare il letto, nè solo il letto, ma anche la stanza, poichè un'unica stanza avevano. Dove andare a dormire, se nel paese non c'erano alberghi? alcuni lo consigliavano a rifugiarsi in una stalla, che là starebbe caldo; egli invece preferiva di farsi amico l'oste, affinchè la notte del parto gli desse alloggio. Oh perchè non sono ostetrico io! esclama Guarino. Però, aggiunge, la moglie ha fatto un patto con me, di partorire di giorno, così i miei sonni non saranno turbati.

210. Tra i dispiaceri di Guarino vanno pure contate le disgrazie degli Zilioli, i quali formano ormai coi Guarini tutta una famiglia. E con lo Zilioli mettiamo insieme i suoi due generi: Niccolò Pirondoli e Ugolino Elia. A Giacomo Zilioli morì prima la madre Teodora e quindici giorni dopo il piccolo Paolo; al Pirondoli morì la moglie, figlia di Giacomo, a Ugolino il piccolo figlio Girolamo, nipote di Giacomo; senza parlare della malattia mortale di Giacomo stesso, felicemente curata dal medico Filippo Pelliccioni. E in mezzo a tutti questi colpi l'animo dello Zilioli si mantiene sempre imperterrito. Guarino gli scrive lettere meste per compiangere le sventure di lui ed egli risponde dandogli coraggio, sicchè Guarino deve più d'una volta esclamare: «ero venuto a consolarti e sono invece consolato». Nei primi di novembre Guarino cominciò a lavorare intorno all'elogio di donna Teodora, dal quale ricaviamo ch'ella visse 65 anni, che si maritò a 16 anni con un Zilioli ed ebbe da lui sette figli, di coi il primogenito fu il nostro Giacomo. Guarino attinse queste notizie dai due Zilioli, padre e figlio. Egli mette specialmente in rilievo la cura che donna Teodora aveva per i poveri.

211. Guarino fu visitato di quando in quando da quelli di casa Zilioli: nel luglio andò ad Argenta la contessa Pirondoli, [93] moglie di Niccolò; nel settembre ad Argenta e nel novembre a S. Biagio Ziliolo Zilioli. Guarino fece una corsa a Porto per trovare Ugolino Elia. Giacomo Zilioli mutava anche egli paese per fuggire la peste; ma gli affari lo trattennero gran parte a Ferrara, dove Guarino gli raccomandava spesso amici e conoscenti, p. e. Guido da Bagnacavallo imputato di furto, il visconte di Argenta, calunniato malignamente di non aver assistito ai funerali di Paolo; Giacomo e Pietro del Bando, Biagio e Domenico de Martiis, don Antonio rettore di una chiesa di Argenta, Anna vedova di Luigi Morelli. «Tu ti seccherai di tante raccomandazioni, gli dice Guarino, ma la colpa è tua. Tu mi ami, mi stimi, la gente lo sa e corre da me, affinchè io interceda presso di te. Dall'altra parte a costoro io vado debitore di molti beneficii; quando e come potrei io ricambiarli? Ricambiali tu per me, giacchè essi mi hanno servito con la persuasione di servir te».

212. Tornato a Ferrara il 21 decembre si dà attorno a preparare il corso delle sue lezioni. Rimpatriare non gli sembra prudente, così nel cuor dell'inverno, coi bambini e con la moglie imminente a partorire. Dall'altro lato la gioventù ferrarese lo invitava ad aprire scuola a Ferrara. Non gli pare svantaggiosa la proposta e intende fare l'esperimento.

213. Fu alloggiato primieramente in casa dei fratelli Strozzi: Niccolò, Roberto, Lorenzo, Tito; dal 1437 in poi abitò casa propria, che era stata degli eredi Boiardi e gli fu pagata dal marchese.

214. Poco dopo l'arrivo a Ferrara la moglie gli partorì una bambina, Libera, che doveva essere tenuta a battesimo da Ziliolo Zilioli; ma siccome era a Roma per un'ambasceria, così lo sostituirono il padre e la moglie Caterina. Al battesimo assisteva anche il marchese Niccolò. Per tal modo gli crescevano i Guarinelli ed egli aveva il suo bel da fare ad [94] attendere al loro allevamento e alla loro educazione. Girolamo il primogenito, sugli otto anni, già cominciava a scombiccherare qualche lettera, come nell'occasione che scrisse a Stefano Tedeschi, anche a nome dei fratellini, per ringraziarlo di alcuni doni loro mandati. I doni consistevano in formaggi, vino, vasellami; ma quello che più dilettava i Guarinelli erano certe saliere con figurine grottesche. Quelle figurine, quando essi si mettevano a tavola, erano fatte segno a mille giochi e motti: i Guarinelli le chiamavano per nome, le mostravano a dito, le castigavano, le ammonivano, mandavano loro sorrisi e le contraffacevano. Il padre invece contemplava la damigiana di vino, la quale egli votava molto parcamente, affinchè gli durasse un pezzo: «così in luogo di essergli incentivo alla intemperanza, essa gli era cagione di temperanza».

215. La cultura letteraria a Ferrara quando vi arrivò Guarino era su per giù a quel medesimo livello, in cui si trovava nelle altre città italiane avanti che vi penetrasse l'umanismo. Nelle scuole s'insegnava come e quanto si poteva insegnare in una scuola medievale; il latino che vi si imparava e vi si scriveva non veniva attinto alle fonti classiche, ma alla tradizione e alla consuetudine curiale; era il latino dei notai, dei glossatori, dei teologi; di greco manco l'ombra. Di quelle condizioni della cultura ci lasciò un quadro desolante il Carbone; ma ivi c'è della esagerazione retorica. E poi egli scriveva nel 1460, in un tempo in cui Ferrara possedeva una delle più fiorenti scuole umanistiche italiane. Di Mantova prima di Vittorino, di Padova prima del Barzizza, di Pavia prima del Panormita e del Valla si poteva fare il medesimo quadro.

216. Del resto anche prima che Guarino vi arrivasse, era penetrata a Ferrara la sua influenza per opera di Ugo Mazzolati. Del 1422 poi vi si era fermato qualche tempo il Biondo [95] e alla fine del 1427 vi si stabilì l'Aurispa. L'Aurispa aveva cultura latina e greca, avea tra l'altro insegnato un anno nello studio di Bologna e un anno in quello di Firenze, ma non era stoffa da caposcuola. I codici più che interpretare ed emendare, li sapeva mercanteggiare; tutt'al più poteva essere un institutore privato, un buon pedagogo. E infatti a Ferrara fu chiamato dal marchese Niccolò quale institutore di Meliaduce, uno dei suoi ventun figli bastardi. E dell'aver scelto l'Aurispa gli va data lode; quantunque vi ebbe certo la sua parte Guarino.

217. Meliaduce era stato destinato dal padre alla vita ecclesiastica; il figlio vi si oppose, anzi nel luglio 1425 scappò da Ferrara a Milano: cosa che naturalmente levò scandalo. Ma finalmente vi si adattò e vestì l'abito di abate del monastero di Pomposa vicino a Ferrara; fu anche protonotario. L'Aurispa, che già nei suoi primi anni era stato cantore nella collegiata di Noto, ne seguì l'esempio e nel 1430 vestì l'abito religioso, ottenendo dal marchese il posto di priore della chiesa di S. Maria in Vado, posto che non abbandonò mai per tutta la vita.

218. Nel 1431 fu chiamato alla corte di Ferrara anche Giovanni Toscanella e a lui fu affidata la educazione di Borso, un altro figlio di Niccolò. Alla chiamata del Toscanella non fu probabilmente estraneo Guarino. Borso fu uno dei successori del padre nel marchesato. Parimenti Guarino venne invitato a Ferrara quale institutore di corte e gli fu affidato Leonello, il figlio prediletto di Niccolò, che gli successe immediatamente nel governo. Come si vede, Niccolò non pensava da principio alla fondazione di un grande Studio pubblico, ma a raccogliere in corte un circolo dei migliori maestri del tempo; per l'appunto lo stesso scopo si era prefisso Gianfrancesco Gonzaga, quando nel 1423 invitò alla sua corte Vittorino da Feltre. L'idea dell'università sorse più [96] tardi spontanea, dopo che già erano a Ferrara tutti gli elementi per costituirla. E il primo, il più forte impulso lo diede Guarino, il quale pur facendo il pedagogo di Leonello, apriva un corso privato per la gioventù ferrarese desiderosa di entrare nella nuova via degli studi classici; e intanto raccoglieva intorno a sè altri ingegni, quali l'Aurispa, il Toscanella, il Cappelli, il Marrasio, il Lamola, il Faccio, correggendo con essi testi e cercando codici; e formava per tal modo un fascio di tutte quelle operosità individuali, che prepararono il terreno all'università, nella quale Guarino inaugurò nel 1436 il suo corso ufficiale.

219. Guarino a Ferrara assunse subito quella medesima posizione, che egli aveva a Verona e che forma una delle sue più notevoli caratteristiche. Egli cioè non è soltanto l'institutore del marchesino, il maestro della gioventù, ma è pure l'ambasciatore confidenziale della corte, l'oratore delle solennità sì principesche che cittadine. Così nel palazzo di Belfiore la pasqua del 1430 il marchese insigniva del cavalierato il veronese Paolo Filippo Guantieri, che andava magistrato a Firenze, e Guarino pronunziava il discorso d'occasione. E con un discorso egli salutava nell'anno stesso il ritorno di Ziliolo Zilioli da Roma, dove era stato con un incarico del marchese. Il discorso è un inno entusiastico alle virtù di Giacomo Zilioli e della sua famiglia.

220. Chi avrebbe allora pensato che soli quattro anni dopo, nel 1434, i due Zilioli padre e figlio sarebbero stati per reato di tradimento gettati nella torre di Castelvecchio? Strani contrasti nella sorte degli uomini! Il padre fu strangolato l'anno stesso; il figlio fu lasciato in carcere tredici anni, dopo i quali venne rimesso in libertà, ma senza poterne godere i beneficii, perchè morì subito. Monumento della sua prigionia ci resta una commedia, la Michaelida, nella quale egli raffigurava il suo misero stato.

[97] 221. Nel gennaio del 1431 Guarino andò a Ravenna, accompagnato da Brandelisio de' Boccamaiori, ad esprimere, d'incarico del marchese Niccolò, le proprie condoglianze ad Obizzo da Polenta, signor di Ravenna, al quale era morto il padre. Nel luglio del medesimo anno fu creato vescovo di Ferrara Giovanni da Tussignano, e Guarino lo felicitò con un pubblico discorso. Solenne fu pure l'avvenimento del marzo 1432, che provocò due orazioni, l'una di Guarino, l'altra di Paolo Maffei. Due nobili spagnoli, nemici implacabili, si erano sfidati a morte e dato l'appuntamento a Ferrara; l'8 marzo i due rivali erano sul terreno per azzuffarsi, quando il marchese Niccolò con bei modi si intromette e riesce a pacificarli. L'orazione del Maffei è una eccitatoria al marchese perchè impedisca il duello, quella di Guarino è una gratulatoria per la riconciliazione ottenuta.

222. L'anno seguente, 1433, passava per Ferrara l'imperatore Sigismondo reduce da Roma, dove era stato incoronato. A Ferrara arrivò il 9 settembre e ne ripartì il 16. Il giorno 10 Leonello salutò l'illustre ospite con un discorso scritto da Guarino. L'imperatore conferì le insegne equestri a cinque figli del marchese, tra i quali a Leonello. La cerimonia ebbe luogo il 13 settembre e in quell'occasione Guarino disse un discorso in onore di Leonello. E il discorso non mancò in altra occasione, pure fausta, quando nel febbraio 1435 Margherita Gonzaga andò sposa a Leonello. Come dono di nozze Guarino gli offrì la traduzione delle Vite di Lisandro e Sulla di Plutarco.

223. Guarino, che amava molto i ragionamenti filosofici e religiosi, aveva a Ferrara l'opportunità di appagare questo suo bisogno. Una delle persone, con le quali si intratteneva di filosofia, era il milanese Filippo Pelliccioni, medico della corte Estense e di casa Guarini, quanto valente nella sua professione altrettanto dotto negli studi letterari ed esemplare [98] nei costumi. Una volta nel 1430 si trovarono insieme nella villa di Belfiore, dove ragionarono di Platone. Frutto di quel ragionamento fu un lavoro di Guarino su Platone, nel quale narra la vita ed espone le dottrine dell'illustre filosofo greco. Il lavoro fu dedicato al Pelliccioni.

223 bis. Del resto prendeva parte volentieri anche agli spassi, specialmente se conditi di reminiscenze classiche, quale fu la mascherata mitologica del carnevale del 1434. La ideò e la allestì Giovanni Marrasio. Spirito bizzarro questo siciliano! Dopo aver trascorso gli anni giovanili a Siena, amando e cantando nell'Angelinetum la sua bella Angelina, si ridusse nel 1430 a Firenze, dove godè le simpatie di tutti quegli umanisti; ma fuggito di là quell'anno stesso per la pestilenza, si recò a Padova a studiare medicina, «in mezzo alle paludi e alle rane». Fece tre anni di medicina; passò indi a Ferrara, dove si stabilì parecchio tempo; da ultimo finì prete in Sicilia. Nella mascherata si vedeva un Apollo con raggiera in testa e un manto sino ai piedi, un Bacco barcollante e col tirso in mano, Esculapio con gran barba bianca, Marte e Bellona a braccetto e armati, Mercurio con le ali alle calcagna, Priapo con una canna in testa, Venere col pomo, Cupido con le freccie; e dietro a loro le Furie, le Parche, Ercole, Cerbero e via via. Il Marrasio, in costume di Bacco, declamò dinanzi al marchese un carme sulle maschere; rispose poi per il marchese con un altro carme Guarino.

224. Memorabile fu in quell'anno (1434) anche la quaresima, nella quale predicò a Ferrara frate Alberto da Sarteano, l'alunno di Guarino. Che gioia non dovette essere per Guarino, dopo dodici anni che non rivedeva il suo scolaro, e ora poterlo ammirare nella pienezza della sua vigoria oratoria! «Che specchio di virtù quel frate! che fascino nella sua parola, che erudizione, che scienza di [99] cose divine ed umane, che facondia, che fulmini contro i vizi!» Guarino forniva ad Alberto buoni codici di testi sacri, p. e. il suo Lattanzio, e gli dedicò la Vita di S. Ambrogio. E nei loro colloqui fra i tanti altri argomenti devono aver toccato spesso dell'Ermafrodito del Panormita, l'idea fissa di frate Alberto, e c'è da supporre che il frate si sia fatto promettere da Guarino la ritrattazione di quel giudizio sull'Ermafrodito, che era diventato famoso e che aveva scandalizzato tante persone. E in vero quando dopo la pasqua Alberto passò a Padova, scrivendo di là al ferrarese Bendidio, lo pregava di chiedere a Guarino se si rammentava della promessa fattagli: chè a Padova pur tra le persone rispettabili il nome di lui non sonava troppo accetto, appunto per quel malaugurato giudizio. Finalmente pare che Guarino abbia preso una risoluzione e nel primo gennaio 1435 scrive la ritrattazione; scelse il primo dell'anno e la scelta fu certo meditata: anno nuovo, vita nuova.

225. La ritrattazione è indirizzata al Lamola, lo stesso a cui era stata scritta la prima lettera. Questa ritrattazione produce, direi, una penosa impressione; sembra di sentire Guarino sotto il peso di uno scrupolo, che non è sorto spontaneo dalla sua anima, ma che gli fu suscitato da altri. Il pretesto poi della ritrattazione è puerile. Finge infatti di avere ricevuto una edizione dell'Ermafrodito con la sua lettera premessavi come introduzione. Ma vide con grande suo stupore che la lettera era mutila di alcuni passi, di quelli appunto che temperavano, anzi distruggevano le lodi che egli aveva date al Panormita. Egli aggiunge adesso i passi tolti, spiegando meglio il suo concetto e pregando il Lamola che come aveva disseminato la prima lettera, la quale avea fatto il male, così disseminasse anche la seconda, la quale portava il rimedio. Ma Guarino si tradisce e qua e là nella lettera si incontrano delle espressioni troppo trasparenti, nelle quali [100] egli dimentica che vuol correggere il suo antico giudizio e fa chiaramente scorgere che lo ritratta.

226. Ma la cura principale di questo primo periodo (1430-1435) della dimora di Guarino in Ferrara fu l'educazione del suo nobile allievo, il marchesino Leonello, già destinato a succedere al padre nel principato. Quando Guarino andò a Ferrara, Leonello aveva 23 anni. Era nato nel 1407. Avrà fatti i suoi primi studi elementari come si poteano fare in una città dove ancora non eran giunti gli umanisti; indi il padre lo mandò a scuola di guerra sotto Braccio di Montone: ciò fu nel 1422, quando Leonello aveva 15 anni. Tornò a Ferrara dopo la morte di Braccio, nel 1424.

227. La base fondamentale del metodo didattico di Guarino era l'intimo legame del maestro con gli scolari: legame di affetto reciproco, di rispetto e di venerazione da parte degli scolari, di benevola familiarità e dolcezza da parte del maestro. Il maestro poi dovea soprattutto essere ai suoi scolari uno specchio vivente di onestà e costumatezza. Questo metodo l'aveva imparato da Guarino a Venezia Vittorino, il quale lo applicava e sviluppava presentemente in Mantova alla corte dei Gonzaga. E all'efficacia di esso contribuiva non poco la reciproca e costante stima e benevolenza di Vittorino e di Guarino, che si riverberava nei loro allievi principeschi, quali Carlo Gonzaga e Leonello d'Este, senza dire che Leonello era fidanzato di Margherita Gonzaga, allieva di Vittorino, quella che nel 1435 egli condusse in moglie.

228. Guarino è orgoglioso e geloso del suo alunno. Il suo nome non morirà, perchè i posteri lo congiungeranno con quello di Leonello: Guarinus Leonelli. «Io sono umile e oscuro; ma di rimbalzo la mia oscurità verrà illuminata dal tuo splendore. Non vediamo noi il pantano percosso dai raggi solari generare fiori bellissimi?» Lo vuole sempre vicino a sè. Quando egli è lontano, Guarino è in continua [101] preoccupazione per la sua salute e lo invidia ai campi, che egli percorre, agli amici, che lo accompagnano. Le frasi che egli adopera verso Leonello sono quelle stesse di una madre verso il figliolo: «Testolina gaia, dolcezza mia, volto amabile, aspetto adorato».

229. E Leonello in ciò lo secondava mirabilmente. Ecco come gli risponde dalla villeggiatura di Porto: «Ieri, di giorno, stavo leggendo il mio Cesare, soletto nella mia stanza; non volevo lasciarmi sorprendere dalla sonnolenza di quest'afa estiva e nel medesimo tempo ne provavo gran diletto. Ed ecco intanto giungermi la tua bella e affettuosa lettera. Con che benevolenza, con che sollecitudine ti preoccupi della mia salute! Ed è giusto. Se noi ci prendiamo cura, per semplice istinto, di tutti i nostri simili, che non faremo per quelli che ci sono legati da intimi vincoli d'affetto! Vedi dunque che non è proprio il caso che tu debba scusarti. Tutt'altro! Bisognerebbe non aver cuore per rimproverare l'affettuosa sollecitudine di chi si preoccupa del nostro stato; anzi quella sollecitudine merita le nostre lodi, il nostro plauso ed è la più bella prova che si è amati. E io lo so che tu mi ami, non fosse altro per l'obbligo che ha ogni anima ben nata di corrispondere all'amore, e l'amore mio per te è immenso, ardente, come quello di un figlio verso il proprio padre, anche perchè così vollero i nostri antichi, che veneravano quale un padre il precettore».

230. E alle parole aggiungeva i fatti, giacchè ora donava al suo maestro del grano, ora gli mandava le primizie della sua caccia: caprioli, fagiani, quaglie. Quelle bestiole erano morte, eppure venivano apportatrici di tante cose a Guarino, venivano messaggere del suo Leonello ed egli le baciava ricevendole e preparava ad esse quella onorata sepoltura che loro si conveniva: «bruciate sul rogo all'uso antico e seppellite nello stomaco tra una lieta brigata di amici».

[102] 231. Leonello era appassionato per la caccia e Guarino gliela inculcava: perchè nel suo insegnamento dallo sviluppo morale e intellettuale non bisognava mai scompagnare lo sviluppo fisico. Questo era un felice ritorno alla educazione greco-romana, applicata e diffusa specialmente da Vittorino. E poi non è la caccia una preparazione alla guerra, anzi una simulazione di guerra? «Ci si alza il mattino per tempo, si affrontano i geli, gli ardori, la fame e la sete; ivi attacchi veri e finti, imboscate e lotte, colpi di freccia e di giavellotto: insomma una battaglia». E oltre la caccia gli consigliava i giochi, p. e. il gioco della palla: «anche Alessandro e Scevola si dilettavano di giocare alla palla. E buone sono le passeggiate in campagna. I grandi Romani dopo le cure di Stato non si vergognavano di prendersi un divertimento all'aria aperta; Scipione e Lelio nei loro momenti d'ozio andavano sulla spiaggia di Gaeta a raccogliere gusci di ostriche e a far mille chiassate».

232. E il nuoto? «Oh il nuoto oltre che refrigerare il corpo, gli dona elasticità. Come è bello da una riva erbosa e verdeggiante gittarsi in un fiume dalle onde cristalline e ora tuffarvisi, ora lasciarsi trasportare supino dalla corrente, ora romper l'acqua con le braccia. L'uomo che sa nuotare ha si può dire natura doppia: quella degli animali di terra e quella dei pesci. Quanti illustri personaggi antichi e moderni non furono valenti nuotatori. Basti ricordare Orazio Coclite, che si salvò a nuoto nel Tevere dagli assalti di Porsena, Cesare, che si salvò dall'insurrezione alessandrina a nuoto sul mare, Alessandro.... Ma Alessandro era troppo imprudente e per essersi bagnato nelle rigide acque del Cidno fu a un punto di perderci la vita. Valga il suo esempio a renderti prudente, o Leonello».

233. Non meno che all'educazione fisica del suo allievo badava Guarino alla sua educazione morale, avendo soprattutto [103] di mira gli ammaestramenti che si riferivano ai suoi obblighi di principe. A questo fine gli tradusse due opuscoli di Isocrate, nell'uno dei quali sono esposti i doveri dei sudditi verso il sovrano, nell'altro i doveri del sovrano verso i sudditi. La virtù che più di ogni altra gli inculcava era la clemenza, quantunque Leonello per natura sua fosse mite e clemente e solesse ripetere la parola di Tito: non dovere un principe lasciar partire nessuno dal suo cospetto senza conforto.

234. Ma dove Guarino concentrò la sua operosità didattica fu nell'educazione letteraria; e qui trovò terreno fecondo e docile. Leonello aveva veramente trasporto per gli studi; e Guarino fu orgoglioso di affermarlo al Niccoli, quando nel 1431 passò da Ferrara. E non solo coltivava la letteratura latina, ma anche la volgare e le arti belle, la musica, il canto e la pittura. Fra le discipline prediligeva la storia, fra gli autori Cesare, che era il suo ideale come scrittore, come capitano e come uomo politico; e per questo appunto Guarino gli fece una redazione dei Commentarii di Cesare. Gli traduceva gli autori greci, specialmente Plutarco, e gli cercava codici. Alla ricerca dei codici prendeva parte anche Leonello, come nel domandare al cardinale Orsini le nuove commedie di Plauto e nel far venire da ogni dove manoscritti della Storia naturale di Plinio, della quale Guarino preparava una redazione, che fu terminata nel 1433.

235. Quando poi Leonello era fuori in villeggiatura, se incontrava nelle sue letture qualche difficoltà, si rivolgeva al suo maestro, che subito gli risolveva i dubbi e approfittava di quelle occasioni per dargli massime e precetti. «Allorchè leggi non biascicar le parole, ma pronunziale a voce alta; ciò oltre che aiutare la digestione, imprime meglio nella mente i pensieri. Percorso un periodo, raccogline mentalmente il contenuto: se non hai capito la prima volta, leggilo e rileggilo, imitando i tuoi bracchi, che quando sentono [104] la selvaggina nelle stoppie e non riescono a scovarla, fanno e rifanno le medesime peste. Terminato un capitolo, fermati un poco a riassumerlo tutto; ma il riassunto non deve essere letterale, bensì baderai al senso; letteralmente ripeterai solo i luoghi più salienti: una frase elegante, un bell'aneddoto, un'arguta risposta. Sceglierai poi un giorno nel mese a ripassarti tutti codesti luoghi. Opportuno sarà anche che tu ti prenda un ripetitore, col quale riepilogare le lezioni imparate e non dimenticar mai di notare in un quaderno le principali nozioni che man mano acquisti nelle tue letture, ordinandole e classificandole. Se ti manca il tempo, pigliati un ragazzo intelligente che ti copii e disponga la materia».

236. Dei suoi studi classici Leonello ha lasciato documenti in alcune orazioni e lettere. Le prime volte gliele sbozzava o gliele correggeva Guarino, se forse non gliele componeva per intero, ma in seguito egli potè fidarsi alle proprie forze. Non c'è da lodare ivi nè la scelta dei concetti, nè la eleganza della forma; una certa facilità vi si incontra, ma nulla più. Guarino vedeva in lui tutto bello, ma l'affetto gli preoccupava il giudizio. In ogni modo lo stile ha tutto il colorito Guariniano.

237. E ora che abbiamo esaminato l'operosità di Guarino in Ferrara, usciamo di là e vediamo quali vincoli lo congiungono con altri centri di studi. Col Friuli era in rapporti per mezzo del professore Giovanni da Spilimbergo suo parente, che fino al 1432 insegnò a Cividale, indi a Udine. Lo Spilimbergo gli chiedeva dei sussidi per l'illustrazione dei classici latini, specialmente di Plauto, e Guarino lo teneva informato delle ultime novità e nel medesimo tempo gli faceva delle benevole esortazioni di carattere molto intimo: si direbbe che in famiglia ci fossero delle discordie.

238. A Verona Guarino aveva tanti amici e parenti ed è naturale che egli fosse in continua corrispondenza con la [105] sua città natia. I Fano, gli Ottobelli, i Lombardi, lo Zendrata, il Maggi, Galasio Avogari non si dimenticavano di lui, che seguitava a indirizzarli e soccorrerli nei loro studi. Ma nel febbraio del 1430 lo colpì una grave e inaspettata sventura: gli morì la madre. L'aveva lasciata a Verona, donde la buona vecchia non si era mai mossa. Era solita ammalare d'inverno, ma la primavera le riportava la salute; questa volta le portò la morte. La dolorosa notizia gli fu data dallo Zendrata giusto appunto quando egli attendeva buone nuove di miglioramento. «È proprio così la nostra vita: siamo destinati a morire. Lo so bene che il pianto è inutile, ma è un legittimo tributo di affetto filiale». Sollievo nel grave lutto gli fu l'essere stata la madre assistita premurosamente nella malattia e le parole di sincera lode dettele sul feretro dal Maggi.

239. I Veronesi non si sapevano rassegnare di aver perduto Guarino e cercavano di farlo rimpatriare. Pratiche erano state avviate a questo scopo sin dal 1432; ma era il tempo in cui ardeva la guerra tra la Repubblica veneta e il Visconti; e Guarino, per mostrarsi grato dell'invito, rispose doversi aspettare migliore occasione. L'occasione si presentò l'anno dopo, 1433, in cui fu conchiusa la pace. Il Consiglio di Verona aveva portato lo stipendio da 150 scudi a 200 per allettare maggiormente Guarino. E l'affare pareva conchiuso e se ne parlava a Ferrara, a Verona, a Venezia; quando tutto a un tratto Guarino dà al Consiglio una risposta gentile sì, ma che toglieva l'adito a ogni ulteriore speranza. Si capisce che nella deliberazione ci entrava anche la questione economica, perchè Guarino prendeva a Ferrara 350 scudi, ma il vero motivo fu che il marchese vi si oppose risolutamente, desiderando che si compisse l'educazione di Leonello. Allora Guarino seguitava ad essere maestro di corte.

240. Capitava poi a Verona or questo or quello, per cui Guarino aveva occasione di mettersi in corrispondenza coi [106] suoi concittadini. Così nel 1430 vi fece una gita il marchese Niccolò per assistere a un matrimonio nell'illustre famiglia dei dal Verme. Nell'autunno del 1434 vi andò podestà Francesco Barbaro, al quale appunto allora Guarino dedicò la Vita di Focione tradotta da Plutarco. Il Barbaro per la via dell'Adige arrivò a Lendinara, dove fu ospitato dal conte di Sambonifacio, col quale parlò di Guarino, indi pernottò nella casa di Guarino a Villa Bartolomea. Il conte di Sambonifacio era stato nei suoi primi anni governatore di Padova, quindi fece la carriera militare sotto Braccio di Montone; presentemente viveva ritirato nel suo feudo di Lendinara, dove attendeva agli studi teologici, per i quali ricorreva spesso ai consigli di Guarino. Tenne a cresima un figlio di lui e così gli diventò compare.

241. Comica fu la comparsa a Verona nel 1433 di un Calabrese. Era di statura piuttosto bassa, di persona smilza, gambe un po' storte, volto di color terriccio, guardatura guercia. Costui un bel giorno con un vestito stracciato e in stivaloni si presenta sulla piazza di Verona, seguito da un gran codazzo di curiosi, e improvvisa dinanzi al podestà un rimbombante discorso, infarcito di versi dei poeti d'allora. Quando dagli astanti gli fu chiesto chi fosse, egli rispose: «sono Antonio Panormita, poeta laureato, al servizio del duca di Milano». Sarebbe curioso sapere se questo ciarlatano avesse veramente veduto il Panormita e l'avesse praticato in modo da poterlo contraffare, chè non è improbabile che il Panormita offrisse qualche appiglio alla caricatura. Comunque, a Verona il nome del Panormita, da quando Guarino vi avea diffuso l'Ermafrodito, era venerato; e i Veronesi fecero a gara per rendere onore all'illustre ospite. Intanto qualcuno ne scrisse a Ferrara a Guarino, il quale capito di che si trattava rispose subito dando i connotati del vero Panormita. Seppero così che il vero Panormita non era [107] guercio e domandarono al Calabrese come avesse quel difetto. Il furbo matricolato inventò che era stato per una malattia. Gli domandarono il diploma della laurea poetica ed egli rispose che l'aveva dovuta vendere per comprarsi da mangiare. E continuò a menare per il naso i Veronesi, finchè Guarino non spedì a Verona una lettera a lui diretta dal Panormita; allora si persuasero; e il ciarlatano andò altrove forse a ripetere il gioco, poichè l'aveva già fatto anche prima nel Piceno.

242. Intima, come si vede, e frequente era la corrispondenza di Guarino col Panormita; e tale essa si conservò tutto il tempo che il Panormita rimase a Pavia, cioè sino al principio del 1435, quando passò al servizio di Alfonso d'Aragona. Anzi fu per mezzo del Panormita che Guarino si tenne in stretta relazione col circolo letterario lombardo di Pavia e Milano, ma più di Pavia.

243. Fra i tanti del circolo pavese, oltre il Panormita, conosciuti da Guarino nomino Catone Sacco e Maffeo Vegio, luminari della giurisprudenza, il secondo anche poeta e autore di libri educativi, e Lorenzo Valla, che allora faceva il suo primo ingresso, diremmo, ufficiale nella grande famiglia degli umanisti italiani.

Bello e veramente eroico quinquennio fu questo (1431-1435) per lo Studio pavese! Francesco Pizolpasso, vescovo allora di Pavia e più tardi arcivescovo di Milano, uno dei più dotti ecclesiastici del tempo, pigliava parte attiva a quel movimento letterario; Francesco Bossi vescovo di Como vi insegnava diritto. Era viva ancora l'eco della voce venerata di Gasparino Barzizza, che aveva chiuso a Pavia nel 1430 la sua lunga carriera di insegnante e la sua lunga vita, quando vi venne a insegnare il Valla, presentato dal Panormita.

244. C'era tra costoro due una differenza di 15 anni, eppure il Panormita già celebre non disdegnava di andare a sentire [108] le lezioni del Valla, giovanotto appena; se non che questa fraterna armonia non ebbe a durare più di due anni. Intorno a quei due grandi si raccoglieva una turba numerosissima di allievi ed insegnanti, che cercavano godersi la vita alternando la serietà e l'operosità dello studio con la gaiezza clamorosa e con la spensieratezza dei convivia e delle compotationes. Fu di là che il Valla lanciò nel mondo stupefatto e scandalizzato il suo libro Sulla voluttà, in cui per la prima volta venivano solennemente rivendicati e affermati i diritti del senso sullo spirito; fu di là che il Panormita diffondeva per la prima volta in Lombardia la conoscenza di Plauto. E tempo di fiere polemiche fu quello: del Valla contro i giuristi, che egli mandava a imparar grammatica; del Panormita contro i minoriti, che non gli sapevano perdonare l'Ermafrodito; e da ultimo del Panormita contro il Valla; poichè i due umanisti avevano troppa coscienza delle proprie forze e, come suole avvenire, non poterono star lungamente insieme senza che sorgesse l'invidia a dividerli.

245. Il primo passo a mettersi in relazione col circolo pavese lo fece Guarino. Già da Ferrara a Pavia andavano e venivano spesso persone d'affari e di studio e c'era quindi occasione di scriversi. Una di queste occasioni si presentò a Guarino nel 1430, quando andava a Pavia suo nipote Lodovico Ferrari. Quel nipote e sua madre Cecilia avevano una questione di eredità ad Alessandria e Guarino li raccomandò al Panormita, il quale parte con l'opera sua parte con la cooperazione di alcuni personaggi della cancelleria ducale riuscì a dar loro vinta la causa. Egli pose molto impegno nella protezione assuntasi e mostrò sincero affetto ai due raccomandati, che egli chiamava scherzosamente i suoi Guarinastri e ai quali concesse ospitalità nella propria casa.

246. Verso il luglio dunque del 1430 Lodovico Ferrari andò a Pavia e Guarino ne approfittò per mandare un [109] saluto al suo Panormita, a cui da qualche tempo non scriveva, e per dargli notizie della sua nuova posizione a Ferrara.

247. La gradita impressione prodotta da questa novella sull'animo del Panormita è da lui manifestata con queste caratteristiche parole: «posso senza commuovermi sopportare l'inedia, le malattie, la povertà, fin anco l'invidia degli uomini; ma non so padroneggiarmi davanti alla propizia fortuna degli amici». Di ricambio egli annunziò a Guarino la sua nomina di poeta aulico del Visconti e nel 1432 l'incoronazione poetica per mano dell'imperatore Sigismondo. Ad ognuno di questi annunzi l'animo di Guarino esultò di gioia.

248. Il Valla e Guarino non si erano ancora veduti; ma il Valla trovò una occasione di andare a Ferrara a visitarvi l'illustre umanista, per il quale nutriva sincera stima. Egli aveva pubblicato nel 1430 il suo libro De voluptate in forma di dialogo, nel quale gli interlocutori erano personaggi del circolo romano e fiorentino: tra essi anche il Panormita. Nel 1433 pubblicò la seconda edizione col titolo mutato De vero bono e mutò anche gli interlocutori, sostituendoli con personaggi del circolo pavese e milanese, ma escluso il Panormita, col quale allora era in discordia. Di questa seconda edizione il Valla deliberò di far dono anche a Guarino e di portargliela in persona, per aver così opportunità di stringere conoscenza con lui. Ciò fu nel settembre 1433, quando il Valla si licenziò da Pavia. Il Panormita cercò di predisporre l'animo di Guarino contro il Valla, prima che costui arrivasse a Ferrara. Guarino però, uomo di molto buon senso e prudente, rispose alto alto al Panormita, schermendosi con frasi generiche, che non compromettessero la libertà del proprio contegno. Il Valla faceva allora un giro per Ferrara e Firenze, donde si sarebbe recato ad insegnare a Milano e a Genova. A Ferrara si trattenne un paio di giorni.

[110] 249. L'accoglienza di Guarino deve essere stata soddisfacente, perchè il Valla la ricorda con una certa compiacenza. Noi del resto sappiamo che Guarino professava verace stima al Valla, a cui più tardi lodò le Eleganze con quelle parole, che il Valla ripeteva non senza orgoglio: Laurenti laurea et Valla vallari corona ornandus es. E quest'amicizia reciproca fu cementata da Girolamo Guarini, quando andò nel 1443 a Napoli al servizio di re Alfonso, raccomandato al Valla. Si capisce che quella visita a Ferrara sia stata sentita con dispiacere a Roma dal circolo del Poggio, del Loschi, del Rustici, tutti nemici del Valla. A Roma anzi dicevano che tra il Valla e Guarino si era un poco mormorato del circolo romano e che Guarino erasi mostrato freddo verso il Valla: voci nate, come è facile spiegare, dalla gelosia e in parte anche da una erronea relazione che di quell'incontro mandò a Roma ad Antonio Loschi il figlio Niccolò, il quale allora studiava sotto Guarino a Ferrara.

250. In questo tempo Guarino oltre che per la sua fama di dotto e venerato maestro, correva sulle bocche dei Pavesi e dei Milanesi per una polemica, che gli venne sollevata contro da Pier Candido Decembrio. La cagione più che letteraria era politica. L'orazione di Guarino in lode del conte di Carmagnola, composta nel principio del 1428, si era divulgata per tutta la Venezia e la Lombardia, suscitando sentimenti molto diversi, giacchè i Veneziani si compiacevano di quegli elogi prodigati al loro gran generale, il vincitor di Maclodio, e i Milanesi se ne rodevano, scorgendo elevato alle stelle il disertore del Visconti. Quando Guarino passò a Ferrara, gli amici di Pavia e di Milano facevano a gara per avere, col mezzo del Panormita, copia di quell'orazione. L'ebbe anche Cambio Zambeccari e da lui Pier Candido Decembrio. Allo Zambeccari, il cospiratore bolognese, che non si preoccupava della questione politica, l'orazione [111] piaceva; ma non piacque al Decembrio, attaccato al partito ducale, tanto più che giusto allora, nel 1431, si erano riaccese le ostilità fra Venezia e Milano. E giusto allora sentivano a Milano la mancanza del Carmagnola, sicchè il Decembrio non potè soffrire di sentirlo tanto lodato nel discorso di Guarino. Intraprese dunque una confutazione di esso, indirizzandola, non so quanto opportunamente, allo Zambeccari.

251. La confutazione, pedantesca, minuziosa, aggressiva, procede passo passo col testo di Guarino, verso cui è talvolta molto acre e in generale poco rispettosa. Nè l'orazione di Guarino ci perdette, bensì ci guadagnò, perchè la confutazione la rese più ricercata e dell'una e dell'altra si moltiplicavano gli esemplari. Guarino seguendo il suo costume non se ne dette per inteso, ma ci fu chi pensò di prender le sue difese: il Panormita. Egli infatti ribattè gli argomenti del Decembrio, ritorcendogli contro i propri colpi, e tessè l'apologia di Guarino. E il Decembrio non si diede vinto, ma replicò, lanciando una invettiva contro Guarino e il suo apologista. La questione però non ebbe altro seguito, poichè dietro consiglio del Panormita stesso Guarino poscia, non si sa se con una lettera o con dei versi, disse le lodi del Visconti, per mostrare che nelle lodi del Carmagnola non c'era entrata la partigianeria. Ciò del resto dovea corrispondere anche agli intendimenti del marchese Niccolò, la cui politica era conciliativa e il quale non voleva dar motivi di disgusto a nessuno dei suoi vicini.

252. Partito da Pavia il Panormita, i legami di Guarino col circolo lombardo si rallentarono molto, anche perchè il movimento intellettuale si andava trasportando sempre più da Pavia a Milano e quindi allontanavasi dal centro di attività, dove operava Guarino. Il Panormita lasciò Pavia nel principio del 1435 e andò a Palermo, sua patria. Ivi si fermò poco tempo, dopo di che si imbarcò a Messina nell'aprile [112] dell'anno stesso con Alfonso di Aragona e si diresse alla volta di Gaeta. D'allora in poi egli fu attratto nell'orbita del re Alfonso e le sue relazioni con l'Alta Italia e con Guarino diventarono più rare. Anzi a Guarino nella partenza cagionò un grave dispiacere.

253. Guarino nel 1433 circa gli aveva prestato la propria copia delle nuove dodici commedie di Plauto del codice Orsiniano, la quale il Panormita si portò seco a Palermo. Quando di là si trasferì a Gaeta, egli vi lasciò una parte de' suoi codici e tra essi il Guariniano. Guarino avendo inteso della partenza del Panormita e come si era portato via il proprio codice, se ne accorò profondamente e scrisse a parecchi amici pavesi, i quali gli confermarono che il Panormita non sarebbe più tornato. Per allora Guarino dovette mettersi l'animo in pace. Quando poi nel 1442 Alfonso d'Aragona entrò vincitore in Napoli, allora si diresse a lui con lettera, pregandolo di ottenergli dal Panormita la restituzione del codice Plautino: invano. Si rivolse direttamente al Panormita: invano; nuovamente al re Alfonso: sempre invano. Gli fu forza aspettare l'anno 1444, in cui il Panormita fece una corsa a Palermo. In quell'occasione riprese i suoi codici, tra i quali il Plautino e lo rimandò a Guarino nei primi mesi del 1445.

254. Quanto penò ora Guarino a riavere il suo apografo di Plauto, altrettanto avea penato prima ad avere l'archetipo Orsiniano. L'Orsini, pur non sapendolo leggere, lo teneva gelosamente custodito presso di sè e per parecchio tempo non ne fece parte agli umanisti, che d'ogni dove gli rinnovavano gli assalti per cavarglielo di mano. Inutilmente gli fu chiesto da Milano, inutilmente da Ferrara, donde partirono due suppliche: l'una di Leonello d'Este, l'altra, molto caratteristica, del nipote di Guarino, Lodovico Ferrari. Lo stesso esito ebbero le pratiche del Traversari e del Niccoli [113] da Firenze. Quante volte non ritentò a Roma la prova il Poggio! ma sempre senza successo; tanto che in un momento di cattivo umore protestò che ormai non l'avrebbe più preso, nemmeno se gli venisse offerto. Guarino ricorse a un altro mezzo. Era andato a Roma, con un incarico del marchese, il giovane giureconsulto Ziliolo Zilioli; a lui si rivolse acciocchè facesse pratiche per avere il codice: anche questa volta fatica sprecata. Solo Lorenzo dei Medici, che si era recato nel 1431 a Roma con l'ambasciata fiorentina a fare omaggio al nuovo pontefice Eugenio IV, solo egli riuscì con molta arte a trar di mano all'arpia il codice e a portarlo a Firenze. A Ferrara esso giunse, direttamente dall'Orsini, l'anno seguente 1432. Così Guarino lo copiò e mandò il proprio apografo al Panormita.

255. Si è veduto Ziliolo Zilioli a Roma nel 1430. Per mezzo suo e per mezzo di Meliaduce d'Este e del suo institutore Aurispa, andati a Roma alla fine del 1431, Guarino ebbe occasione di rinfrescare le proprie conoscenze coi porporati e con gli umanisti della curia, quali il cardinale Albergati, il cardinale Capranica, il Poggio, il Loschi, il Rustici. Ma la corrispondenza con quel circolo si animò di più, quando Guarino lo ebbe più prossimo, giacchè nel giugno del 1434 la corte pontificia si trasferì a Firenze.

256. Senza di che le comunicazioni tra Ferrara e Firenze erano già prima assai vive, specialmente perché Ferrara era il consueto convegno degli ambasciatori degli stati belligeranti italiani. Il marchese d'Este manteneva con molta astuzia e prudenza la sua posizione neutrale e veniva per questo sempre scelto come intermediario nei trattati di pace. Così nel 1432 e nel 1433 ci fu convegno di plenipotenziari a Ferrara; la prima volta vi andarono come incaricati della repubblica fiorentina Cosimo dei Medici e Palla Strozzi, la seconda volta il solo Strozzi: entrambi erano stretti da vincoli [114] di antica amicizia con Guarino. Nel 1431 era passato, di ritorno da Verona, per Ferrara il Niccoli e si abboccò con Guarino, col quale ragionò di codici e di studi; e nel 1433 era andato da Ferrara a Firenze il Lamola, come institutore privato in casa Strozzi. Ora poi che la corte pontificia stava a Firenze vi si recarono a far visita ad Eugenio IV i due fratelli Estensi Leonello e Meliaduce, coi loro aiutanti il cavaliere Feltrino Boiardo e il cavaliere Alberto della Sale.

257. Quegli anni nei quali la corte pontificia si piantò a Firenze, prima dal 1434 al 1436, poi dal 1439 al 1443 nel tempo del Concilio, costituiscono uno dei momenti più fecondi e più felici dell'umanismo italiano. I letterati della corte papale si trovarono allora insieme con quelli di Firenze, la culla del grande movimento umanistico, dove erano nel massimo fiore il Traversari, il Bruni, il Niccoli, il Marsuppini. Ne era partito o ne stava per partire il Filelfo, ma in compenso veniva da Basilea l'Aurispa coi suoi nuovi codici scoperti in Germania e specialmente col commento di Donato a Terenzio. E in quell'intreccio di attività, in quello scambio di cognizioni e di vedute si agitarono grandi questioni, che nel periodo umanistico ebbero varia fortuna e spesso divisero il campo in due partiti. Esse versavano sulla preminenza fra i capitani antichi, sulla natura della lingua latina, sulla preferenza da darsi al latino o al volgare italiano, sulla superiorità dei Latini o dei Greci. Le due ultime furono cominciate specialmente a discutere nella seconda dimora della corte pontificia a Firenze (1439-1443); le altre due furono discusse nella prima dimora e propriamente nell'anno 1435, anzi su per giù nello stesso mese: tra il marzo e l'aprile. In esse, la questione cioè sulla preminenza fra i capitani antichi e quella sulla natura dell'antico latino, si trovò impegnato anche Guarino.

[115] 258. Era a Firenze con la corte pontificia un giovane ferrarese, Scipione Mainenti, amico comune di Guarino e del Poggio. Avea studiato diritto civile a Bologna e di là era passato a Firenze nel 1429. Nel 1433 avea fatto la sua gita a Basilea, donde era tornato con alcuni codici nel 1434. In quell'anno stesso si era dottorato a Bologna. Fatta una breve sosta in patria, si era trasferito a Firenze, dove si accompagnò alla curia che egli seguì poi sempre. Fu eletto nel 1436 vescovo di Modena e morì nel 1444. Scipione Mainenti era entusiastico ammiratore del suo omonimo romano, tanto che il pio Alberto da Sarteano ne lo rimproverava, sembrandogli che paganeggiasse un pochino troppo.

259. Per deferenza all'ammirazione dell'amico Mainenti il Poggio gli scrisse una lettera, nella quale fra i capitani antichi dà la palma a Scipione. A Scipione aveva dato la palma anche il Petrarca; Pier Candido Decembrio invece presso a poco nel tempo stesso della lettera del Poggio dava la palma a Cesare. Ciò era naturale nel Decembrio, che rendeva così omaggio alla maestà Cesarea del suo Filippo Maria Visconti. Ma il Decembrio a riscontro di Cesare poneva Annibale, il Poggio al contrario confrontò Cesare con Scipione. Egli nella sua lettera esamina anzitutto i giudizi degli antichi, indi la vita dei due grandi capitani e viene alla conclusione che Scipione nella virtù e nella rettitudine fu molto superiore a Cesare e che non gli fu inferiore nella gloria militare.

260. Leonello reduce dalla sua gita di Firenze portò a Guarino a Ferrara i saluti del Poggio e una copia della lettera sulla preminenza di Scipione. Guarino lesse la lettera e ne rimase scandalizzato. Egli scorse nel Poggio addirittura un detrattore, un calunniatore di Cesare, un Caesaro-mastix e gli scrisse contro una violenta confutazione: «Come hai [116] il coraggio di chiamar Cesare parricida linguae latinae? No parricida ma litterarum expolitor et munditiarum parens». E cita le testimonianze degli antichi, mettendo in chiaro quanta cultura ci fu in Roma e dopo Cesare e sotto Augusto e durante l'impero e come Cesare promosse molto gli studi. «Nè Cesare tolse le istituzioni repubblicane: le vere cause della rovina di Roma furono l'avarizia e il lusso. E se vi furono imperatori iniqui, ve ne furono anche di buoni; e Cesare non è responsabile degli iniqui, come S. Pietro non ha colpa dei papi malvagi che gli succedettero». Indi esamina l'adolescenza di Cesare e mostra, contro l'asserzione del Poggio, che in essa Cesare diede ottimi indizi di animo forte e generoso. «Perchè vai pescando, o Poggio, tutte le accuse mosse a Cesare dalla malignità e che sono naturalmente sospette e taci il buono di cui si ha notizia sicura? Perchè interpreti malamente azioni di Cesare, che considerate da un animo imparziale sono invece oneste? — Cesare si servì di largizioni per farsi eleggere console. — Ma lasciando le largizioni, cosa allora comune, chi ha più merito dei due: Cesare eletto con tanta lotta o Scipione eletto perchè nessuno si presentava? Non vedo che si deva rimproverare a Cesare di aver proposto il domicilio coatto dei Catilinarii, giacchè non fu egli il solo; e Catone che lo osteggiò non era poi quell'irreprensibile uomo, che potrebbe parere. — Ma si fece prorogare il comando della Gallia. — E non pensi alla capitale importanza di quella guerra? Del resto Cesare in guerra fu clementissimo e umano. — Ma si avvilì negli amori di Cleopatra. — E Scipione non amò una schiava? Dici che fu poca gloria vincere i Galli imbelli. Leggi il giudizio di Sallustio e mi saprai poi dire se erano imbelli». Da ultimo Guarino difende Cesare dall'accusa di essere stato il distruttore della libertà, mostrando che la libertà di Roma era già morta da prima e che Cesare fu anzi quegli che la [117] difese. Conchiude che Scipione fu vir bonus, civis pusillanimis, imperator excellens, che Cesare fu civis magnanimus, princeps prudentissimus, imperator excellentissimus.

261. La lettera di Guarino fu intitolata a Leonello, l'ammiratore di Cesare; e fu certo per deferenza a lui, se mise tanto calore e, diciamolo, acrimonia nella confutazione del Poggio. Il Poggio replicò indirizzando la lettera al Barbaro, da lui scelto arbitro della contesa. Nel preambolo egli confessa di non sapersi persuadere come mai Guarino abbia preso in sul serio una questione accademica, trattata unicamente per esercizio di ingegno, e che vi abbia mischiata tanta acrimonia; egli non trova altra ragione di tanto accanimento se non il supporre che c'entrasse di mezzo Leonello: e non s'ingannava.

262. La replica del Poggio è molto moderata. Egli ribatte uno per uno tutti gli argomenti di Guarino. Cicerone, Vergilio, Sallustio, Orazio vissero sotto Cesare, ma nacquero e furono educati al tempo della repubblica. Vi furono valenti grammatici sotto l'impero, ma tutti insieme non valgono una pagina di Varrone; dopo morto Cesare non si trova un comico come Plauto, un oratore come Cicerone; e questo dicasi pure dei filosofi, dei giureconsulti. Da ultimo il Poggio con una lunga serie di testimonianze antiche dimostra l'assurdità della tesi di Guarino, che Cesare cioè non abbia distrutta la libertà di Roma, anzi la abbia promossa.

263. Quest'ostilità terminò meno d'un anno dopo con l'interposizione di Francesco Barbaro. La personalità era assolutamente esclusa dalla disputa e l'amicizia tra Guarino e il Poggio fu delle poche veramente costanti e sincere di quel tempo; fu quindi facilissimo il riavvicinamento.

264. L'altra questione, non oziosa e accademica, almeno per noi, come la prima, ma vitale e di un grandissimo valore storico, si aggirava sulla natura della lingua latina. Ecco [118] come è nata. Nel marzo 1435 in Firenze nell'anticamera del palazzo dove alloggiava il papa si trovavano il Biondo, il Loschi, il Poggio, il Rustici, Andrea Fiocchi. Discutevano sulla lingua latina e sulla sua natura, se cioè al tempo di Roma antica gli illetterati e i letterati parlassero la medesima lingua. In mezzo alla discussione comparì nell'anticamera il Bruni, mandato a chiamare dal papa. Subito colleghi ed amici si rivolsero a lui per sentire la sua autorevole parola. Fu allora che il Bruni lanciò quel suo audace e famoso giudizio: il volgo romano antico parlava il medesimo linguaggio delle nostre plebi presenti. La parola del Bruni divise senza altro il campo in due partiti; stettero con lui il Loschi e il Rustici, gli si dichiararono contrari il Biondo, il Poggio, il Fiocchi. Più tardi si schierarono contro il Bruni anche Carlo Marsuppini e Leon Battista Alberti. Ma intanto il Bruni dovette entrare dal papa e la discussione rimase interrotta.

265. Portavoce del partito contrario al Bruni si fece il Biondo, il quale tornato a casa pensò di ordinare e raccogliere le proprie idee e quelle degli amici e dare ad esse forma di dissertazione. La dissertazione uscì il primo aprile 1435 intitolata al Bruni.

266. Il Biondo pone la questione nei suoi veri termini; indi ribatte gli argomenti addotti dal Loschi, dal Rustici, dal Bruni nella prima discussione; da ultimo entra nel tema e sostiene la propria tesi, appoggiandosi alle testimonianze di Cicerone. Egli ammette una differenza di grado tra la lingua della classe colta e quella della classe incolta. Quella differenza è dovuta in parte allo studio, in parte al contatto con la migliore società. Ma tutti i Romani parlavano il latino grammaticale, perchè così lo aveano da natura. La moltitudine intendeva non solo ma sapeva anche apprezzare tanto le orazioni del Foro quanto le rappresentazioni del teatro. Del [119] resto non fa bisogno per capire aver la cultura di chi parla: altro è parlare, altro intendere.

267. Il Bruni rispose al Biondo in data 7 maggio. Ribattè l'argomento degli oratori, dicendo che in senato e nei tribunali il pubblico era di gente colta e che perciò parlava il latino letterario; il pubblico del Foro era misto e quelli che capivano erano colti; del resto non doversi dimenticare che gli oratori parlavano un linguaggio volgare, che poi traducevano in linguaggio letterato per la pubblicazione. Ribattè l'argomento del teatro, cercando di mostrare che il pubblico non vi andava tanto a sentire la recitazione, quanto a vedere l'apparato scenico e la mimica. La confutazione specialmente di questo secondo punto è addirittura puerile. Però non manca una certa felice intuizione. Il Bruni con tatto fine distingue, sulla scorta di Cicerone e di Varrone, le forme volgari Bellius vella vellatura dalle letterate Duellius villa vectura, ma è troppo poco.

268. Il vero argomento del Bruni è un sentimento soggettivo. Egli non può nè persuadersi nè credere che altri, specialmente se istruito, si persuada, che una donnicciola romana sapesse p. e. distinguere filiis da filiabus, cecidi da cecidi e parlasse il latino di Terenzio e di Cicerone senza averlo studiato. Quel latino lo sapeva ben lui quanta fatica gli era costato e non si rassegnava che a Roma si avesse a così buon prezzo.

269. A Ferrara la questione si era pure agitata e Guarino ne parlò spesso con Leonello, con Angelo Decembrio, col Boiardo e col Pirondoli. Questi due ultimi pareva che stessero dalla parte del Bruni; risolutamente col Bruni stavano Leonello e il Decembrio, i quali notavano che in Roma c'erano scuole e maestri e che perciò la lingua si doveva impararla; se il volgo la avesse posseduta per natura, erano inutili i maestri e le scuole. Guarino invece si mise dalla parte del [120] Biondo. Egli ripiglia i due argomenti tratti dal Foro e dal teatro, aggiungendo nuove citazioni e nuovi schiarimenti. Soprattutto riguardo al Foro insiste sull'esistenza degli stenografi anche in antico e ritiene perciò che noi abbiamo le orazioni quali venivano recitate. Si indugia a lungo a dimostrare, con l'autorità specialmente di Cicerone, che la latinità in Roma non si imparava, come sostiene il Bruni, ma ciascuno la portava con sè nel sangue per eredità.

270. Distingue però i tempi primitivi nei quali la latinità si parlava incoscientemente, dai tempi recenti, nei quali la si parlava coscientemente cioè studiandola. I periodi della lingua latina secondo Guarino sono quattro: il periodo di Giano, il periodo di Latino, il periodo dei monumenti letterari e il periodo della decadenza. Nei tre primi il latino è litteralis e va man mano perfezionandosi, nel quarto per influenza dei barbari si imbastardisce, perde la propria fisonomia, si snatura e diventa vulgaricus. Solo qua e là nelle provincie si incontrano ancor tracce dell'antica fisonomia litteralis e in questo proposito Guarino cita alcuni esempi dallo spagnolo. Dichiara da ultimo, che vi doveva essere una differenza tra la lingua del volgo e quella dei dotti, il latino dei quali possedeva vocaboli di una secretior quaedam intelligentia.

271. Su questa differenza, già notata dal Biondo, ritorna il Filelfo, il quale ha trattato la questione in due lettere, schierandosi contro il Bruni. Il Filelfo distingue in Roma un sermo litteralis grammaticus e un sermo vulgaris latinus forensis. Il sermo litteralis appartiene allo stile elevato, p. e. alla filosofia ed alla poesia epica; così Cicerone adopera calliditas per indicare una facoltà intellettuale, dove che il popolo prendeva la parola in ben altro senso; così Vergilio adopera olli invece di illi. Il sermo vulgaris era la lingua usuale del senato, dei tribunali, del foro, dei teatri, del parlar domestico; il sermo vulgaris contiene naturalmente delle sgrammaticature; p. e. Terenzio [121] adopera emoriri per emori. Ma la differenza fra l'uno e l'altro sermo è admodum parva; esempi di sermo vulgaris rispetto al litteralis sono i genitivi ornati tumulti senati victi rispetto ai genitivi ornatus tumultus senatus victus, le forme barbaries barbariei rispetto a barbaria barbariae. Così i grammatici non ammettono il nominativo nex, che si può adoperare nel sermo vulgaris; non ammettono che il solo ablativo sponte, dove che Cornelio Celso ha suae spontis.

272. Una obbiezione muove il Filelfo al Bruni sull'esistenza del volgare italiano nei tempi di Roma antica, che cioè di esso non c'è rimasto nessun monumento. Inoltre Guarino e il Filelfo, per mostrare l'assurdità della ripugnanza che aveva espresso il Bruni ad ammettere la grammaticalità del volgare romano, citano un fatto del quale essi furono testimoni. Entrambi erano stati a Costantinopoli, Guarino nel 1403, il Filelfo nel 1427, e ivi aveano notato che il volgo parlava il greco grammaticalmente, conservando cioè le terminazioni dei casi, dei numeri, dei tempi, come si riscontra negli antichi autori greci.

Guarino a Ferrara Secondo quinquennio
(1436-1440)

273. Col 1435 Leonello esce dalla tutela pedagogica di Guarino, quantunque il suo maestro non lo abbandonò mai anche dopo, soccorrendolo sempre dei suoi consigli negli studi. Terminata così la condotta, per la quale Guarino era stato invitato alla corte degli Estensi, un'altra e non meno onorifica gliene offerse la città.

274. Con un primo decreto in data 29 marzo 1436 il Consiglio gli assegnava di stipendio 150 ducati, non compresa [122] la pigione di casa, per la quale gli venivano pagate 100 lire marchesane. Naturalmente Guarino fece delle rimostranze sullo stipendio, poichè egli come institutore privato di Leonello riscoteva 350 ducati e ora come pubblico insegnante ne avrebbe riscossi meno della metà. In un seconda deliberazione del 30 aprile il Consiglio gli assegnava per lo stipendio 400 lire marchesane e gli lasciava le 100 per la pigione; così su per giù si arrivava a 300 ducati e Guarino potè accettare. La nomina valeva per un quinquennio dal giorno in cui egli cominciava il corso. Le condizioni erano: due lezioni nei giorni feriali, una nei giorni festivi e che il corso fosse gratuito.

275. Guarino inaugurò il corso il 1.º maggio, ma fu corso breve; e per giunta a S. Luca non si potè ripigliare, perchè Guarino era fuori di Ferrara a cagione della peste. Nel decreto di nomina c'era la clausola che in caso d'assenza per motivo di epidemia gli si sarebbe pagato solo metà dello stipendio. Ciò prova che il morbo doveva già serpeggiare nell'aprile. Nell'agosto Guarino si risolse a partire. Sul principio di settembre avea mandato innanzi il figlio Girolamo ed egli si apparecchiava al viaggio col rimanente della famiglia. Per luogo di rifugio fu scelta la sua villa di Valpolicella. Ivi avrebbe riprese per un momento le antiche abitudini, sarebbe tornato alle gradite occupazioni della vendemmia, avrebbe riveduti i vecchi amici.

276. Quale delusione! gli parve di andare in paese nuovo, le vecchie conoscenze non c'erano più, procacciarsene di nuove non era il caso; laonde egli senza volerlo si sente trasportare col pensiero alla nuova patria, «che gli è nutrice anzi madre adottiva», al suo Leonello, che egli ama tanto e dal quale dovrà con suo rammarico star lontano per più mesi. Come ingannare il tempo dell'assenza? con la corrispondenza epistolare. Ma egli, Guarino, non vuol [123] presentarsi con le mani vuote; invierà dei frutti del suolo veronese, non però di quelli che pascano il corpo, bensì che siano cibo allo spirito. E i frutti sono usciti dall'intelletto di due vergini veronesi, le sorelle Nogarola, Isotta e Ginevra.

277. Queste due donne sono fra le produzioni più caratteristiche del periodo del rinascimento. In esse per la prima volta l'umanismo si sposa alla gentilezza femminile, specialmente nella Isotta, che rimase per questo riguardo insuperata; e con esse l'indirizzo Guariniano toccò in Verona il suo apice. Non è solo ora che la nobile famiglia veronese dei Nogarola fa la sua comparsa nella letteratura; già prima l'Angela e Giovanni, il poeta petrarchesco, aveano levata fama di sè, ma vere umaniste non sono che le due sorelle. Noi le possiamo dire uscite dalla scuola di Guarino, quantunque non sia stato egli il loro maestro; ma quei due fiori gentili sbocciarono sul suolo che egli aveva fecondato e loro maestro fu un suo scolaro, Martino Rizzoni.

278. Martino Rizzoni, prediletto alunno di Guarino, fu alla sua scuola di Verona sino al 1425, nel settembre del quale anno passò a Venezia, dove si collocò come institutore privato nella famiglia dei Tegliacci. Con essi era stato a Bologna negli anni 1427-1428; di là si trasferirono a Firenze, finalmente verso il 1430 il Rizzoni tornò in patria e ivi aperse scuola pubblica, che fu frequentata dalle sorelle Nogarola. Un esame accurato delle lettere delle Nogarola e specialmente della Isotta mostra evidenti le tracce dell'influenza Guariniana: la stessa verbosità, gli stessi sentimenti, le stesse frasi, le stesse reminiscenze poetiche innestate continuamente nella prosa. Però se nella educazione delle due sorelle Guarino ebbe solo parte indiretta, l'ebbe invece diretta nell'introdurle e presentarle ai circoli umanistici del suo tempo.

279. Coi letterati veronesi le Nogarola si erano già messe in corrispondenza, come con Giacomo Lavagnola, alunno di [124] Guarino, che sposò la loro sorella Bartolomea, con Damiano ed Eusebio Borghi padre e figlio, con Giorgio Bevilacqua, che era andato a studiare giurisprudenza prima a Padova, indi a Bologna e che non si potea dimenticare di quella bellissima partita di caccia fatta insieme con le Nogarola a Verona, nella quale «la più bella preda che egli riportò fu la loro amicizia». Erano in relazione anche con Venezia, dove aveano dei parenti, p. e. Antonio Borromeo, e con Vicenza, dove il maestro Ogniben Leoniceno tradusse per loro un opuscolo di Grisostomo. Molto giovò alla diffusione del loro nome la presenza di Francesco Barbaro, che si trovò a Verona come podestà dall'ottobre 1434 all'ottobre 1435, e al quale le due sorelle scrissero poi lettere. Quelle lettere si leggevano avidamente in pubblico con gran plauso di tutti, i quali proclamavano le Nogarola degne di esser figlie di Cornelia; Giorgio Bevilacqua aggiungeva che la miglior gloria di Verona era stata sino allora Guarino, ma che le due sorelle lo avevano oscurato. Per mezzo del Barbaro esse fecero conoscenza col nipote di lui, il protonotario Ermolao, e con Giacomo Foscari, figlio del doge Francesco; e scrissero all'uno e all'altro. Ma più fortunate senza confronto furono le lettere scritte al Foscari, perchè capitarono in mano di Guarino.

280. Le due lettere al Foscari sono dell'ottobre 1435 e ci rappresentano forse i primi saggi letterari, coi quali le due sorelle entrarono nel consorzio degli umanisti. Quelle due lettere furono trasmesse l'anno di poi (1436) dal Foscari a Guarino, che allora villeggiava a Valpolicella. Guarino ne rimase entusiasticamente ammirato e rispondendo al Foscari esaltò l'eleganza e l'erudizione delle Nogarola, chiamandole le «mosche bianche» di quel secolo, a petto delle quali perdono e Penelope e Aracne e Camilla e Pentesilea. «Sogliono i Veronesi lodare chi le nostre biade, chi le nostre [125] frutta, i nostri vini e i nostri olii, chi l'aria delle nostre campagne e dei nostri colli; ma pare non si siano accorti di queste due fanciulle, che sono il più bel frutto di cui possa andare orgoglioso il nostro suolo. O giovani, state ora attenti a non lasciarvi passare innanzi da queste due fanciulle, altrimenti si ripeterà a voi il motto antico: le donne sono uomini e gli uomini sono donne».

281. Guarino mandò copia delle due lettere al suo Leonello, il quale fu ad esse largo di altrettante lodi. Non è a dubitare che il Foscari appena ricevuta la risposta di Guarino la trasmise all'Isotta, la quale di quegli elogi si sentì profondamente tocca e solleticata e ne prese ardimento a scrivere a Guarino. Ma come fare a indirizzarsi a un tant'uomo, essa per la prima, appena iniziata negli studi letterari e per di più donna? Nella lotta tra il pudore e la gratitudine vinse la gratitudine ed ecco l'Isotta ringraziare Guarino delle lodi che egli si degnò di prodigarle e che la tramanderanno ai posteri immortale congiunta col nome di lui. Questa lettera è la più caratteristica, la più elegante, la più erudita di quante ne scrisse l'Isotta. Vi sono citati autori greci e latini, antichi e moderni, non escluso lo stesso Guarino; il discorso è infiorato di aneddoti classici e di versi latini. L'elogio che ella fa di Guarino supera in entusiasmo quello che egli fece di lei; e compiange Verona che si lasciò sfuggire un così illustre personaggio, l'onor degli studi e il più gran vanto d'Italia, e chiama felice Ferrara e accorto Leonello d'Este, che se lo seppero acquistare.

282. Guarino sul finire dell'anno (1436) ritornò da Valpolicella a Ferrara, fermandosi a passare il Natale a Verona. Vuoi per le noie della partenza e dell'arrivo, vuoi per le occupazioni che lo sopraffecero nei preparativi del nuovo corso, egli non pensò nemmeno che dovea rispondere alla Nogarola. Ma ci pensò ben ella, che di quel ritardo ebbe a soffrire [126] tristi conseguenze. Tutti a Verona sapevano che ella avea scritto per la prima a Guarino. Gli uomini probabilmente non ci avran fatto caso, ma le donne sì. L'invidia è soprattutto una passione femminile; e chissà come le Veronesi doveano sentirsi crucciare di quella fanciulla, che si era tanto sollevata al disopra del suo sesso e che riceveva tributo di lodi da ogni parte. La Isotta visse e morì vergine e nessuno può osare in sul serio di gettare anche l'ombra del sospetto sulla condotta di lei. Ma le donne che emergono fra le altre offrono purtroppo il fianco alla malignità; è la sorte toccata a Saffo. Se pertanto le donne veronesi aveano malignato sull'ardire, che esse chiamavano spudoratezza, della Nogarola nello scrivere per la prima a Guarino, ora che Guarino non rispondeva, esse si sentivano vendicate. Anche Guarino col suo silenzio dava ragione a loro ed esse erano bene nel diritto di insultare la sfacciata: e la insultavano veramente.

283. La povera Isotta si vide perduta e scrisse novellamente a Guarino, mendicandogli una risposta, ma nel medesimo tempo accusandolo di poca generosità, perchè egli, uomo, avea permesso col suo silenzio che si recasse onta a una donna. La risposta di Guarino questa volta non potea farsi aspettare e infatti partì il giorno stesso che egli ricevette la lettera della Nogarola. Le scuse del ritardo venivano da sè: le innumerevoli occupazioni scolastiche e domestiche. Le muove affettuoso rimprovero d'essersi lasciata vincere dallo sconforto, dove che ella col suo ingegno e con la sua dottrina aveva il dovere di mostrarsi superiore al suo sesso oltre che nella cultura anche nella forza del carattere. Le dà poi piena soddisfazione, confermando il proprio giudizio favorevolissimo sui meriti letterari di essa e accordandole la facoltà di servirsi della sua risposta per mettere a tacere i malevoli e gl'invidiosi.

[127] 284. La parsimonia epistolare di Guarino verso la Nogarola fu largamente compensata dai suoi scolari veronesi che studiavano con lui a Ferrara, e in particolar modo da suo figlio Girolamo, da Luigi Zendrata, da Tobia Borghi. Tutti tre questi giovanottini fecero le loro prime prove nel campo letterario scrivendo ciascuno la sua brava epistola alle Nogarola, sfoggiando la loro recente erudizione classica e citando versi e bruciando un grano d'incenso all'ingegno e alla fama delle due straordinarie fanciulle. E la Isotta, puntuale rispondeva a uno per uno, ringraziando, lodando, incoraggiando. Il Borghi per le nozze di Ginevra nel principio del 1438 compose un'egloga, della quale mandò una copia alle due sorelle e a qualche altro amico di Verona, come Galasio Avogari, che cominciava allora ad entrare nella repubblica letteraria. L'Avogari studiava di preferenza Plauto e nei dubbi ricorreva per consigli a Guarino. Il Borghi lodava molto lo stile di lui. Apparteneva al circolo veronese degli Ottobelli, del Fano, degli Zendrata, del Rizzoni, dei Mercanti, di Asino «il quale di asino non ha che il nome e beati gli altri asini che fossero asini siccome lui».

285. Del resto il quinquennio 1435-1440 fu il periodo veramente fecondo, veramente umanistico delle due Nogarola o meglio dell'Isotta, perchè Ginevra nel 1438 pigliato marito, disse addio agli studi. Nel 1438 stesso l'Isotta con la famiglia si trasferì a Venezia, per sottrarsi ai pericoli della guerra che allora infieriva tra i Veneti e i Milanesi. In Venezia potè conoscere da vicino i letterati di quel circolo; con Verona si mantenne in relazione per mezzo di Damiano Borghi; ma quando nel 1441 rimpatriò, essa era mutata di molto. Avea sorpassata la trentina; si trovò sola senza la sorella, la sua compagna di studio; a prender marito non volle pensare e così si abbandonò interamente alle proprie tendenze ascetiche, che già fanno capolino qua e là nelle [128] lettere del periodo anteriore. L'ascetismo soffocò in lei l'umanismo; il fenomeno non era isolato; un decennio prima Gregorio Correr veneziano disertava gli studi e i circoli umanistici per consacrarsi al culto di Dio.

286. Nell'aprile del 1437 Guarino ebbe una doppia prova di stima e di affetto dal marchese, che lo fece cittadino di Ferrara e gli pagò la casa allora comprata dagli eredi Boiardi. In riconoscenza di tale generosità Guarino dedicò a Leonello la traduzione delle Vite di Pelopida e Marcello di Plutarco. E oltre che dal principe, egli riceveva testimonianze di vero affetto e di stima dai suoi scolari, tra i quali pubblica e clamorosa prova, che costò poi parecchie noie a Guarino, glie ne dette un Andrea Agasone.

287. Costui nel marzo 1437 era andato per alcune faccende da Ferrara a Venezia. Ivi, alunno come era di Guarino, nelle ore libere cercava libri e ragionava di studi e del suo maestro, che era tanto amato a Venezia. Fra le novità letterarie gli capitò in mano la Retorica di Giorgio da Trebisonda, che era stata composta verso il 1435. La percorse e con sua sorpresa si imbattè in quel passo, dove il Trebisonda fa la critica stilistica della orazione di Guarino in lode del Carmagnola. Si accorse che in quella critica c'era dell'acrimonia. Nè vide male.

288. Il Trebisonda sin dal tempo che insegnava a Vicenza avea concepito gelosia di Guarino, che allora insegnava a Verona; egli anzi credette che il licenziamento da Vicenza fosse dovuto alle mene di Guarino. Passato a Venezia, trovò occasione di dir male di lui, specialmente quando gli fu mostrato l'elogio funebre per Teodora Zilioli, il quale egli giudicò assai sfavorevolmente, non fosse altro perchè colui che glielo mostrò proclamava Guarino il primo oratore d'Italia. Non gli parve quindi vero di cogliere un'occasione qual si fosse per sfogare il suo malanimo contro il grande oratore [129] e l'occasione gli si offerse nello scrivere la Retorica, dove criticò la più famosa delle orazioni di Guarino, quella in lode del Carmagnola.

289. Andrea Agasone non potè trattenere lo sdegno e scrisse a un condiscepolo di Ferrara, Paolo Regini, denunziando al pubblico lo scandalo, inveendo contro «il vile calunniatore» ed eccitando la scolaresca ferrarese a vendicare solennemente l'onore di Guarino. Non è a dubitare che la lettera di Andrea andò in mano anche di Guarino e che egli vietò a chiunque di immischiarsi nella faccenda, come non se ne immischiò egli stesso. Ma se ne occupò bene per proprio conto il Trebisonda, il quale buttò giù contro Guarino un'invettiva ignobile e piena di insolenze e per giunta la dedicò a Leonello, quasi volesse mostrargli quanto torto avesse avuto a concepire sì grande stima di Guarino. Veramente il Trebisonda non potea scegliere più infelicemente la persona, a cui confidare gli sfoghi della sua invidia, poichè è tutta invidia quella che schizza dalla lettera. Si fece però forte di un pretesto; infatti egli credette o finse di credere che Andrea Agasone fosse Guarino stesso, il quale avesse per viltà cercato di nascondersi sotto la maschera di un pseudonimo. Il cognome Agasone potrebbe essere un pseudonimo, perchè in latino significa mozzo ma non era pseudonimo il nome: in ogni modo non certo pseudonimo di Guarino.

290. L'anno dopo Guarino e il Trebisonda s'incontrarono a Ferrara, dove il Trebisonda si era recato al Concilio, essendo da poco entrato al servizio di Eugenio IV; e in quell'occasione Guarino gli fece capire che certe ragazzate non erano permesse ad uomini seri e che perciò bisognava por termine alla polemica.

291. Il Concilio portò nel 1438 un insolito movimento a Ferrara. In sul principio dell'anno arrivarono Eugenio IV [130] con la sua corte da Bologna e l'imperatore Giovanni Paleologo col suo seguito da Costantinopoli. Quante vecchie conoscenze non rivide ora Guarino! il Poggio, il Traversari, il Mainenti, l'Aurispa, il Rustici, il Biondo, il Pisanello. E quante non ne strinse di nuove! quella di Leon Battista Alberti, del Porcelli, del melanconico Lapo da Castiglionchio, morto l'anno stesso; e fra i Greci del Bessarione, di Gemisto Pletone, di Niccolò Sagundino, senza contare i dignitari ecclesiastici che in tale occasione convennero a Ferrara. Ivi egli potè praticare da vicino Eugenio IV, a cui dedicò la versione di due omelie di S. Basilio; al Mainenti dedicò la versione della Mosca di Luciano e scrisse un carme in lode del Pisanello, che gli donò un quadro di S. Girolamo fatto da lui e che allora appunto diede mano alle sue famose medaglie, aprendo la serie con quella dell'imperator greco. Guarino si chiama superbo di potere aver comune la patria con quel grande artista, il cui nome sarà immortale come sono immortali le sue figure, nelle quali sa infondere tanta vita.

292. Oltre a queste produzioni letterarie, a cui fornì pretesto la presenza della corte pontificia in Ferrara, Guarino ebbe anche noie dal Concilio, poichè dovette recitare un discorso di apertura e servire d'interprete fra i Latini e i i Greci e correr di qua e di là or per questa or per quella faccenda. Eppure a lui pareva di intorpidire e di batter la fiacca: «malattia del resto che gli aveva appiccicata il Concilio, che di tutto si occupava fuorchè di risolvere l'importante questione, per la quale era adunato, l'accordo cioè tra i Latini e i Greci, e che si cullava nella quiete e nei passatempi e la cui maggior sollecitudine era di liberarsi da ogni sollecitudine».

293. E così in effetto il Concilio poco o nulla conchiuse a Ferrara, donde levò, non appena terminato l'anno, le tende e le trasportò a Firenze: si avanzavano due grandi nemici, [131] la pestilenza e la guerra. Dei due pericoli il più temuto era la guerra, che allora più che mai si combatteva accanita fra Venezia e Milano; ma questo pericolo fu dissimulato e venne messo invece in rilievo quello della pestilenza. Giusto il contrario di ciò che succedeva a Guarino, il quale della guerra non dovea preoccuparsi più che tanto, ma si preoccupava seriamente della pestilenza. Sin dagli ultimi di settembre egli pensava già alla fuga e aveva designato due luoghi: o Rovigo o Lendinara presso il conte Sambonifacio, al quale si era raccomandato per l'alloggio. In ultimo però preferì Rovigo, dove lo troviamo stabilito con la moglie e coi dodici figli già nel gennaio del 1439.

294. A Rovigo stette l'intero anno, poichè il 23 decembre non ne era ancora partito; e viene il dubbio se abbia colà tenuto scuola, come avvenne altra volta, che in tempi di pestilenza lo Studio fu trasportato per un anno da Ferrara a Rovigo; ma questo non pare sia stato il caso nel 1439. Ad ogni modo Guarino ebbe continua occasione di corrispondere con gli amici ferraresi, vuoi per congratulazione, siccome quando Giacomo della Torre fu creato vescovo di Reggio e quando a Soccino Benzi nacque un figlio, del quale egli era stato scelto a padrino; vuoi per condoglianza, siccome quando morì il figlio a Feltrino Boiardo. Altra luttuosa circostanza fu la morte di Margherita Gonzaga, moglie di Leonello da appena cinque anni, mancata ai vivi il 7 luglio e per la quale Guarino scrisse un'orazione.

295. Con Leonello più volte ancora ebbe occasione di carteggio sia per commendatizie, sia per ammaestramenti, quale quello sul modo d'intestare le lettere. Qualche volta invece coglie il destro di dargli ammonimenti civili. Così nell'agosto Leonello andava a caccia e si credeva che arrivasse fino a Rovigo, ma tornò indietro, perchè non trovava selvaggina. «Eppure, gli scrive Guarino, qui ci sarebbe da [132] far buona preda, non però di selvaggina, bensì di uomini, che val molto di più. Questa brava gente ha per te e per la tua dinastia profondo e sincero rispetto, pur non essendo tu mai stato in mezzo a loro; chissà quanto ti amerebbero vedendoti qui. È saggio consiglio che i governanti si mostrino di quando in quando ai loro sudditi, per dar loro una sensibile prova d'affetto e per accertarsi delle loro condizioni e dei loro veri bisogni».

296. Tal altra volta sono ammonimenti filosofici, che Guarino vuol dare al suo allievo, ma incorniciandoglieli con un bozzetto. Un giorno infatti di ottobre essendo Guarino uscito da Rovigo a passeggiare sull'argine dell'Adige, si incontrò in un solitario: aspetto severo, larghe spalle, lunga barba, fronte rugosa. All'abito lo riconobbe per greco. Doveva essere uno dei tanti venuti con l'imperatore al Concilio l'anno precedente. Scambiatisi il saluto, il Greco domanda a Guarino che facesse a Rovigo; a cui risponde, che era fuggito dalla pestilenza. Il Greco rimane scandalizzato di una simile pusillanimità in un uomo, che avendo tanto studiato i classici avrebbe dovuto imparare da essi il disprezzo della morte. Guarino da quell'animo schietto ed ingenuo che era gli rispose, non senza uno spruzzo d'ironia, che il disprezzo della morte in teoria lo insegnava anche lui, ma in pratica avea paura della morte, la quale priva l'uomo di tanti beni e lo getta a marcire in una fossa. Allora ripigliò il Greco, mostrando come la vita ha più guai che beni e che paventare la morte è pazzia, perchè il corpo quando è morto non ha più senso e l'anima immortale vola in cielo. E perchè non ti uccidi dunque? replica Guarino, anche questa volta un po' ironicamente. Il Greco gli oppose la massima, che della nostra vita non siamo padroni noi, ma Dio solo. — Tutto questo ragionamento filosofico tra il Greco e Guarino non è altro che la parafrasi di quanto è esposto nel Somnium Scipionis di Cicerone.

[133] 297. Tutta la corrispondenza di Guarino in quest'anno si riduce al circolo ferrarese e al circolo veneto. Da Padova gli è venuta l'offerta di una nuova amicizia, del Baratella. Antonio Baratella nacque in Camposampiero nel Padovano, sulle rive del Musone, che egli celebrò nella sua Musonea. Abitava una villa detta Lauregia. Fu alunno del Barzizza e amico di Sicco Polenton e di Lodovico Sambonifacio, il compare di Guarino; morì nel 1448. Nel 1439 stava componendo l'Antenoreis, poemetto su Padova, quando gli venne tra mano l'Astyanax del Vegio. Allora concepì l'idea di cantare anche Polidoro, un altro degli infelici troiani periti miseramente. E compose la Polydoreis, intitolandola e mandandola a Guarino con una prolissa accompagnatoria in versi. Guarino gli rispose anche in versi, ma secco secco, limitandosi a dirgli che i suoi poemi erano degni di Vergilio, ed eccitandolo a condurre a termine l'Antenoreis.

298. Del resto Guarino aveva ben altra voglia che di occuparsi di letteratura e di poesia. L'anno 1439 fu per lui uno dei più fortunosi. Ardeva la guerra micidiale di Venezia e Firenze contro il Visconti, nella quale il marchese di Ferrara avea preso parte in favor di Venezia, mandando nel campo veneto il conte Taddeo d'Este. Taddeo si era trovato alla difesa di Brescia nel famoso assedio del 1438, nel quale si immortalò Francesco Barbaro, allora governatore di quella città in nome della repubblica veneta. Condottiero in capo del Visconti era il Piccinino, il quale nella prima metà del 1439 fece scorrerie sul territorio veronese; e in quella occasione ebbe a soffrire gravi danni anche la villa di Valpolicella di Guarino. Glieli raccontò un Veronese venuto di là: «cacciati i contadini, calpestate le messi, spogliata la villa, gettati a terra i tegoli, scassinate le serrature; appena i muri si erano salvati».

[134] 299. E questo fu nulla a petto di un altro dispiacere, che afflisse Guarino in quell'anno malaugurato. Correva da qualche tempo per le bocche di tutti un distico latino oltraggioso alla repubblica veneta. Di quel distico fu da taluno designato come autore Guarino, il quale quando gli fu riferita quella voce stava a letto malato di febbre con due figliuoli. Lo assalse un indicibile dolore e uno sconforto disperato, che trasfuse in un'angosciosissima lettera al Giuliani e al Giustinian, ai quali protesta solennemente essere quella una nera e vile calunnia e li scongiura di difendere presso il senato veneto la sua innocenza. Naturalmente il Giustinian gli rispose, che non se ne desse pensiero, perchè tutti a Venezia conoscevano la devozione e i meriti di Guarino verso la repubblica; che del resto quel distico era noto da un gran pezzo prima.

300. Ma intanto la pestilenza, la guerra, la febbre, il distico finirono con lo stordire il povero Guarino, «come quel tale che ricevuto un colpo nella testa da dotto che era diventò stupido e perdette la memoria». A farlo risensare molto giovarono le lettere dei suoi amici veneti, dopo che era tornato in Ferrara nel gennaio del 1440, quali Gabriele Tegliacci e Leonardo Giustinian, ma soprattutto quest'ultimo, a cui rende grazie entusiastiche di essere stato prosciolto dalla calunnia del distico. Nell'occasione che Guarino scriveva al Giustinian, Girolamo suo figlio scriveva al figlio del Giustinian, Bernardo, accludendogli nella lettera alcuni versi. Bernardo rispose molto affettuosamente a Girolamo, congratulandosi dei progressi che faceva negli studi e ricordando con vera compiacenza i tempi, in cui essi erano stati insieme a Verona scolari del padre Guarino.

301. Un altro Giustinian, il cavaliere Orsato, mandava a Guarino i saluti del Barbaro, reduce a Venezia dalla guerra; ed ecco Guarino congratularsi con l'illustre patrizio della [135] gloria immortale acquistatasi nella difesa di Brescia. «Non era più solo ormai Archimede che obbligò Marcello, fino allora invincibile, a levar l'assedio di Siracusa; anche il Barbaro insegnò al Piccinino, tante volte vincitore, ad esser vinto, obbligandolo a levar l'assedio di Brescia. E tutto ciò non tanto con la forza e la violenza, quanto con l'astuzia e l'ingegno, con la mansuetudine e con l'affabilità, trattandosi dall'una parte di respingere gli assalti degli assedianti e dall'altra di mantener l'ordine e la perseveranza negli assediati. Meritata fu dunque l'accoglienza trionfale che gli fecero i Veneziani».

302. Di qui ognun vede che Guarino, diversamente da altri umanisti, non perdeva mai d'occhio tra le cure degli studi gli avvenimenti politici del suo tempo. Ma nessuna guerra attirò tanto la sua attenzione e gli tenne l'animo sospeso e angustiato, quanto quella dei collegati contro il Visconti. E veramente delle guerre italiane che egli potè vedere fu la più accanita e la più grave. Era però giusto che, come ne seguì con ansia le varie vicende, così ne salutasse con gioia la fine, specialmente quando la pace gli parve per sempre assicurata con l'adempimento di una promessa, tante volte lasciata balenare e tante volte delusa, del matrimonio cioè di Bianca Visconti col conte Francesco Sforza. E nell'ottobre del 1441 finalmente si celebrò il sospirato matrimonio, «che sarebbe stato all'Italia intera pegno di perenne pace e di tranquillità dopo i miserandi disastri della guerra. Si levi dunque giulivo l'inno nuziale ai ben augurati sposi: allo Sforza, il sapiente reggitore del Piceno, il ristoratore della potenza pontificia, fiorentina e veneta, il condottiero glorioso che tiene in pugno tutta l'Italia; a Bianca, la candida stella nunzia di prosperità all'uman genere, delicato rampollo della magnanima stirpe, che generò Galeazzo, Bernabò, Giovanni, Filippo Maria; la novella sposa sabina, [136] che riconcilia i genitori coi mariti, la novella Giulia, che riconcilia i suoceri coi generi».

303. Nel 1441 Guarino fu colpito da due disgrazie di famiglia. A Verona gli morì più che sessagenario Battista Zendrata, cugino di sua moglie e padre di Lodovico, suo scolare, il quale in questo tempo avea già lasciato Ferrara ed era ritornato a Verona. Battista era stato molto affezionato alla famiglia di Guarino, al quale avea reso in ogni tempo, e specialmente nelle calamità, preziosi servigi e di cui fu sempre l'intimo confidente e lo schietto consigliere. Anche Girolamo Guarini lo amava molto e nella consolatoria che scrisse al figlio Lodovico mostra profondo rammarico per la perdita del brav'uomo, di cui con compiacenza ricorda le carezze ricevute quand'era piccino a Verona e che ardeva dal desiderio di rivedere, desiderio ahi! bruscamente deluso: «Dio ce l'ha dato, Dio ce l'ha tolto, sia fatta la sua volontà». La lettera spira tutta la rassegnazione che noi siamo usi di sentire nelle consolatorie di suo padre. Nè Guarino lasciò Lodovico senza conforto e gli scrisse ricordandogli come oltre al diritto di succedere nelle sostanze del padre, avea pure il dovere di succedergli nelle virtù. E in effetto Lodovico fece onore alla memoria paterna e come magistrato e come letterato.

304. L'altra disgrazia toccata a Guarino fu la morte di una bambina. Era l'ultima di tredici figli, natagli da poco. Morì mentre egli villeggiava nel tempo delle vacanze estive. Agli amici che gli recarono la triste novella rispose da vero stoico: «Se fosse vissuta, l'avrei avuta cara tra la corona degli altri figli, ma sia fatta la volontà di Dio. I beni terreni devono considerarsi come le rose; finchè ci sono, prendiamo pure diletto della loro presenza; quando sono scomparse, a che pro' crucciarsi più di quando non esistevano ancora? Ringraziamo intanto Iddio, che la puerpera abbia avuto un parto felice».

[137]

Guarino a Ferrara Ultimo ventennio
(1440-1460)

305. Nel maggio del 1441 Guarino venne confermato professore in Ferrara per un secondo quinquennio. Fu questo l'ultimo anno che servì sotto il dominio del marchese Niccolò, il quale morì nel 26 decembre del 1441. Morì a Milano, donde fu trasportato il 28 dello stesso mese a Ferrara e quivi seppellito nella chiesa di S. Maria di Belfiore da lui edificata.

306. Pochi giorni dopo, nel 6 gennaio 1442, Guarino ne scrisse la commemorazione in forma di lettera a Leonello. «La piena del dolore mi ha fin qui tolta la facoltà di parlare e scrivere; ora dopo i primi sfoghi, rimessomi dalla commozione, posso darti quei conforti, dei quali io stesso avevo bisogno quando il colpo era troppo recente». E gli fa un quadro lusinghiero delle virtù paterne. «Fu prudente nel saper mantenere l'integrità del suo piccolo Stato in mezzo a Stati potenti e ambiziosi e fra tante guerre, che gli romoreggiavano intorno. Fu benigno e le porte del suo palazzo erano aperte a tutti i cittadini che ricorrevano a lui. Fu mite nelle pene ed è notevole quella sua risposta: che un regnante non deve mai esercitare la crudeltà, qualche volta la severità, sempre la clemenza. Fu liberale e arricchì molti dei suoi sudditi; soleva dire che la ricchezza dei re è costituita dalla ricchezza dei cittadini. Fu grandioso e lo provano i monumenti che egli seminò come gemme in città e nel territorio. Fu forte nelle fatiche e lo attestano le guerre da lui sostenute nel primo periodo del suo governo, mentre [138] nel secondo periodo egli attese alle arti della pace, acquistandosi anzi grandi meriti come moderatore e arbitro nelle contese altrui».

307. Guarino qui è panegirista e perciò mette in rilievo le parti buone e lascia nell'ombra le meno buone. Comunque, se p. e. sulla mitezza e sulla benignità di Niccolò lo storico fa le sue riserve, un merito incontestabile egli ebbe, quello di essersi costituito moderatore nelle controversie degli altri principati italiani; e a quell'arte egli va debitore dell'incolumità del suo Stato e della fama di principe scaltro.

308. Il passaggio dall'un governo all'altro avvenne in Ferrara senza scosse, tanto che Leonello non sentì nemmeno il bisogno di circondare il proprio palazzo di guardie: «la guardia la faceva l'affetto dei cittadini». Già prima della morte del padre era Leonello stato da lui assunto collega nell'amministrazione e avea perciò avuto occasione di mostrare le sue buone qualità, per cui era ben voluto dal pubblico. «La sua faccia bella, la fronte aperta, gli occhi sereni, la statura alta, la capigliatura bionda gli conciliavano la simpatia della gente. Inoltre di belle doti morali, come la religiosità, il sentimento della giustizia, l'accorgimento nella scelta dei propri consiglieri, avea già dato prima luminose prove; e ciò era sicuro pegno e buon augurio che egli si sarebbe dimostrato degno successore del padre».

309. Le previsioni si avverarono; anzi egli fu migliore del padre, se non nella politica, certo in tutte le altre virtù e specialmente nella protezione delle arti e delle lettere. E cominciò senz'altro dal riformare l'università, chiamando da ogni dove illustri insegnanti; basti notare tra i principali acquisti Teodoro Gaza, venutovi nel 1444. La solenne inaugurazione del nuovo istituto fu fatta da Guarino nel 1442 il 18 ottobre, festa di S. Luca, che era il giorno consacrato all'apertura delle scuole. L'oratore assunse di dimostrare che [139] Ferrara per opera di Leonello era diventata la vera sede degli studi; e passando in rassegna le discipline, che erano rappresentate nell'università ferrarese, cioè la grammatica, la dialettica, la retorica, la fisica, la filosofia, la medicina, il diritto civile e il diritto canonico, mise in rilievo i pregi di esse e la loro reciproca connessione.

310. Guarino faceva doppia scuola: pubblica e privata. Alla pubblica dedicava il giorno, alla privata la sera. La lezione pubblica era doppia, nella mattina spiegava un poeta e un prosatore latino, nel pomeriggio leggeva ordinariamente greco. La sera e la notte erano dedicate ai convittori, che egli teneva in casa; essi lavoravano sotto i suoi occhi e l'avevano sempre lì presente e pronto a rispondere a tutte le difficoltà che incontrassero.

311. Uno dei convittori più famosi e che merita di esser conosciuto un po' da vicino fu Giano Pannonio. Il suo nome era Giovanni, ma egli se lo latinizzò; il cognome Cesinge, con cui è comunemente chiamato, è storpiatura di Csezmicze; era di origine ungherese e perciò assunse il soprannome di Pannonius. Era nipote di Giovanni Vitez, che fu cancelliere nella reggia ungherese, vescovo di Waradino, arcivescovo di Gran e da ultimo, nel 1471, cardinale. Fu mandato dallo zio a studiare sotto Guarino a Ferrara. Quando arrivò nel 1447 a Ferrara aveva un dodici anni e in breve tempo diede prova d'ingegno vivacissimo e di memoria straordinaria; s'impadronì ben presto del latino e del greco e cominciò a pubblicare saggi poetici, che riscotevano il plauso universale.

312. Giano aveva per il suo maestro un vero culto, come dimostra il Panegyricus composto in lode di lui, bellissimo monumento di ammirazione, di riconoscenza e di amore. E non solo a lui, ma alla sua famiglia egli nutrì schietta affezione. Così tanto nei fausti quanto negli infausti eventi di casa Guarini sapeva trovare una parola sincera di congratulazione o di [140] condoglianza. Per la morte della Taddea compose l'epitafio; per le nozze delle due figlie Fiordimiglia e Libera compose l'epitalamio: Fiordimiglia sposò Guglielmo Calefini e Libera Salomone Sacrati, entrambi cittadini ferraresi. Maggiore dimestichezza strinse Giano coi figli maschi di Guarino e specialmente con Battista, che era press'a poco della sua età, anch'egli ingegno svegliato e precoce, e col quale «ebbe comuni gli studi, il tetto, la cella, il maestro».

313. Dopo di Giano altri ungheresi vennero a Ferrara, p. e. un Simone, un Czepes, un Policarpo, che poi fu arcivescovo: una piccola colonia, come si vede. Fra i condiscepoli di Giano e di Battista c'erano a Ferrara p. e. Roberto degli Orsi di Rimini, Basinio da Parma, Galeotto Marzio di Narni, i quali diventarono poi famosi.

314. Nei cinque o sei anni che Giano fu a Ferrara noi possiamo, guidati dai suoi versi, gettar lo sguardo entro la vita e i costumi della scolaresca Guariniana. Ivi si studiava con vera passione: «Noi che dormivamo, dice Giano a Galeotto, sempre nella medesima stanza e mangiavamo alla medesima mensa, quante volte non vegliammo insieme fino alla mezzanotte, facendo violenza ai nostri occhi; quante volte non ci alzammo tre ore avanti giorno, lasciando il dolce tepore del letto». Vero è che capitava pure il caso (e quale studente potrebbe in ciò scagliare la prima pietra?), nel quale i libri passavano dal tavolo di studio alla bottega di un rigattiere ebreo; sorte toccata una volta a un Lucano, a un Ovidio, a un Vergilio, ai quali Giano avea chiesto inutilmente dieci scudi in prestito.

315. I convittori costituivano proprio una famiglia e Guarino facea da padre, con la sua bonaria severità, lasciandoli liberi nei loro leciti passatempi. Un giorno una brigatella di essi con a capo Giano combinarono una refezione, alla quale invitarono anche Guarino. Ma egli rispose che i [141] giovanetti non dovevano essere turbati nella loro baldoria chiassosa dalla musoneria di un vecchio; e Giano a replicare: che la sua presenza, oltre all'essere l'onor della tavola, sarebbe stata un freno a qualche trasmodamento dei commensali; che del resto la sua burletta poteva dirla anche lui, quantunque vecchio, e che essi aveano imparato giusto da lui come Tullio, Socrate, Catone con tutta la loro serietà si permettessero di quando in quando lo scherzo.

316. Però i suoi giovanetti egli li teneva sempre d'occhio; e Giano in una occasione che fu dai compagni portato, senza saperlo, in un cattivo ridotto, minacciò di denunziarli a Guarino. Ma non sempre il buon vecchio riusciva a evitare le scappatelle dei suoi scolari e talvolta gliele facevano i propri figli e sotto gli occhi, in casa, come quando uno di loro si prese troppa confidenza con la domestica; e Giano a cantargli: «La tua indulgenza ti fa torto, o Guarino, e intanto sei la favola della città; uno dei tuoi figli ti ha reso suocero della tua fantesca e nonno; pensa che hai in casa delle figliuole da marito e apri gli occhi».

317. Fra quegli scapatacci non mancava certo la satira, la quale diventava anche impertinente, come quando Giano si prendea gioco del suo confessore Lino, un frate francescano, o consigliava Rinuccio di portar fuori le sue figliole, p. e. alle prediche di padre Roberto o ai balli in piazza, se voleva maritarle. Talora la satira era di buona lega. Con Lodovico Carbone, alunno di Guarino, Giano non se la dicea troppo: «prima eri bragia, ora sei carbone, tra poco diventerai cenere». Paolo poi gli dava a correggere i suoi versi, che egli rimandava senza nemmeno un segno: «sfido! bisognerebbe segnarli tutti; del resto tu non sai pronunziar bene il tuo nome, la prima lettera devi aspirarla» (paulus φαῦλος).

318. E si fossero fermati alla satira! C'era dell'altro. Molestavano le donne maritate e davano la caccia alle facili [142] donzelle. Quella Tecla, che «quando cammina per le strade ha l'aria di una aitante matrona, dove che in casa pare una civetta spennacchiata», quella Silvia, che «va cercando in ogni studente il padre del proprio frutto», sono fino a un certo punto macchiette che possono correre. Ma quando discendiamo alle Lelie, alle Orsole, alle Lucie, allora il colorito degli epigrammi di Giano diventa marzialesco, anzi addirittura priapeo, tanto che certi vocaboli osceni egli non ha il coraggio di scriverli in latino e li scrive in ungherese. Incliniamo del resto a credere che fossero più parole che fatti, più imitazione classica che realtà, come era il caso dell'Ermafrodito di Antonio Beccadelli.

319. Questa la studentesca. Un altro scolaro di Guarino ci guiderà per entro al circolo letterario ferrarese. Il circolo socratico, quale fu idealizzato nei dialoghi platonici e quale rivisse in Roma p. e. nei dialoghi di Cicerone e nelle Notti attiche di A. Gellio, ebbe una larga rifioritura tra gli umanisti. Rifiorì a Ferrara per opera di Guarino, nel tempo specialmente del governo di Leonello d'Este, il quale ne era il centro e l'anima; il relatore fu Angelo Decembrio con la Politia literaria.

320. Angelo Decembrio, fratello di Pier Candido, dalla scuola del vecchio Barzizza, dove si trovò fanciulletto, era passato a quella di Guarino. Stava a Ferrara sino almeno dal 1438 e vi si trattenne per tutto il tempo che governò Leonello, morto il quale, si trasferì alla corte di Alfonso in Napoli e, morto anche Alfonso, a quella dei re di Spagna. Compose epistole, panegirici poetici, elogi funebri, opere grammaticali e la Politia, importantissima, perchè con essa diffuse e rese popolare l'insegnamento e il metodo guariniano.

321. Nel circolo ferrarese c'era l'elemento vecchio e l'elemento giovane. Fra i vecchi nominiamo anzitutto il maestro. [143] Guarino. Gli altri erano Uguccione Contrari, uno dei più autorevoli consiglieri del marchese Niccolò, Giovanni Gualengo, i due cavalieri Feltrino Boiardo e Alberto Costabili; il Boiardo avea tradotto in volgare l'Asino di Apuleio, il Gualengo si dilettava di fabbricare e in una sua villetta del suburbio aveva imitato quella di Plinio. Fra i giovani notiamo il principe Alberto Carpi, alto della persona ed eloquente, imparentato con gli Estensi, Carlo Nuvoloni, i fratelli Nicola e Tito Strozzi, Francesco Ariosto, Leonello Sardi e il cavalier Tommaso Morroni da Rieti, maestro dell'arte mnemonica.

322. Alle riunioni del circolo non mancavano di quando in quando gli interlocutori avventizi. Così vi faceva qualche comparsa il minorita Agostino, ferrarese, buon predicatore e rispettato da Leonello e dagli altri; ma non erano accettate le sue teorie sui danni che provenivano dalla lettura dei poeti antichi. Tito Strozzi su questo punto non voleva dar quartiere al monaco; Guarino, più moderato, lo confutava con buone ragioni, alle quali il monaco non avea che ribattere, ma faceva le sue riserve: «non c'è da fidarsi troppo con voi altri oratori, che mutate il nero in bianco». E la brigata rideva.

323. Peggio quando capitava nel circolo un pedagogo, come dicevano loro, o maestro di grammatichetta, come diciamo noi. Tito Strozzi lo prendeva a frustate, se lo lasciavano fare. Verso quella genìa perdeva la moderazione persin Guarino, il quale metteva in canzonatura le loro pedanterie. Uno di essi a Ferrara, un tal Palamede, si vantava di sapere a memoria tutto Vergilio e che, sentitone un verso da chiunque, avrebbe continuato col seguente. Tito lo incontra e gli recita il verso 19 dell'Ecl. I: Urbem quam dicunt Romam Meliboee putavi; Palamede senz'altro seguitò: Stultus ego. Tito non ne volle più: «te lo sei detto da te».

[144] 324. Ma comica sopra ogni altra fu la comparsa nel circolo di Ugolino Pisani. Si presentò nel suo consueto atteggiamento teatrale, con la capigliatura arruffata e lunga barba. Portava a leggere una delle sue commedie in prosa, nella quale gli interlocutori erano arnesi di cucina; gli astanti se la passavano di mano in mano, ridendo sotto i baffi e strizzando l'occhio. Però il volumetto era di una perfetta calligrafia e rilegato elegantemente. Quel povero Ugolino era mezzo pazzo e morì pazzo, appena quarantenne. Entusiasta di Plauto, scrisse commedie in prosa, imitandone lo stile. Per pochi versi ottenne nel 1432 l'alloro poetico dall'imperatore Sigismondo. Girò le corti italiane ed estere, facendo il giullare, recitando le sue commedie, prendendo parte alle mascherate ed eccitando la curiosità specialmente delle donne. Gli era stato affibbiato il nomignolo di scimia letterata.

325. Il circolo si raccoglieva di solito nell'appartamento di Leonello, dopo il pranzo; qualche volta anche inter pocula. Altre volte invece la brigata si recava a caccia o faceva una gita nella villa di uno degli amici o al palazzo suburbano di Belfiore o al castello di Bellosguardo; e ivi o sotto un portico o all'ombra delle piante si intrattenevano in amichevoli discussioni letterarie.

326. Le discussioni versavano su argomenti di vario genere. Erano preferiti gli argomenti di letteratura romana e in specie la letteratura poetica. I due grandi poeti di Guarino erano Terenzio e Vergilio; da essi citava continuamente e su di essi fondava la prima educazione dei suoi allievi. E per riverbero l'attenzione sua si fermava molto anche sui commentatori di quei due poeti, cioè Donato e Servio. Nè solo studiava Vergilio in sè, ma pure nelle sue attinenze con gli autori che lo precedettero e che lo seguirono, specialmente con gli storici, mettendo a raffronto tanto la materia quanto lo stile. Se dovea spiegare agli amici la teoria degli omonimi, [145] egli traeva ricca messe di esempi da Vergilio. Se poi voleva proporre un maestro di moralità, designava Terenzio.

327. Nel circolo venivano trattate importanti questioni estetiche, come quella dei rapporti tra il sostantivo e l'aggettivo nel verso e l'altra della vera natura della brevità sallustiana. Faceano argomento di discussione anche la proprietà dei vocaboli, l'ortografia, i dittonghi; qualche volta il tema era archeologico, come sulle corone, sui pesi, sulle sigle, sui monumenti. Le interpretazioni si discutevano con la massima minuziosità.

328. Frequenti erano le questioni critiche: anzitutto sull'autenticità dei testi. Non è di Cicerone la Rhetorica ad Herennium e il libercolo sui sinonimi, non di Ovidio il carme De Vetula, non di Giovenale la satira XVI, non di Seneca le lettere a S. Paolo, non di Catone i distici morali, non di Cesare il Bellum Alexandrinum. Dopo l'autenticità, l'emendazione dei testi. Molto lavorò Guarino per colmare le lacune dei passi greci, particolarmente in Macrobio, Gellio, Quintiliano, i due Plini. Egli ha un concetto assai chiaro dell'opera dei copisti, i quali scambiano le parole l'una per l'altra (iuvenis con veniens) o le mutano di posto, introducono nel testo le glosse marginali o lo alterano con le proprie interpolazioni. E qui Guarino si mette in cerca di codici, esercitando, fin dove può, coscienziosamente la critica diplomatica; ma dove i codici gli vengono meno, ricorre alla critica congetturale, chiamando in soccorso il nesso dei pensieri, i principii estetici, l'uso peculiare dello scrittore.

329. Fornivano materia a quei discorsi anche gli autori contemporanei e del secolo precedente. Il Valla era molto stimato a Ferrara e molto studiato e i suoi principii grammaticali e stilistici facevano ivi legge. Poca stima si aveva invece dei tempi, a cui appartennero il Petrarca, il Boccaccio, il Salutati: tempi d'ignoranza e di lingua barbara. Gli scrittori [146] in volgare non erano apprezzati o tutt'al più riservati da leggersi ai nonni e ai bimbi d'inverno sotto il camino. A Dante poi non sapea Guarino perdonare la prolissità della Commedia e l'avere nel noto verso vergiliano Quid non mortalia inteso quid per cur.

330. Ferrara nel 1447 ebbe una seconda visita di frate Alberto da Sarteano, che vi predicò il quaresimale e l'ottavario dell'Ascensione. Guarino non mancò di andare a sentire «la cignea voce di quel celeste usignolo», il quale «quando inveiva contro i vizi diventava tromba, anzi tuono». Il 7 maggio frate Alberto aprì l'ottavario con un discorso sulla dottrina teologica. Passò in rassegna tutte le discipline antiche e moderne, sacre e profane, mostrando la loro utilità e il diletto che se ne ritrae sì per lo spirito che per il corpo e proclamando regina di tutte la teologia. «Che profondità e vastità di erudizione in quel discorso, che acutezza di giudizio, che fiume di eloquenza! pareva il Po quando straripa; e parlò conservando sempre il suo timbro di voce per quattr'ore di seguito e nessuno se ne accorse più che se avesse parlato una sola ora».

331. Quale differenza tra questo monaco e Giovanni da Prato, che andò a predicare a Ferrara la quaresima tre anni dopo, nel 1450. In quella stagione Guarino leggeva Terenzio nella sua scuola. Non l'avesse mai fatto! Il monaco furibondo lanciò dal pulpito i suoi fulmini contro i poeti classici e chi li leggeva, li copiava, li spiegava nelle scuole, li conservava in casa, prendendo soprattutto di mira Terenzio. La questione sul poter leggere o no i poeti pagani non era sorta allora, nè finì allora; ma la maniera come la risolse Guarino ha la sua importanza, poichè egli riteneva che la lettura dei poeti classici fosse non solo innocua, ma anzi scuola di morale.

[147] 332. Il monaco zelante dopo la predica scrisse una lettera a Guarino, cercando di condurlo sulla buona via e insinuandosi nel suo animo col protestargli quanto lo stimasse per il bene che gliene avea detto Alberto da Sarteano. Guarino gli rispose rispettosamente, pigliando le mosse giusto dall'argomento che da frate Alberto era stato trattato tre anni innanzi. Alberto avea dimostrato che la teologia è la regina di tutte le altre discipline, le quali la servono come ancelle. «Or dunque, ragiona Guarino, se sono ad essa ancelle, bisogna bene studiarle per conoscer meglio la teologia; ed è così che lo studio dei classici ridonda a profitto della religione. Altrimenti incoglierà ai ministri del culto ciò che incolse a quel tal prete, che io ho inteso qualche anno fa, il quale predicando disse che gli etnici si chiamavano così perchè venivano dal monte Etna e volendo nominare Cadmo ripetè più volte Cadino, suscitando le risate del pubblico».

333. La lettera è molto lunga e Guarino difende la sua tesi tenendosi sempre nel campo dell'avversario e traendo perciò gli esempi dalla storia ecclesiastica. Egli ricorda anzitutto come Mosè e Daniele prima di comporre libri sacri si iniziarono alle scienze degli Assiri e Caldei. Ma il perno della discussione si aggira su tre grandi padri della chiesa, Basilio, Girolamo e Agostino, i quali, e sopra tutti Girolamo, si avviarono agli studi teologici per mezzo degli studi profani e mostrano nei loro libri continue reminiscenze di autori classici. Girolamo poi giova alla causa di Guarino anche per l'alto concetto in che teneva Terenzio, l'autore che è specialmente preso di mira dal monaco. Guai a toccare Terenzio a Guarino, il suo prediletto poeta, quello che prima di ogni altro egli leggeva e spiegava ai suoi scolari. Terenzio era per lui il modello dello stilista elegante, dell'oratore perfetto, dello squisito educatore. «Se i suoi personaggi parlano e operano male, così richiede il loro carattere e non è da imputarsi [148] a lui. Bruceremo forse l'evangelista, perchè ci rappresenta Giuda traditore di Gesù?»

334. Il monaco abbozzò una risposta, nella quale confuta punto per punto le argomentazioni di Guarino, citando alla rinfusa autori contemporanei, santi padri e filosofi pagani. Conchiude che, ammesso pure che sia battuto lui, la causa rimane salva.

335. Del suo allievo Leonello, anche ora che è diventato principe, non si dimentica Guarino e gli dedica pur sempre qualche lavoro, p. e. nel 1444 la traduzione dell'opuscolo di Plutarco Sulla differenzia tra l'amico e l'adulatore, nel 1449 il trattatello sulla antica lingua latina, nel 1447 uno schizzo sul modo di dipingere le muse. Leonello era appassionato dell'arte e volle in quell'anno adornare dei ritratti delle nove muse il suo studio di Belfiore. Per le pitture si servì del Maccagnino, Guarino suggerì gli atteggiamenti e l'abito delle singole figure, dettando per ciascuna un verso da scriversi sotto. Il pittore seguì in parte i consigli di Guarino, in parte, come è ben naturale, si attenne al proprio gusto. Quelle pitture furono vedute e descritte da Ciriaco d'Ancona che si era, in uno dei tanti suoi viaggi, fermato a Ferrara nel 1449.

336. Grande allegria ci fu a Ferrara nei mesi di aprile e maggio del 1444 per le seconde nozze di Leonello con Maria, figlia naturale di re Alfonso d'Aragona, nozze veramente illustri che legavano in parentela la casa d'Este col più potente degli Stati italiani; onde ben a ragione Ferrara assistette in quei giorni a spettacoli di ogni genere e vide d'ogni parte d'Italia accorrer moltitudine e personaggi principeschi a rendere omaggio ai due sposi. Fra i principi convenuti colà vanno nominati Oddantonio di Urbino, Gismondo Malatesta di Rimini, il Malatesta di Cesena, Guidantonio di Faenza, Carlo Gonzaga di Mantova, Rodolfo di Camerino. [149] Andò a prendere la sposa Borso, fratello di Leonello, imbarcandosi a Venezia su navi venete e sbarcando ad Ortona, donde fece la via di terra fino a Napoli. Da Napoli partì Maria d'Aragona ai primi d'aprile, scortata dal principe di Salerno e salutata da un epitalamio di Girolamo Guarini, che allora era alla corte di Alfonso.

337. Il 24 d'aprile giunsero a Ferrara e il giorno dopo nel castello del marchese si compì la cerimonia nuziale, che fu presieduta da Guarino. Egli domandò agli sposi se erano contenti di diventar marito e moglie; indi Leonello pose l'anello matrimoniale in dito a Maria, e Guarino recitò l'epitalamio d'occasione. L'ultimo d'aprile poi si celebrò un altro matrimonio, di Isotta sorella di Leonello con Oddantonio d'Urbino e anche questa volta Guarino recitò l'epitalamio.

338. Ma venne purtroppo il giorno del lutto, il giorno che Guarino dovè intonare al suo illustre allievo il canto funebre. Leonello ammalò gravemente nei primi di settembre del 1450. La città fu tutta in costernazione e il vescovo ordinò pubbliche preghiere in ogni cappella, in ogni chiesa, in ogni monastero. L'infermo era assistito dal marchese di Mantova. Niccolò, il piccolo e unico figlio di Leonello, dodicenne, era compreso anch'egli di tristezza per l'imminente pericolo e avea fatto voto di dieci scudi al beato Bernardino da Siena, da pochi mesi canonizzato, se il padre fosse guarito. «Dove li trovi i dieci scudi?» gli domandava Guarino che lo teneva in custodia. E Niccolò: «li chiederò a qualche amico di papà». La malattia fortunatamente prese una buona piega e Leonello fu fuori di pericolo. Allora scoppiò generale il giubilo dei cittadini e Guarino nel congratularsi con Leonello della ricuperata salute propose di collocare tra i fasti, da solennizzarsi ogni anno, l'8 settembre, il dì della guarigione. Ma fu gioia passeggera. Altri pochi giorni furono [150] aggiunti alla vita di Leonello, il quale morì il 1.º ottobre dell'anno stesso, e a Guarino non restò che recitargli l'elogio funebre.

339. La morte di Leonello sconcertò senza dubbio la posizione di Guarino a Ferrara e i Veronesi ne approfittarono, per appagare un loro voto, carezzato da tanto tempo, di riavere in patria l'illustre concittadino. Anche questa volta, come nel 1432, ci furono le premure private degli amici, le pratiche ufficiali del Consiglio veronese e l'elegia di Verona, che invitava nel suo seno affettuoso il figlio da tanti anni lontano. Guarino secondò quelle pratiche e ottenne che lo stipendio gli fosse portato da 150 scudi a 200 e stava preparato alla partenza; mancava solo la licenza del marchese. Ma la licenza non fu accordata e Guarino fu riconfermato a Ferrara, donde ormai non contava di muoversi più, avuto riguardo specialmente all'età avanzata.

340. Borso se non nella cultura, certo nell'amor delle arti belle eguagliò il fratello; lo superò nella liberalità e nel lusso e magnificenza dei ricevimenti. Basti ricordare le feste per l'arrivo a Ferrara dell'imperatore Federico III nel 1452, di papa Pio II nel 1459 e per il matrimonio di Beatrice d'Este con Tristano Sforza.

341. Federico III nel 1452 fece il suo famoso viaggio a Roma e a Napoli per ricevere dal papa la corona imperiale e per sposare donna Leonora, figlia del re di Portogallo. Nell'andata giunse a Ferrara di gennaio e tra le meraviglie che sorpresero gli astanti fu non ultima l'orazione che recitò all'imperatore il piccolo Galeazzo Maria Sforza, figlio del duca Francesco, fanciullo di otto anni. L'orazione gli era stata scritta dal Filelfo. Di Guarino non sappiamo se abbia per l'occasione fatto nulla, ma difficilmente un suo discorso sarà mancato. Non mancò ad ogni modo un lungo carme latino del suo scolaro Giano Pannonio, il quale con versi [151] rimbombanti, con stile declamatorio e con immagini esagerate tratteggia un quadro desolante delle condizioni d'Italia, esprimendo le grandi speranze concepite per la venuta dell'imperatore, dal quale si attendeva una nuova era di pace. Il discorso è messo in bocca all'Italia, «che si prostra ai piedi dell'imperatore in atteggiamento di nobile matrona, cinta di una corona di torri, vestita a lutto, con le chiome sparse, battendosi il petto e piangendo e singhiozzando».

342. Nel ritorno da Roma Federico III ripassò da Ferrara di maggio. In questa seconda fermata Borso fu creato duca di Modena e Reggio e Battista Guarini recitò davanti all'imperatore l'epitalamio per le nozze di Bartolomeo Pendaglia con Margherita Costabili.

343. Non clamorosa come quella fatta all'imperatore, ma pur sempre splendida fu l'accoglienza che ricevette Pio II, quando passò da Ferrara del 1459 nel suo viaggio a Mantova, dove era intimato il gran congresso per la crociata contro il Turco. Arrivò il 19 maggio e ne ripartì il 25. Guarino salutò con un'orazione l'illustre pontefice «pio di nome e di fatto, il ripristinatore dell'età dell'oro, il ristoratore della cultura, il vero estimatore della virtù e del merito». Suo figlio Manuele accompagnò i! papa al congresso di Mantova.

344. Parimenti sontuose furono le feste per il matrimonio di Beatrice d'Este sorella di Borso con Tristano Sforza nell'aprile del 1455. Lo sposo era figlio di Francesco duca di Milano, il quale mandò il Filelfo a tenere il discorso d'occasione. Per il marchese compose l'epitalamio Guarino, il quale fa una particolare allusione al nome cavalleresco dello sposo; ciò che prova come egli stesso leggesse i romanzi cavallereschi, molto in voga del resto alla corte di Ferrara.

345. Gli epitalami di Guarino e del Filelfo furono cagione di un pettegolezzo tra i due umanisti. Fra essi non [152] c'era grande intimità, ma nemmeno ebbero mai a venire in discordia. Ora i maligni aveano notato che all'epitalamio del Filelfo il marchese Borso era stato largo di sole lodi, ma nessun regalo. In un crocchio di persone a Ferrara, dove si commentava l'accaduto, a Guarino scappò detto che Borso si era piccato, che il Filelfo avesse fatto il panegirico della famiglia dello sposo, scarseggiando molto nelle lodi della famiglia della sposa. Ci fu chi si prese la briga di riferire le parole di Guarino al Filelfo, il quale sentitosi offeso nel suo orgoglio scrisse a Lodovico Casella una lettera piena di insolenze contro Guarino. Egli poneva, come al suo solito, la questione addirittura tragicamente: «che forse Guarino si crede superiore a me?» Si capisce bene che Guarino non se ne diede per inteso e il Filelfo dovette restare col suo groppo in gola.

346. Appena riebbe Guarino da Borso la primiera posizione che aveva goduto sotto Leonello e potè riprendere le sue antiche abitudini, pensò il vecchio umanista di pagare un tributo di riconoscenza al suo illustre maestro Manuele Crisolora. Quel tributo parea dovessegli pesar sulla coscienza come un obbligo sacro da soddisfare, essendo che di tanti beneficati dal Crisolora nessuno gli aveva innalzato un monumento letterario degno di lui. Ora più che mai la sua fantasia rievocava la cara immagine del Greco, trasfigurata attraverso ai quarant'anni trascorsi dall'ultima volta che lo aveva veduto vivo. Se lo rivedeva risorgere dinanzi «bello della persona, le membra ben misurate e proporzionate, il volto rubicondo e la bionda barba che accresceva dignità all'aspetto»; e dalla faccia serena partiva ancora quel sorriso intelligente e si sentiva tuttavia carezzato dall'affabilità delle sue parole e dalla grazia dei suoi modi. Come si ingigantivano i suoi meriti letterari! «Prima del Crisolora l'Italia era sepolta nell'ignoranza, spezzato il filo della tradizione [153] ciceroniana, barbaro lo stile: il Crisolora aprì una nuova via agli studi, con lui comincia il rinascimento della civiltà antica».

347. Preoccupato da questa idea Guarino si dà a raccogliere gli scritti del Crisolora e le lettere indirizzate a lui o quelle che parlano di lui, e si rivolge agli amici, come all'Ottobelli in Verona, al Poggio in Firenze, pregandoli di cercargli e mandargli scritture in lode del Crisolora. Così mise insieme l'orazione funebre del Giuliani, alcune lettere sue e d'altri dirette al Crisolora o che trattavano di lui. Si rivolse quindi ai propri figli, eccitandoli a scrivere commemorazioni e panegirici del Crisolora; ed essi corrisposero subito ai desideri del padre, poichè Niccolò, Battista, Girolamo, Manuele gli indirizzarono affettuose lettere commemorative. A tutta questa collezione, della quale ci arrivarono parecchi saggi, diede il titolo di Chrysolorina.

348. Nella Chrysolorina dunque, intorno alla quale attese negli anni 1452-1455, Guarino ebbe collaboratori i propri figli, come li aveva collaboratori nell'insegnamento all'università. Infatti Girolamo fece un corso suo proprio, parallelo a quello del padre, sulla terza deca di Livio. In nome del padre recitò Manuele l'orazione inaugurale nel 1444; nel 1453 la recitò Battista, «il quale tra i figli di Guarino brilla come Sirio e Boote fra gli astri minori. Egli già (nel 1453) monta la cattedra come insegnante, parla nelle adunanze pubbliche come oratore e affascina l'uditorio, e le aule e le chiese echeggiano dei suoi plausi, intanto che il padre ne piange di gioia».

349. In ciò riconosciamo una tra le principali e più originali caratteristiche del metodo di Guarino, quella di associarsi nel lavoro i suoi discepoli e i figlioli, moltiplicando così la propria operosità e rendendola più feconda e in certo qual modo perpetuandola dopo la sua morte, poichè [154] essi ne sarebbero stati gli eredi e i continuatori. È questo il suo gran principio, che egli inculca e ripete ad ogni momento nelle lettere, che i figli sono i legittimi eredi non tanto delle sostanze paterne quanto delle amicizie e delle virtù. E infatti uno dei suoi maggiori meriti fu l'essersi preparato un degno successore nel figlio Battista, il quale dopo morto il padre occupò la cattedra di lui, riempiendo del proprio nome e della propria operosità tutta la seconda metà del secolo XV. Però dei figli di Guarino il solo Battista fu vero umanista come il padre. Degli altri sei maschi Girolamo si accosta più a Battista per carattere umanistico, quantunque più tardi siasi dato alla carriera diplomatica. Anche Niccolò coltivò gli studi, ma nulla produsse in quelli. I quattro rimanenti percorsero carriere, le quali stavano in antitesi con l'umanismo, poichè Manuele si fece prete, Gregorio medico, Leonello e Agostino notai. Agostino si applicò alla mercatura ed ebbe il posto di maggiordomo presso il marchese di Ferrara.

350. I figli di Guarino furono tutti educati sotto la sorveglianza paterna, ma poi uscirono di Ferrara e andarono altrove chi a perfezionarsi negli studi, chi a cercarvi una collocazione. Per tal modo essi contribuirono non poco a rendere più vive le relazioni del padre con gli altri centri letterari e con le varie città italiane. E nell'esame infatti di quelle relazioni, le quali ora esporrò brevemente, ci si presenterà spesso or l'uno or l'altro dei figli di Guarino.

351. Cominciamo da Verona, dove essi andavano frequentemente a curare gli interessi della famiglia o a villeggiare a Valpolicella. È certo poi che Leonello, Niccolò, Gregorio, Battista si stabilirono qualche tempo o a Verona o in villa. E ivi attendevano agli studi e corrispondevano col padre, specialmente Niccolò e Battista. Niccolò era già arrivato a conoscere il greco e per darne un saggio al padre gli scrisse nel 1450 una lettera greca: e il padre se ne congratulò, [155] incoraggiandolo a continuare; nel 1452 egli carteggiava col padre per la compilazione della Chrysolorina e per una curiosa lite che si dibatteva fra le città di Verona e di Brescia. Le due città vicine si disputavano la proprietà del lago di Garda. Guarino risponde al figlio, che la proprietà spettava a Verona, appoggiandosi all'autorità degli scrittori romani, quali Catullo, Plinio, Claudiano.

352. Battista prendeva già parte, come una volta il padre, ai pubblici affari di Verona; e nel gennaio del 1458 recitava il discorso di commiato al podestà Niccolò Marcello. Nello stesso anno diede un buon saggio dei suoi studi con la traduzione dell'Agesilao di Senofonte, dedicata a Ermolao Barbaro, l'antico scolaro di suo padre, allora vescovo di Verona. L'anno dopo, 1459, pubblicò il Libellus de ordine studendi ac docendi, nel quale rivela ottimo senso didattico e mostra di avere in sè trasfuso il metodo paterno. Non bisogna dimenticare che da poco era tornato da Bologna, dove aveva insegnato per due anni.

353. Ma non c'era di bisogno della presenza dei figli in Verona, perchè Guarino mantenesse vivi e cordiali rapporti con la sua città nativa. Si è veduto che Verona non dimenticò mai il suo Guarino, la quale fece nel 1451 l'ultimo tentativo per riaverlo insegnante. Si davano poi circostanze in cui il Consiglio veronese dovea trattare qualche pubblico interesse col marchese di Ferrara e allora Guarino interponeva i suoi buoni uffici presso il principe. I suoi vecchi scolari lo ricordavano sempre, come l'Ottobelli, che gli cercava documenti per la Chrysolorina, e Silvestro Landi, che redigendo lo statuto della città di Verona fece nell'introduzione onorevole menzione del suo maestro. E non mancava colà chi volesse erigergli un piccolo monumento; e questi era il suo compare Damiano Borghi, che gli fece forse scolpire un busto, per tramandare immortale il nome di lui.

[156] 354. A Venezia si trovarono per qualche tempo i figli Niccolò e Gregorio. Niccolò accompagnava il marchese Carlo Gonzaga, di cui era segretario; Gregorio si era recato colà nel 1451 un po' a perfezionarsi nella medicina e un po' a conoscere quella città. Ma buon medico per gli altri e non per sè si lasciò ferire il cuore da una bella fanciulla, la quale gli rubava la pace e a cui desiderava dare la mano di sposo. La madre della fanciulla fece serie opposizioni, ma mercè l'interposizione di Francesco Barbaro le difficoltà furono appianate e Gregorio impalmò la sua Antonia.

355. Col mezzo di questi due figli le comunicazioni di Guarino col circolo veneziano erano tenute vive. Oltre che con Francesco Barbaro, egli corrispondeva col figlio di lui Zaccaria, con Bernardo Giustinian, col medico Niccolò Leonardi, con Marco Zane. In casa Barbaro ci fu nel gennaio 1453 una festa di famiglia per il matrimonio di Paola figlia di Francesco con Giacomo Balbi. Da Ferrara Guarino se ne congratulò per lettera e Giano Pannonio compose per quell'occasione un lungo panegirico di Francesco Barbaro. In quello stesso anno Giano andava a Venezia raccomandato da Guarino al Barbaro; probabilmente era quello il tempo in cui il Pannonio, lasciati gli studi letterari dell'università di Ferrara, si recava a frequentare il corso di giurisprudenza in quella di Padova. D'ora in poi i legami di Guarino col circolo veneziano si rallentano o si spezzano affatto, essendo morto nel principio del 1454 il Barbaro, che ne costituiva il nucleo.

356. Anche nelle relazioni di Guarino con la corte di Rimini incontriamo un figlio suo, Girolamo, che nel 1448 dedicò a Gismondo Malatesta una Vita di Senofonte. Guarino aveva avuto occasione di conoscere personalmente Gismondo nel 1444, quando esso venne a Ferrara ad assistere alle nozze di Leonello. Più frequenti diventarono le corrispondenze tra [157] Guarino e Rimini allorchè si recarono a quella corte due suoi illustri scolari, Tobia Borghi e il Basini, stato allievo quest'ultimo anche di Vittorino e del Gaza. A Rimini il Basini si trovò in lotta con due rivali, il Porcelli napoletano e Tommaso Seneca da Camerino, contro le cui maligne suggestioni egli dovea disputarsi la grazia del principe, il quale alla sua volta prendeva diletto di quelle guerricciole. Guarino era informato di tutto dal Basini.

357. Il Basini conosceva, come allievo delle scuole di Mantova e di Ferrara, il greco, del quale erano digiuni il Porcelli e il Seneca. Costoro due cercarono di mettere in cattivo occhio presso il principe il loro rivale col pretesto che egli disprezzasse i Latini in confronto dei Greci; il Basini rispose vittoriosamente, mostrando la loro ignoranza e tessendo l'apologia degli studi greci. Qui scorgiamo un'altra prova della superiorità della scuola guariniana e un nuovo sintomo della guerra fra Greci e Latini. L'altro scolaro di Guarino, Tobia Borghi, fu in Rimini storiografo di corte; infatti scrisse la vita di Gismondo, specialmente per eccitamento di Guarino, che gli delineò anche le principali norme per scrivere la storia, desumendole da Luciano.

358. Fra i principi convenuti a Ferrara nel 1444 alle nozze di Leonello ci fu Rodolfo di Camerino, fratello della famosa Costanza Varano, una delle umaniste del secolo XV. Certamente Guarino ebbe occasione di parlar di lei col fratello Rodolfo, quantunque egli già la conoscesse per fama e per aver letto i suoi scritti. Avea levato gran rumore la sua orazione recitata al conte Francesco Sforza e alla sua sposa novella Bianca Visconti, quando nel 1442 andarono a prender possesso della loro signoria delle Marche. Da allora in poi la Costanza incoraggiata si mise in corrispondenza con principi, umanisti e umaniste, come il duca Filippo Maria Visconti, Guiniforte Barzizza e l'Isotta Nogarola. Guarino, che [158] aveva ott'anni innanzi tributato il suo omaggio alla Nogarola, non si lasciò sfuggire ora (1444) l'opportunità di tributarlo con una lettera anche alla Varano, adoperando quasi le stesse frasi e le stesse lodi e mostrandosi in certo modo mortificato di presentarsele così da sè, senza averla conosciuta prima; che però non ce n'era di bisogno, perchè egli era stato ammiratore dei suoi scritti, dai quali l'aveva imparata a conoscere molto bene. Il pretesto di scriverle gli fu fornito da un codice degli scolii di Cornuto a Giovenale, che esisteva in Camerino e di cui le chiedeva una copia.

359. Con la corte di Urbino troviamo in relazione Guarino e il figlio Battista. Duca di Urbino era Federico di Montefeltro, non letterato ma protettore dei letterati, col quale Guarino carteggiava sin dal 1451. Ebbe poi occasione di conoscerlo personalmente nel 1457, quando Federico e Gismondo Malatesta si abboccarono a Ferrara con Borso d'Este, che essi aveano scelto per paciere; ma la pace non fu ottenuta. Al duca Federico si accompagnava anche Ottaviano Ubaldini, entrambi cresciuti in corte come fratelli. Ottaviano era letterato, fu allievo di Vittorino da Feltre e si occupava di studi latini e italiani; corrispondeva p. e. col Prendilacqua, col Filelfo e con Guarino; quest'ultimo anzi gli mandò come institutore uno dei suoi scolari, Marino Filetico. Battista Guarino si era incontrato con Ottaviano nel 1456, probabilmente in Bologna, e in quell'anno stesso gli emendò un Catullo.

360. Dico in Bologna, perchè Battista insegnò in quell'università due anni, 1455-1456, 1456-1457. Fu onore non ordinario per un giovanotto appena forse ventenne esser chiamato a dettar lezione in quell'illustre ateneo. Il discorso inaugurale del decembre 1455 fu un trionfo per Battista. L'uditorio era affollatissimo; vi si notavano i rettori e ragguardevoli personaggi fra i quali il cardinal legato. Il vecchio [159] Guarino, quando ne udì la relazione in piazza a Ferrara da uno che veniva da Bologna, non potè trattenere dalla consolazione le lagrime.

361. In Bologna c'era giusto in quegli stessi anni un altro figlio di Guarino, il canonico Manuele, che avea l'ufficio di segretario presso il cardinal legato. Per mezzo di questi due figli Guarino tenea viva corrispondenza col circolo bolognese. Senza di che egli carteggiava con la famiglia Bentivoglio e col cardinal Bessarione, che fu legato in Bologna dal 1450 al principio del 1455. Essendosi recato a Bologna il suo scolaro Marco Aurelio, gli portò nel ritorno i Ricordi di Socrate di Senofonte tradotti dal Bessarione; con ciò fu offerta a Guarino l'occasione di tributar meritate lodi al dotto Greco e di rinnovare l'amicizia stretta in Ferrara nel 1438 al tempo del Concilio. A Bologna predicavano di quando in quando due monaci veronesi di quel tempo, fra' Timoteo e fra' Matteo Bossi. Timoteo trovò in una di quelle circostanze, sembra, a Bologna la vita di S. Guarino, che fu trasmessa a Guarino da un monaco bolognese, fra' Cipriano. Fu un'immensa esultanza per Guarino l'aver trovato il suo santo omonimo e fu fortuna per noi, poichè nel ringraziare Cipriano egli dà preziose notizie intorno ai suoi primi anni.

362. Quel Timoteo era uomo istruito e abbastanza spregiudicato, perchè scrisse un libro, la Sacra rusticitas, dove dimostra che lo studio delle lettere non nuoce alla pietà cristiana. Anche lui però, come tutti i minoriti, faceva la sua crociata contro il lusso, che allora cominciava a diventare una vera piaga sociale. E predicò contro il lusso nella quaresima del 1454 a Bologna, dove ebbe buon gioco, avendogli prestato mano forte il Bessarione, che già tre anni innanzi avea pubblicato ivi stesso un editto contro il lusso. Però gli attacchi di fra' Timoteo erano specialmente rivolti contro le [160] donne. Ciò parve poco cavalleresco a taluno, che confutò il monaco, e a Guarino stesso, il quale spezzò la sua lancia in favor delle donne.

363. Egli infatti ne scrisse a Santi Bentivoglio, capo partito a Bologna, censurando l'eccessiva severità dei monaci, i quali parlavano astrattamente, anzichè tener d'occhio le condizioni della vita pratica, e notando che mentre gli uomini hanno mille mezzi per mettere in vista i propri meriti, alle donne non è riservato altro mezzo che l'ornamento. Due anni più tardi fra' Matteo Bossi rimproverò a Guarino l'acrimonia di quella critica, ma Guarino gli rispose protestandogli che la sua stima e il suo affetto verso fra' Timoteo non gli venne mai meno e tutto finì lì.

364. Un altro figlio di Guarino, Girolamo, praticò la corte di Napoli. Alfonso d'Aragona dopo sette anni di guerra riusciva finalmente vittorioso del suo avversario Renato e nel febbraio del 1443 faceva il suo ingresso trionfale in Napoli. Guarino sapeva che Alfonso era re magnanimo e liberale, sapeva che egli proteggeva le lettere e i letterati, sapeva che il Panormita e il Valla, suoi antichi amici, stavano da parecchio tempo alla corte di lui e vide perciò che gli sarebbe stato utile collocare a Napoli il proprio figlio Girolamo. Ma tastò prima il terreno; infatti nell'ottobre 1442 scrisse al re Alfonso esaltando le sue imprese guerresche, ma dando maggior rilievo alle virtù dell'animo, come la fede, la religiosità, la giustizia, la liberalità, la magnanimità e simili, e dimostrando che egli non era, siccome volevano far credere, straniero nel regno di Napoli, che la Spagna fu colonizzata dai Romani e diede poi a Roma gli imperatori Adriano, Teodosio e Marco Antonio Vero. In un'altra lettera Guarino concentra le sue lodi sulla protezione che Alfonso accordava agli studi; e così si aperse la via a presentargli il proprio figlio Girolamo, il quale partì per Napoli nell'ottobre del 1443 [161] con una lettera di raccomandazione del padre al Panormita e con una dell'Aurispa al Valla.

365. Alla prima lettera che Girolamo scrisse da Napoli al padre questi rispose tracciandogli le principali linee della sua condotta in corte. «Dopo Dio viene il re, indi il suo segretario; i voleri del re devono essere tutti sacri per chi vive in corte. I cortigiani vanno trattati con urbanità e in modo da non suscitare la loro gelosia». Caratteristiche sono le regole che gli dà sul contegno da osservare nelle conversazioni: «più che parlare ascolta; ma non avviare mai o non secondare la maldicenza a carico degli assenti; mostra di fare gran caso di ciò che dicono i presenti e non vantar mai la tua professione in confronto dell'altrui; sappi essere ora serio, ora gaio, ma senza trascendere in volgarità, e fa conto soprattutto che ogni tua parola debba giungere agli orecchi del re». Gli raccomanda da ultimo di fuggir l'ira e l'avidità del guadagno e di mantenere scrupolosamente la segretezza.

366. I consigli del padre non caddero a vuoto e Girolamo seppe ben presto acquistare la fiducia del re che lo creò suo consigliere e segretario. Nè Girolamo si mostrò ingrato verso il suo protettore e non trascurava occasione di manifestargli la sua riconoscenza; come nel 1444 quando partiva da Napoli Maria per andare a Ferrara sposa di Leonello, e nel 1447 che compose un carme in lode del suo re per la riedificazione di Vibona (Monte Leone), alla quale aveva dato il nome di Alfonsina. Di questo carme Girolamo mandò copia al padre, che ne tolse pretesto per scrivere al re, congratulandosi di così bella azione e discorrendogli a lungo intorno alla superiorità delle arti della pace sulle arti della guerra, e trovando da ultimo il modo di lodarlo non solo come mecenate ma anche come cultore degli studi e di raccomandargli il figlio Girolamo.

[162] 367. Allorchè nell'ottobre del 1443 Girolamo era giunto a Napoli con la commendatizia dell'Aurispa al Valla, quest'ultimo si affrettò a scrivere a Guarino dell'ottima impressione che gli aveva fatta il figlio, «il quale riproduceva esattamente il padre tanto nelle doti fisiche quanto nelle morali». Nel medesimo tempo gli chiedeva una copia del Panegyricus di Plinio, offrendogli in ricambio il proprio opuscolo Sulla falsa donazione di Costantino, il lavoro più oratorio che egli avesse mai, a suo stesso giudizio, potuto scrivere. E fu in verità ardimento degno dell'ingegno superiore del Valla e consentito solamente a Napoli, dove il governo di re Alfonso lasciava libertà di parola e proteggeva gli umanisti perseguitati dall'inquisizione ecclesiastica. Quanta attività non aveva spiegata il Valla in quei pochi anni dacchè stava alla corte di Alfonso! Oltre all'opuscolo sulla Donazione, avea terminati i sei libri delle Eleganze e i tre della Dialettica, aveva preparato il libro delle Adnotationes contro Antonio da Rho, avea composti otto libri di confronti tra il testo greco e il testo latino del Nuovo testamento, avea tradotto in prosa latina i primi sedici libri dell'Iliade e attendeva all'emendazione del testo di Quintiliano.

368. Nel principio del 1447 re Alfonso stava attendato a Tivoli, donde nel corso dell'anno intraprese la sua campagna contro i Fiorentini. Nel campo si trovavano anche il Valla e Girolamo Guarini. Venuta la stagione delle pioggie autunnali, i due umanisti pensarono di ritornare a Napoli e presero la via di Siena. Ma s'imbatterono in una schiera di briganti, dai quali il Valla potè scampare a stento, mentre il Guarini fu catturato e maltrattato; poco dopo però si rincontrarono entrambi incolumi a Napoli.

369. Il Valla nell'anno seguente, 1448, lasciò per sempre Napoli e si stabilì a Roma, dove il regno di papa Niccolò V gli accordava quell'ospitalità, che gli sarebbe stata [163] negata da Eugenio IV. Girolamo Guarini in quello stesso anno partì da Napoli, lasciando l'incarico di spedirgli le valigie a Bartolomeo Faccio. Pare che se ne sia tornato in condizioni non troppo floride, perchè il padre per fargli pagare lo stipendio ha dovuto presentare una supplica al re. Nel 1450 Girolamo aveva trovato un altro posto nella cancelleria di Modena. Il Faccio per avere avuto in consegna le valigie di Girolamo ebbe frequenti occasioni di scrivere al suo antico maestro Guarino, che egli amava e stimava sempre e al cui giudizio sottoponeva i propri lavori. Un bel giorno poi del 1451 le lettere del Faccio arrivarono non per mezzo del solito messaggiero; il messaggiero era nientemeno che il Panormita in persona: «a lui potrai chiedere, o Guarino, tutte le notizie che desideri di me; io non ho segreti per lui». E Guarino abbracciò con effusione il grande e stimato amico suo, che allora per la prima volta imparava a conoscere personalmente. Il Panormita passava da Ferrara diretto a Venezia, dove si recava ambasciatore del suo re. Lo accompagnavano Luigi Puggi e il venticinquenne Gioviano Pontano.

370. Parimenti a Roma troviamo un figliolo di Guarino, Manuele, che vi si stabilì per alcuni anni a perfezionarvi i suoi studi ecclesiastici; oltre di che da Ferrara a Roma andava e veniva ogni anno l'Aurispa. Manuele e l'altro figlio Girolamo furono da Guarino con special cura raccomandati a Niccolò V nella lettera congratulatoria che gli scrisse per la sua assunzione al papato.

371. La lettera ha un poco l'intonazione retorica di un'orazione, ma essa esprime perfettamente i sentimenti suscitati in tutta l'Italia dall'inaspettata elezione di Tommaso Parentucelli. Ognuno infatti ammirava l'umile e povero figlio dei medico di Sarzana elevato al massimo onore della chiesa, ognuno esaltava la sua pratica negli affari, ognuno scorgeva in lui il rimuneratore del vero merito e il dispregiatore del [164] danaro, ognuno salutava in lui l'inauguratore di un periodo di pace, ognuno encomiava la sua estesa e molteplice dottrina. Questi sono i cinque grandi titoli, che la pubblica opinione riconosceva al nuovo papa e questi sono i titoli messi in rilievo da Guarino. Però mentre il ceto degli umanisti concepì larghe speranze del nuovo papa per l'incremento della cultura, Guarino sembra di tali speranze non aver sentore.

372. Se ne accorse invece più tardi, quando anch'egli divenne uno dei tanti collaboratori del vasto piano di Niccolò V, di fondare una grande biblioteca di traduzioni dal greco. E nella dedica a Niccolò V della traduzione della Geografia Straboniana Guarino mette in vista questo merito del papa; ma non dimentica anche una particolare circostanza, ossia che il papa con la traduzione avea di mira gli interessi della religione, in quanto che badava soprattutto alla traduzione dei testi sacri; e in ciò Guarino lo paragonava a Tolomeo Filadelfo, che fece tradurre la bibbia dai settanta. Sicchè anche la Geografia di Strabone avrebbe dovuto servire agli interessi della chiesa. «Senza dubbio; perchè la gente poteva vedere su quanta estensione di regioni imperasse la chiesa, la quale in tal modo veniva ad aumentare il suo prestigio». C'è veramente molta stiracchiatura, ma Guarino doveva aver capito che al papa premeva di far credere così.

373. A Guarino dunque venne da Niccolò V assegnata la traduzione di Strabone da nessuno prima tradotto. Sin dal 1448 Guarino domandava uno Strabone al Filelfo; ma non pare che sin da allora avesse ricevuto l'incarico dal papa; lo cercava forse per proprio uso. Non so se l'abbia trovato subito; certo lo possedeva nel 1451. L'incarico gli fu dato probabilmente nel 1452, perchè nel principio del 1453 la traduzione era alquanto inoltrata. L'idea di quella traduzione nacque in Niccolò V dall'aver egli saputo che si trovava [165] in Roma uno Strabone in possesso del cardinal Ruteno Isidoro. Ma siccome Isidoro nel maggio 1452 era partito con una missione per Costantinopoli, così avrà fatto intanto cominciare a Guarino la traduzione sul proprio esemplare, il quale era molto guasto: poi gli si sarebbe mandato l'altro da Roma, come fu in effetto. Nel marzo del 1453 Guarino mandava a Giovanni Tortelli alcuni saggi della traduzione; altri ne mandava nel settembre dell'anno stesso; allora aveva quasi finito il libro quarto. Nuovi saggi manda nel 1454, mentre annunzia che lavorava intorno al libro sesto. Nel medesimo tempo Guarino chiedeva danaro. Gli pesava sulle spalle una famiglia molto numerosa e per attendere alla traduzione avea dovuto trascurare i propri interessi e lasciare alcune lezioni private.

374. Nel febbraio 1455 il lavoro avanza con gran lena; ma come dovette essere rimasto il povero Guarino quando nel marzo intese la morte del papa! Per la parte tradotta gli erano stati pagati mille scudi; e per il rimanente che fare? Gli sapeva male troncare a mezzo un lavoro così poderoso; onde si risolse a continuarlo e terminarlo per conto proprio; avrebbe poi trovato il mecenate che lo pagherebbe. Terminò la traduzione nel luglio del 1458. Cercò un mecenate a Firenze, forse tra i Medici, a cui offrirlo, ma l'offerta non fu accettata. L'accettò l'illustre patrizio veneto Giacomo Antonio Marcello, dei cui meriti, specialmente militari, fa ampio elogio nella dedica. Il Marcello alla sua volta dedicò l'opera a Renato di Angiò. Questo fu, dopo la restituzione dei passi greci al commento vergiliano di Servio, l'ultimo grande lavoro di Guarino.

375. Morto Niccolò V, col suo successore Calisto III, indifferente o meglio contrario all'umanismo, Guarino non se la poteva intendere e così si rallentarono i suoi legami con Roma. Già sin dai tempi dello stesso Niccolò V degli [166] umanisti amici di Guarino soli il Tortelli e il Poggio aveano mantenuto regolare carteggio con lui.

376. Le sue relazioni col Poggio non hanno mai perduto della usata frequenza e intimità. Nel 1447 il Poggio pubblicò la traduzione della Ciropedia di Senofonte. Ebbene, Guarino scrivendo al re Alfonso per tutt'altro trovò il modo di nominare il Poggio e la sua Ciropedia, per dirgli che quell'umanista in tarda età (67 anni) aveva, come a Roma Catone, dato opera a studiare il greco e l'aveva imparato prima che si venisse a sapere che egli lo studiava. La stessa lode fece Guarino del Poggio al giureconsulto Francesco Accolti, che allora professava a Ferrara, e la stessa lode ripetè poi direttamente al Poggio, aggiungendogli esser tanto elegante e disinvolta la traduzione, da sembrar proprio opera originale. Nel 1451 vide di mal occhio la polemica tra il Valla e il Poggio, suoi amici, e unì la sua voce a quella di Pietro Tommasi per riconciliarli, se non che furono sforzi inutili i suoi, quelli del Tommasi, del Barbaro e del Filelfo; la guerra finì soltanto con la partenza del Poggio da Roma.

377. Il Poggio lasciò Roma nel 1453, nel quale anno fu chiamato a reggere la cancelleria fiorentina in sostituzione del morto Marsuppini. E da Firenze non interruppe mai la sua corrispondenza amichevole con Guarino, a cui chiedeva saggio della traduzione di Strabone e gli mandava libri per il figlio Battista. Ci fu una piccola nube per una falsa voce giunta all'orecchio del Poggio sul conto di Guarino e del Perotti; ma fu tosto dissipata. «Scusami, o Guarino, se per poco ho alimentato quel sospetto contro di te; la tua lealtà m'era ben nota». E non diceva per complimento, giacchè nel 1456 trattava con lui per mandare alla sua scuola in Ferrara i propri figli; «qui a Firenze, caro Guarino, i figli non li può mandare a scuola chi vuol farli educare a principii di sana moralità; perciò li affido a te». Stupenda invidiabile [167] gloriosa testimonianza di fiducia e di affetto, la quale compendia tutto un mezzo secolo di una operosità didattica mai venuta meno allo scopo, e di una amicizia che non ha riscontri in quell'età.

378. Nell'ottobre 1459 morì a Firenze il Poggio. Dei grandi campioni dell'umanismo nati negli ultimi decenni del secolo precedente erano rimasti a lungo superstiti il Poggio e Guarino; ora restava Guarino solo. L'Aurispa, astro minore, due anni più vecchio di lui, strascicava alla meglio la sua decrepitezza in Ferrara. Nel decembre del 1459 l'Aurispa seppe che si era sparsa la falsa voce della sua morte; egli ne rise, ma poco dopo, nei primi mesi del 1460, la morte venne davvero. Al mancar d'ogni parente, d'ogni amico Guarino soleva scorgere un ammonimento della brevità della sua vita, un'avvertenza a tenersi pronto per il gran passo; ma nessuna morte deve averlo messo sull'avviso come quella del Poggio e dell'Aurispa. Gli erano premorti di pochi anni la moglie e i due figli Niccolò e Girolamo, entrambi nel fior dell'età; egli era sugli ottantasette: poco più poteva tardare anche la sua chiamata.

379. E infatti nei primi di decembre del 1460 ammalò di pleurite. Il giorno 4 sentendosi prossima la fine, si munì dei conforti religiosi e dettò il testamento: lasciava alle due figlie maritate le doti già costituite, alle due figlie nubili e alla orfana di Girolamo 800 lire per ciascuna; ad Agostino la casetta paterna in Verona e alcune terre; a Manuele una parte della casa in Ferrara; a Gregorio la villa di Montorio, alcune terre e un molino; a Leonello la casa di Valpolicella; a Battista la casa grande in Verona. Quel giorno stesso circondato e baciato dagli amici e dai figli, benedicendoli come Giacobbe, placidamente spirò.

380. Il trasporto della salma provocò un piccolo tumulto. I rettori dell'università si disputavano il primo posto nel [168] corteo e la disputa si incalorì tanto, che il feretro venne depositato e lasciato in mezzo alla via. Allora Luigi Casella, scolaro dell'estinto, alzando gli occhi ai cielo: «Vi ringrazio, o Signore, che avete permesso questo scandalo per trarne un bene. L'onore di trasportare la salma doveva essere riservato ai suoi scolari». E radunati altri allievi di Guarino, quali Pietro Costabili, Niccolò Strozzi, Annibale Gonzaga, Francesco Accolti, Pietro Marocelli, Francesco Forzati, si tolsero sulle spalle il feretro e lo portarono alla sepoltura. Gli onori funebri gli furono resi da un altro suo allievo. Luigi Carbone, il quale tessè al maestro un entusiastico elogio, tratteggiando la sua vita, accennando le varie residenze da lui occupate, nominando i più famosi suoi scolari, esaltando le qualità del suo insegnamento e le sue virtù personali.

381. Il secondo giorno dopo la morte di Guarino, cioè il 6 decembre, il Consiglio dei Savi con lodevole proposito gli sostituì nella cattedra il figlio Battista, giudicato non inferiore al padre per abilità, virtù ed eloquenza.

382. Nel novembre dell'anno seguente 1461 i figli di Guarino presentarono un'istanza al marchese Borso per la erezione di un monumento al padre. Borso nello stesso novembre diede parere favorevole e il Consiglio dei Savi votò il monumento da erigersi nella chiesa dei Carmelitani di San Paolo, alla sinistra dell'altare maggiore. Battista comunicò la deliberazione al fratello Leonello, incaricandolo di far preparare i marmi a Valpolicella. Il monumento fu costruito nel 1468.

[169]

INDICE DEI NOMI PROPRI NELLA VITA DI GUARINO

(i numeri indicano i paragrafi).

A

B

C

D

E

F

G

I

L

M

N

O

P

Q

R

S

T

[177]

U

V

Z

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

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