*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 48206 *** F. DE ROBERTO AL ROMBO DEL CANNONE MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1919 Secondo migliaio. PROPRIETÀ LETTERARIA. _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda_. Tip. Fratelli Treves. AVVERTIMENTO. _Gli scritti raccolti nel presente volume furono composti e pubblicati a parte durante la guerra. Mentre si decidevano le sorti della Patria e del mondo non era possibile distrarre la mente dalla immane tragedia, al paragone della quale ogni opera di fantasia sarebbe rimasta priva di senso. L'autore si volse alla storia per cercarvi ammaestramenti e conforti, studiò memorie di soldati, di diplomatici e di politici, e tra i libri di bella letteratura esaminò quelli che avevano per tema la grande crisi, o che indirettamente vi si potevano riferire. Le pagine che egli ne trasse ad auspicio di vittoria non sono forse indegne d'essere rilette ora che la guerra è gloriosamente finita._ 31 decembre 1918. AL ROMBO DEL CANNONE Vigilia italica. Il regno d'Italia è dunque in guerra ad oltranza contro l'impero d'Austria: dall'Adige all'Isonzo, dalle vette delle Prealpi tridentine agli anfratti del Carso il bombardamento imperversa, la battaglia infuria. Soldati italiani veleggiano per l'Adriatico, battaglioni di bersaglieri operano in Val Sabbia; i nomi di Gorizia, di Tolmino, di Malborghetto, di Monfalcone, di Plava, di Asiago, di Arsiero, della Val Sugana, della Vallarsa, della Valle Lagarina ricorrono nei bollettini quotidiani; Trento, Trieste, l'Istria, la Dalmazia sono oggetto della gran contesa. La Francia è col giovane Regno contro il decrepito Impero, che ha dalla sua i Prussiani e le altre genti tedesche; l'Inghilterra e la Russia.... ahimè, l'Inghilterra e la Russia non sono — non erano con noi quando una guerra simile alla presente si combatteva tra il regno d'Italia avente per metropoli Milano e per vicerè il figlio di Giuseppina di Beauharnais, e l'Austria di Francesco II.... Come oggi contro l'impero teutonico ed i suoi dipendenti, l'Europa si era allora collegata contro l'impero napoleonico ed i suoi satelliti; e il Regno Italico, trasformazione monarchica della Cisalpina, doppiamente odiato perciò, come opera iniziata dalla Rivoluzione francese e compita dall'uomo che aveva vòlto a proprio profitto quel cataclisma, non doveva, non poteva trovar grazia presso i futuri negoziatori di Vienna, preparatori della Santa Alleanza, restauratori della _legittimità_. Ma proprio allora, quando alla difesa d'Italia cooperavano veri reggimenti italiani ed i primi soldati designati col nome più tardi glorioso di _bersaglieri_, proprio allora furono proferite la prima volta tra i popoli e nei Gabinetti le espressioni di _indipendenza italiana_, di _unità italiana_, e la storia di quei tempestosissimi giorni ha per noi un interesse profondo ed un irresistibile fascino. Un ufficiale francese studiosissimo delle imprese guerresche e degli avvenimenti politici di quel tempo, il comandante Weil, la narrò in un'opera colossale che è tornata oggi d'attualità: i cinque grossi volumi, di circa tremila pagine complessive, intitolati _Le prince Eugène et Murat_, dove si descrivono giorno per giorno e quasi ora per ora, con una infallibile e inesauribile documentazione, le operazioni militari dirette dal figliastro e dal cognato del gran Côrso, e si riferiscono tutti i contemporanei negoziati diplomatici svolti dalla primavera del 1813 a quella del '14, cioè fino al primo tracollo del l'impero francese ed alla definitiva rovina dei due regni italiani che gli erano infeudati. I. Nelle grandi linee, la campagna d'Italia del 1813-14, combattuta per la difesa del nostro paese sugli stessi campi dove si è iniziata per la sua integrazione quella del 1915, procedette sciaguratamente al contrario dell'odierna. Oggi il nostro Comando ha preso l'offensiva nell'impresa di liberazione delle Alpi Giulie; allora Eugenio di Beauharnais, possedendole dopo che Campoformio era stato corretto a Presburgo ed a Schönbrunn, doveva soltanto difenderle contro la rinnovata cupidigia austriaca; noi miriamo alle rive della Sava e della Drava, entrambe allora tenute — e perdute — dal Vicerè. L'occhio d'aquila di Napoleone aveva, fin da parecchi anni innanzi, antiveduto in quale situazione il figliastro si sarebbe trovato venendo alle prese con l'Austria e quale via avrebbe dovuto tenere per ridurla alla ragione. «Voi concentrerete il vostro esercito nel Friuli» gli aveva scritto da Parigi il 12 aprile 1809 «e disporrete una divisione alla sbocco di Pontebba per minacciare continuamente di marciare su Tarvis.... Secondo il mio calcolo, le principali forze del nemico si troveranno a Tarvis; così essendo, esso non si porterà su Gorizia, ma si accentrerà a Lubiana. Lasciate dunque sull'Isonzo una parte della cavalleria e una dozzina di migliaia di fanti ed avanzate con tutto l'esercito su Tarvis, nulla concedendo al caso. Tenete bene unite le vostre forze.» Invece Eugenio, subordinando le proprie mosse alla manovra austriaca, della quale ebbe troppo tardi notizia, abbandonava a sè stessa la sua ala sinistra per portarsi con tutte le truppe disponibili su Adelsberg e Lubiana, perdendo il vantaggio dell'iniziativa e contromandando poi la marcia, con deplorevole effetto, per procedere da Gorizia, Canale e Caporetto verso la Carinzia. Il buon successo di Feistritz parve per un momento avergli ridato il vantaggio dell'offensiva; ma poi l'inferiorità numerica, l'incapacità dei luogotenenti, la deficienza dello stato maggiore — era composto di soli sei ufficiali! — la diserzione degli Illirici e dei Dalmati, lo mettevano nella penosa necessità di retrocedere sull'Isonzo. Nulla ancora era perduto. La linea dell'Isonzo era naturalmente designata per una strenua difesa: nove anni innanzi Napoleone aveva suggerito al figliastro: «Percorrete a cavallo le rive dell'Isonzo; sono quelle le vostre frontiere. Un giorno sarete chiamato a difenderle. Bisogna che il più piccolo sentiero e l'infima posizione siano da voi conosciute. Coteste ricognizioni sono importantissime e vi riusciranno preziose. Credo che abbiate visto quei luoghi quando eravate molto giovane, ma che non li abbiate esaminati tanto minutamente quanto occorre....» Nè la perdita dell'Isonzo sarebbe riuscita fatale. In una lettera del maggio 1808, da Baiona, all'inizio dell'avventura spagnuola, e in previsione di nuove ostilità dell'Austria, il grande stratega aveva riscritto ad Eugenio: «Quand'anche il nemico occupasse tutto il paese tra Isonzo e Piave, non terrebbe ancora nulla: insino al Piave il paese nulla offre di molto importante». Il corso di questo fiume era, a suo giudizio, più vantaggioso che non quello del Tagliamento; ma l'estrema linea della difesa, quella che la «spregevole fanteria austriaca» non avrebbe dovuto nè potuto oltrepassare, consisteva sull'Adige, «di cui Verona è il centro e il punto principale». Per mala sorte, mentre il Vicerè era costretto a retrocedere dal confine orientale, anche quell'altra parte del suo esercito cui aveva affidato la difesa del redento Tirolo era costretta a ripiegare fino a Trento ed a Rovereto: l'insurrezione fomentata dal nemico tra quegli alpigiani e la defezione della Baviera favorivano il còmpito assegnato al _feldzeugmeister_ Hiller. Molto probabilmente il piano dell'offensiva del Trentino, della cosiddetta «spedizione punitiva», concepito la scorsa primavera dallo stato maggiore austriaco, fu ispirato da quello che un secolo addietro il barone Hiller effettuò: allora come oggi i nostri nemici pensarono di compiere una gran mossa avvolgente dall'Alto Adige per la Valsugana, con lo scopo di sboccare nella pianura veneta e di cogliere alle spalle le truppe operanti sull'Isonzo; tranne che, mentre oggi le ondate dell'assalto si sono infrante contro i petti dei nostri soldati, allora i Franco-Italiani furono costretti a una serie di continue ritirate, da Primolano, da Cismone, da Folgaria, da Montebaldo, da Ala, dinanzi alle colonne avversarie discendenti da Borgo di Valsugana e da Feltre e collegate da corpi volanti per i Sette Comuni, la Vallarsa e la Valfredda. A Bassano Eugenio compiva uno sforzo e conseguiva un'effimera vittoria, costringendo i fanti dell'Eckardt a retrocedere su Cismone e quelli del Brettscheider su Gallio, Asiago e Levico; ma poi il Vicerè doveva a sua volta abbandonare la linea del Piave e della Brenta ed avviarsi a Vicenza ed a Verona, talchè Bassano era rioccupata dal nemico, che procedeva da Castelgomberto verso Vicenza, dove le divisioni scese dal Trentino dovevano congiungersi con quelle avanzanti dall'Isonzo e concorrere così all'investimento di Venezia. Ancora una volta il Vicerè tentava un ritorno offensivo per la Valle Lagarina verso Rovereto e Trento; ma, espugnata Caldiero, non poteva mantenervisi per insufficienza di forze e tornava a ridursi a Verona. II. Una delle principali cagioni del cattivo esito della campagna era il voltafaccia di Gioacchino Murat. L'ambizioso sergente di cavalleria sospinto sul trono di Napoli dall'inaudita fortuna del grande cognato, temeva d'esser travolto nell'imminente disastro, e volendo assicurarsi sul capo la malferma corona, bramando anzi d'ingrandire il suo regno e di ridurre sotto il suo scettro tutte le genti italiane, cercava alleati tra i nemici di Napoleone, si offriva invano agli Inglesi, si stringeva da ultimo all'Austria, affidandosi «senza riserva alla fiducia che deve ispirare la lealtà dei suoi principi, segnatamente quella del sovrano che oggi la governa». Singolare speranza davvero, cotesta, di divenir sovrano dell'Italia unita mediante la «lealtà» di quegli Absburgo che a null'altro aspiravano nè lavoravano, con tutte le arti e tutte le armi, fuorchè a recuperare Venezia e Milano, l'Istria e la Dalmazia, il dominio dell'Adriatico e l'egemonia sulla penisola! Il Weil, pur tessendo una finissima analisi delle esitanze, delle tergiversazioni, delle contraddizioni di Gioacchino, afferma che, senza l'opposizione implacabile di lord Guglielmo Bentinck, messo britannico presso i Borboni di Sicilia, l'improvvisato Re di Napoli sarebbe riuscito nell'impresa di liberare e ricomporre l'Italia. È lecito dubitare di questa, come di qualche altra affermazione del diligentissimo storico. Quando, per esempio, egli dà torto a Napoleone per avere rifiutato, sul principio del 1813, le «accettabili e onorevoli» condizioni di pace offertegli dal Metternich, non tiene conto del grande equivoco, scoperto e documentato da Alberto Sorel, che si celava nelle proposte del cancelliere austriaco e di tutta la Coalizione. Quanto all'Italia, affinchè Gioacchino Murat riuscisse allora a resuscitarla, occorrevano due cose: che la coscienza dei suoi cittadini fosse formata, e che i potentati europei consentissero a lasciarla rivivere. Ma se la grande idea era stata concepita da alcuni generosi, essa non era ancora divenuta, come occorreva, sentimento e passione comune; e se nei consigli dell'Europa si cominciava a considerare il problema italiano, non gli si voleva ancora dare, pure annunziandola e promettendola, la sola soluzione che comportava. L'Inghilterra lasciò sperare che avrebbe dato mano a liberare la Penisola dalle influenze rivali dell'Austria e della Francia. Il Bentinck, acerrimo avversario del Re Gioacchino, ne ostacolava con ogni possa i piani, ma scriveva a lord Castlereagh, ministro inglese degli affari esteri, che se la Gran Bretagna avesse estesa la sua protezione ed assistenza agli Italiani, avrebbe provocato tra loro «un gran movimento nazionale, simile a quello che ha sollevato la Spagna e la Germania: un gran movimento in favore dell'indipendenza; e quel gran popolo, invece che lo strumento d'un tiranno militare o di qualche altro individuo, invece che lo schiavo dolente di alcuni miserabili principotti, sarebbe divenuto una formidabile barriera eretta tanto contro la Francia quanto contro l'Austria. La pace e la felicità del mondo avrebbero ottenuto un possente aiuto di più. Temo molto, però, che l'ora sia trascorsa....» L'ora, per dire esattamente, doveva ancora giungere: tant'è vero, che lo stesso Bentinck non si faceva scrupolo di difendere, nello stesso tempo che proferiva così belle parole, gl'«imprescrittibili» diritti borbonici.... Impegnata nel duello a morte contro la Francia di Napoleone, l'Inghilterra aveva troppo bisogno di ottenere l'aiuto dell'Austria, e per ottenerlo rinunziava al magnifico disegno di fare dell'Italia unita un pegno dell'equilibrio europeo ed un freno alle contrastanti ambizioni austriache e francesi, contribuendo invece a consegnarne gran parte agli Absburgo: mentre il Vicerè manovrava tra l'Adige e l'Isonzo, difendendosi del suo meglio sulle due frontiere, i vascelli britannici comandati dall'ammiraglio Freemantle cooperavano dal mare con le truppe del maresciallo austriaco Nugent per ridare a Francesco II Fiume, Pola, Capo d'Istria, Rovigno; favorivano le operazioni del Tomasich e del Danese in Dalmazia; prendevano parte all'assedio ed all'espugnazione di Trieste, di Zara, di Ragusa; e se pure aiutavano i Montenegrini nell'impresa di Cattaro, lasciavano poi che le Bocche fossero riprese ed annesse dall'Austria e tenevano per conto di lei, consegnandogliele alla pace, Lissa, Lesina, tutte le isole adriatiche. La Francia della Repubblica e dell'Impero potè credere d'aver fatto molto per l'Italia, e qualche cosa realmente fece; ma la diffidenza che doveva trattenere allora, e per lungo tempo ancora, i reggitori di quella nazione, era espressa limpidamente nel rapporto del Caulaincourt, ministro degli esteri di Napoleone, al suo padrone: «L'Italia dichiarata indipendente avrebbe senza dubbio un più diretto interesse a difendersi. Era formata di popoli divisi: Vostra Maestà ne ha fatta una nazione, e le forze che quel paese ha acquistate sotto l'amministrazione della Maestà Vostra hanno accresciuto la sua fiducia in sè stesso. La maggior parte degl'Italiani desiderano ottenere l'esistenza politica. Il Re di Napoli se n'è accorto. Egli si servirà d'ogni mezzo per dare sfogo a questa tendenza e riunire, potendo, le sparse membra d'Italia. Ma se Vostra Maestà consentirà all'indipendenza di quel paese, ora oppure al momento della pace, sarà anche nel vostro interesse formarne una sola monarchia? L'Italia ha 16 milioni d'abitanti e tutti i vantaggi d'un suolo fertile e d'una felice situazione marittima e commerciale. Un buon governo potrà, in una sola generazione, aumentare di metà quella popolazione. I suoi arsenali, il suo commercio, la sua marina, si sviluppano a poco a poco. Essa porta via alla Francia il commercio del Levante e la preponderanza nel Mediterraneo; e, forte della sua posizione fra una catena di montagne e i due mari, diventa la prima potenza del Mezzogiorno....» Alla pregiudiziale della rivalità nazionale si aggiungeva l'ostacolo della rivalità delle persone. Chi dei due, tra Eugenio di Beauharnais, Vicerè del regno settentrionale, e Gioacchino Murat, Re del regno napolitano, avrebbe ottenuto lo scettro dell'Italia una? L'invidia contro il Beauharnais, la paura di vedersi soppiantato da lui, la certezza che Napoleone lo preferisse, facevano titubare il Murat, rendevano doppio e perfido quel soldato nativamente franco e leale. L'uno accorrendo da Napoli verso i campi lombardi, occupando Roma, la Toscana, le Marche; l'altro battagliando tra l'Adige e l'Isonzo, parlavano agl'Italiani di libertà, d'unità, d'indipendenza; ma Eugenio confessava candidamente di non avere sposato la causa italiana se non «come leva per ottenere nuovi sacrifizii» dai suoi sudditi; e Murat presumeva di fare l'Italia gettandosi in braccio all'Austria, annunziando che la coalizione nella quale egli entrava aveva la «magnanima intenzione di ristabilire l'indipendenza delle nazioni....» III. Dell'indipendenza italiana osava parlare la stessa Austria! Il proclama del conte Nugent, disceso con gli Austro-Inglesi dalla vinta ed asservita Trieste alle foci del Po, e procedente verso Ferrara e Ravenna, portava l'intestazione: _Regno indipendente d'Italia_, e diceva alle genti: «Voi avete sofferto sotto il giogo di ferro dell'oppressore. I nostri eserciti sono venuti per liberarvi del tutto. Un nuovo ordine di cose, destinato a restaurare la vostra felicità, vi si offre.... Coraggiosi e bravi Italiani, è vostro interesse prendere le armi per conseguire la vostra rigenerazione e la vostra felicità.... _Voi dovete divenire una nazione indipendente_....» Il generale austriaco, come il Vicerè francese e l'ambasciatore britannico, teneva quel linguaggio per trarre dalla sua le popolazioni: quattro mesi dopo, caduto Napoleone, l'ultimo tricolore sventolante ancora in Italia era ammainato, l'esercito italiano cessava d'esistere, e un nuovo proclama del Bellegarde, ornato in testa dell'aquila bicipite, partecipava ai Lombardo-Veneti il «felice destino» che era stato loro concesso: l'annessione alla Monarchia absburghese.... Buon profeta, tra i molti illusi, era stato Gabriele Pepe, quando, biasimando i portamenti di Gioacchino e la sua entrata nella Coalizione, si dichiarava ignaro delle condizioni del trattato, ma «certo che l'Italia non avrà nè l'indipendenza nè l'unità». La menzogna di quelle promesse fu grave di conseguenze funeste. «La condotta degli Alleati verso l'Italia è un peccato che, al pari dello smembramento della Polonia, costerà molto caro all'Europa. Occorreranno ancora una ventina d'anni d'espiazione....» A parte l'errore di calcolo, perchè l'espiazione durò molto di più, anche queste parole furono profetiche: le pronunziò quel goriziano Catinelli che, mezzo secolo prima di Garibaldi, tentò un'impresa garibaldina al rovescio: salpò con mille soldati da Milazzo per tentar di sollevare la Toscana, prendere alle spalle il Vicerè sul Mincio e concorrere alla «liberazione» della Penisola, auspici gli Austriaci e gl'Inglesi.... Gli Alleati del 1813-14, dichiarando di combattere una crociata per la «libertà» d'Europa, per la causa del «diritto» e della «giustizia», ridussero bensì all'impotenza il grande perturbatore dell'antico equilibrio, ma non compirono l'opera, diedero ai popoli false speranze e ribadirono le catene ai polsi degl'Italiani. La presenza dell'Italia risorta fra gli Alleati odierni è la maggiore e migliore garanzia contro il ripetersi di simili errori. _12 ottobre 1916._ Una Absburgo in Italia: MARIA CAROLINA DI NAPOLI. I libri della guerra non offrono ancora molto interesse: vuole la necessità che la storia non cominci se non quando gli attori e i testimonii dei grandi avvenimenti spariscono. Di qui a cent'anni si continueranno a pubblicare documenti delle conflagrazioni attuali, come anche oggi, dopo più d'un secolo, ne vengono fuori, e di prim'ordine, intorno a quelle della Rivoluzione, del Consolato e dell'Impero. Il carteggio di Maria Carolina col marchese di Gallo, edito a Parigi dal comandante Weil e dal marchese di Somma-Circello quando la voce dei cannoni echeggiò la prima volta, e forse perciò non osservato con l'attenzione che meritava, porta un contributo prezioso alla storia delle Due Sicilie dall'inizio dei rivolgimenti francesi sino alla seconda fuga della Corte borbonica da Napoli, cioè al 1806, e consente di aggiungere nuovi tocchi al ritratto morale di quel singolare personaggio che fu la figlia di Maria Teresa, sorella di Maria Antonietta, moglie di Ferdinando IV, amica di Guglielmo Acton e di Emma Lionna. I. Dice la cronaca scandalosa, e rammenta anche il Welschinger nella prefazione ai due grossi volumi, che la Regina di Napoli aveva accordato al Gallo, oltre l'amicizia, qualche altra cosa; ma chi pensasse di trovarne qui le prove resterebbe disingannato. Non c'è una sola parola che attesti l'intima natura dei rapporti della sovrana col vassallo; Maria Carolina si firma _maîtresse_, cioè padrona, non già amante del suo ambasciatore e ministro, e gli tiene bensì il linguaggio della massima confidenza, gli parla «a cuore aperto», lo mette a parte di tutti gli avvenimenti del regno e di tutta la cronaca della reggia, gli scrive in cifra e col succo di limone cose che divulgate le recherebbero molto pregiudizio e gli raccomanda perciò di bruciare queste sue lettere; gli professa anche un'amicizia «eterna», una stima «eterna» altrettanto; lo giudica amico «perfetto», spera di vivere ancora vicino a lui e di finire i proprii giorni accanto al «vecchio amico» a cui dice addio «sino alla tomba»; ma tutte queste, ed altre espressioni similmente ampollose ed enfatiche come vuole il temperamento della scrittrice, non mettono nessun sapore di romanzo nel succoso epistolario. C'è qua e là qualche nota salace: la Regina parla al ministro del male che le fanno le emorroidi e delle operazioni a cui è stata sottoposta per una fistola; gli manda anche la relazione dei medici accompagnata da disegni che ella stessa qualifica «molto indecenti»; ma questa mancanza di pudore potrebbe dimostrare non tanto l'abbandono dell'amante quanto l'ottusità e l'idiozia morale della donna. Si legga in quali termini ella parla della sensualità della nuora e della frigidità del genero, e il dubbio riescirà anche più legittimo. La donna, appunto, è quella che noi cerchiamo nella Regina, e poche altre sovrane dimenticarono tanto la corona e lo scettro nel rivelare il proprio pensiero quanto Maria Carolina componendo queste sue lettere. Si dice che Napoleone Bonaparte la definisse: «il solo uomo delle Due Sicilie», e il giudizio potrebbe essere appropriato, considerando che razza d'uomo fu il Re suo marito e quali persone lo circondarono dopo l'allontanamento di Bernardo Tanucci; ma la virilità di Maria Carolina resta ancora da dimostrare, e in queste pagine, se mai, ne troviamo prove negative del tutto. Ella adopera una violenza, una virulenza di linguaggio che non è, come pare, espressione di forza. Un odio profondo, istintivo, tenace, la infiamma contro la Francia democratica che ha rovesciato la monarchia nazionale e minaccia le straniere, che le ha ucciso il cognato e la sorella. I segni verbali di questo sentimento cieco e inestinguibile si moltiplicano sotto la sua penna: i Francesi sono «birbanti, briganti, miserabili, scellerati, maledetti, canaglie, pazzi, forsennati, pirati, assassini, vandali, tigri, mostri»; il suo augurio è che quella «infame nazione sia tagliata a pezzi, annichilita, disonorata, ridotta a nulla per almeno cinquant'anni»; ella non vede altro rimedio che armarsi in massa contro di lei, «col crocifisso in mano» — l'espressione è del 1793, e il cardinale Ruffo se ne rammenterà sei anni dopo in Calabria — nè giudica che vi possa esser salvezza per il mondo se Parigi non sarà «rasa al suolo»; la sua ultima speranza è riposta in 50 mila Turchi che «saccheggino ogni cosa» — solo i Turchi sono, a suo giudizio, «franchi e leali» — oppure in 20 mila Albanesi ai quali direbbe: «Amici miei, saccheggiate, mangiate, rovinate....»; ma, con tanta sete di vendetta, ella è tutt'altro che sorda ai consigli della moderazione quando giunge il momento di agire, e se lavora a cementare la coalizione dei potentati contro la «scelleraggine francese», ordina all'ambasciatore di tener nascosto questo maneggio, perchè non vuol essere «compromessa», e se i detestati Francesi appariscono nelle acque di Napoli per imporsi alla città ed al regno, ella non tenta di opporsi, di far valere comunque la qualunque sua forza; al contrario: si piega, e piegandosi, vantandosi «onesta nel cuore», dichiara che aspetta di cogliere la prima occasione per mostrare il vero suo animo.... Questa potrebb'essere prudenza, e non sarebbe perciò da confondere con la viltà, tanto più che verrà la volta quando la Regina sarà temeraria e spingerà la monarchia alla rovina; ma nella mancanza di misura, precisamente, nel procedere così per pavide sottomissioni ed aggressioni spavalde, si rivela la mancanza di forza vera, di energia schietta e durevole, di resistente e indomabile coraggio. «_Paura, paura e ancora paura_», scrive nel giugno del 1794; «è orribile a dirsi, ma vero». Di questa paura che addebita ai circostanti, ella stessa è partecipe. Quando afferma: «Se dobbiamo perire, bisogna che ciò avvenga per disgrazia, e non per mancanza di energia e di coraggio»; quando dice che ha deciso di contendere il regno a palmo a palmo, di ritirarsi da Gaeta a Capua, a Napoli, a Salerno, a Cosenza, a Calanzaro, a Reggio, a Messina, a Palermo, ad Augusta, e che, sopraffatta in questo estremo rifugio, getterà con le proprie mani i suoi sette figli in mare e si precipiterà da ultimo dietro di loro, le parole sono belle, ma i fatti non le confermano. Nella sconfitta si smarrisce, si avvilisce, si prostra: dopo la pace del 1796 dichiara che le grandezze non le importano più, che ha perduto tutte le sue illusioni, che vede le cose «con gli occhi della verità», che aspetta di finire i suoi giorni «non solo senza pena, ma con una specie di godimento», e protesta e giura che non intende più «impacciarsi di nulla»: parole, parole, e ancora parole: appena stima giunto il momento della rivincita, fa il colpo di testa del 1798 — salvo, dopo la catastrofe, a gemere, a lagrimare, a dichiarare che la sua «scena è finita», che non chiede altro se non di ridursi a Linz, a Graz od a Presburgo, «sia pure in Valacchia», dove si contenterà di «pane e cipolle», maledicendo il «falso eroismo» che l'ha spinta alla perdizione: ancora parole, ancora menzogne; perchè, insieme con queste espressioni del pentimento, si alternano quelle del furore impotente, dell'odio impenitente, del delirio isterico: vengano, esclama, gli stranieri: «quali che siano, le forze potrebbero scendere in Puglia, sciabolare, avanzarsi. Non potranno far male se non ai possidenti: la terra già non potranno distruggerla». Ma se anche la terra potesse andarne distrutta, ella non esiterebbe a dar l'ordine: «la stessa peste è meno temibile che la Repubblica stabilita ed afforzata in Napoli.... Un massacro generale non mi farebbe la minima pena.... Ve ne prego, in nome del Re e mio: se mai gli Austriaci o i Russi scendessero dalla parte di Roma a Napoli, niente accordo, niente convenzione, niente tregua, niente perdono....» E queste, ora, non sono più sole parole: queste espressioni della ferocia, sì, ricevono piena conferma dagli atti, quando la capitolazione dei Repubblicani, offerta e sottoscritta dal luogotenente del Re, firmata e garantita dai rappresentanti di tre grandi potenze europee, sarà da lei lacerata e la «scellerata Repubblica tricolore» andrà per suo ordine sommersa nel sangue.... Ma ella non crede d'aver commesso nulla di male; se mai, soffre «mortalmente» delle violenze e della severità: il suo cuore «ne geme». Prima ancora di lordarsi le mani, dichiara preferibile «esser vittima, piuttosto che farne»; dopo l'immane tragedia, continua a protestare che la sua «morale» le consiglia di anteporre «l'esser vittima allo scatenare un flagello», e che sarebbe farle gran torto giudicarla «arrabbiata energumena». Non crede possibile la salvezza, ha detto, se non «con la forca e il carnefice a fianco e le orecchie turate, col cuore indurito e le leggi stracciate»; e quando ha eseguito puntualmente il programma, vanta la propria «purezza», esalta la propria «bontà», si duole che «la bontà non è la virtù occorrente alla conservazione dei troni», benedice Dio d'averla fatta giungere alla fine della carriera, perchè altrimenti si sarebbe «guastata», sarebbe divenuta «despota» e «scellerata....» Lei ed i suoi sono «gente onesta: questo e certissimo»; gente che non comprende nè ammette «se non i procedimenti della politica onesta e retta dei buoni tempi antichi»: lo dichiara nel 1803 al marchese di Gallo dandogli «parola d'onore», la sua parola «sacra», che resterà neutrale se la Francia le accorderà la pace — salvo a chiamare, di nascosto, i Russi e gl'Inglesi; salvo a porre il suo ambasciatore e confidente nella necessità di dimettersi quando vedrà che la Regina gli ha giurato il falso. Ella che prende il servitore ed amico a testimonio della propria lealtà, non sa che costui bollerà un giorno la «leggerezza» e l'«inconseguenza» di lei: eufemismi ai quali il diplomatico e suddito ricorre per non poter dire «tradimento» e «viltà». II. Si potrà sostenere, almeno, che questa impudenza è incosciente come forse è incosciente l'impudicizia? Neanche. Molte cose, troppe cose mancano a Maria Carolina, fuorchè l'intelligenza. La sua immaginazione «fermenta», ella «sente» tutto, «prevede» tutto; vive molto «con sè stessa» ed è capace di esaminarsi «senza onta nè repugnanza». Lampi di verità, allora, la abbagliano: «Vorrei punire il delitto e perdonare gli individui; ma, come tutti i paurosi e codardi, noi crediamo che la crudeltà premunisca, e quella che esercitiamo, da cui repugnano gli stessi giudici che vi sono costretti, finisce con l'alienarci i pochi cuori rimasti affezionati». Paura e codardia: ella stessa pronunzia la sentenza tremenda: ma conoscersi, avere coscienza dei proprii vizii, non è il primo, il più gran passo sulla via dell'emenda? Sì, quando la passione non è più forte; e le passioni della Regina sono tutte più forti: l'orgoglio e la superbia prevalgono, il bisogno della vendetta è irresistibile, l'appetito del potere, la sete del dominio, la voluttà dell'intrigo, la vanità regale, il fanatismo feudale, l'odio contro la libertà dissipano i buoni propositi, i consigli della prudenza, le velleità di rinunzia. Dieci, cento, mille volte, nella previsione delle catastrofi, in mezzo alle rovine, assicura che tutto è finito per lei, che un convento l'aspetta, che senza la religione si darebbe la morte, che «aborre e detesta» il suo mestiere di Regina esercitato malamente, che vuole rinunziare a quel «cane di mestiere», che intende d'ora innanzi vivere da privata compiendo «gli atti di virtù di cui sono capace», che ha bisogno di farsi «dimenticare», che invidia chi «zappa la terra», che non chiede altro se non «una pensione, un giardino, qualche libro, i pennelli, le matite, un pianoforte», per vivere meditando e componendo le sue memorie, e che farà incidere sul portone della sua casa: «_Qui non si parla nè di monarchi, nè dì governi, nè di politica, e neanche delle notizie delle gazzette_»; ma tutte le volte, ed ogni volta più ostinatamente, riprende, vuole riprendere, muove cielo e terra per riprendere il suo posto, e giura che sosterrà la sua parte «finchè ci sarà olio nella lampada», che lotterà «finchè avrò una goccia di sangue nelle vene», che compirà il suo dovere «fino alla tomba»! Ella stessa dà la chiave di questa continua e stridente contraddizione. «Se fossi soltanto privata cittadina, mi piegherei facilmente.... ma Regina!... Parlerò, e il mondo intero mi restituirà la sua stima. Sono la figlia di Maria Teresa!...» Il male è che, essendo figlia di Maria Teresa, volendo levarsi all'altezza della madre, non le tocca i ginocchi. I suoi disegni politici sono un arruffio, un guazzabuglio di assurdità. Arriva ad avere una singolare visione: l'Italia fiorente, rifiorente, affidata ai posteri uniti e concordi in modo da rendere impossibile che «la bella contrada» sia soggiogata mai più: ma sono idee «inutili», riconosce, che non potranno effettuarsi «se non quando la nostra esistenza sarà dimenticata». Di tradurre in realtà la visione, di fare almeno qualche tentativo, di scernere se non altro la via per la quale ci si potrà arrivare, ella non possiede la capacità. Si contenta di pensare che se Gustavo di Svezia o Giuseppe II vivessero ancora, direbbe loro: «Osate, affezionatevi l'esercito, i baroni ricchi e potenti, lanciate ai popoli nobili manifesti, parlate il linguaggio dell'intelligenza, dell'amor proprio, guadagnatevi i cuori e procurate con ogni mezzo di divenire Re d'Italia....»; ma quei sovrani sono morti e sepolti, e non avendo «nè l'energia, nè la potenza, nè il carattere, nè la perseveranza, nè i mezzi loro, bisogna piegare sotto il giogo....» L'amore di sè soffre, assicura — e non è difficile crederla! — «nel fare questa confessione che mi è costata molte lagrime»; ma la sincerità non ritorna, come non tornano i lampi della verità; torna invece la presunzione, ricominciano le smanie, le manie, le insanie, l'impossibilità di accettare le lezioni della vita, di sottostare alle leggi della realtà. Da Palermo, dove si è rifugiata, giudica preferibile «entrare in un monastero piuttosto che vedermi insultata nei miei Stati»; ma poi l'idea di vivere da semplice privata in Germania le riesce intollerabile «per punto d'onore»; ed a Vienna, dove si ritrova «Regina di nome e cittadina di fatto», dove la resistenza alla Francia non è ostinata quanto ella vorrebbe, dove i parenti e la figlia non la trattano come pretende esser trattata, a Vienna rigurgitante di generali «da sputarci sopra», le è impossibile vivere; sennonchè, quando torna a Napoli e trova che le cose vanno ancora peggio di prima, riprende a dichiarare che preferirebbe «zappare la terra al mio paese, piuttosto che vivere qui....» Non si accorge di portare con sè, dovunque, le ragioni dello scontento. Si sdegna contro l'ambasciatore francese Alquier che la giudica affetta da «demenza convulsiva», ma ella stessa non confessa che si sente «ammalata di rabbia», in «uno stato violento», e che teme di morire — come infatti morrà, nove anni dopo — «d'un colpo apoplettico»? I freni morali non funzionano in lei: scatta al minimo impulso, avventa giudizii spaventevoli contro i suoi più prossimi, contro il Re che poi protesta di voler rispettare e di «non voler porre in ridicolo»; contro i suoi parenti austriaci, contro l'Imperatore che ha precipitato la monarchia d'Absburgo «nell'obbrobrio» e che ne ha assicurato «lo sprofondamento»; contro i parenti di Spagna, la cui Corte è un «_infâme tripot_», la cui Regina è una «_vieille catin_»; contro il Papa, che dice di rispettare come discendente di San Pietro, ma che «come sovrano è infame e merita il disprezzo universale»; contro gli Inglesi e i Russi, che ha portati al cielo quando si è alleata con loro, ma che, non appena la scontentano, diventano «infami, saccheggiatori, egoisti, vili, implacabili e perfidi nemici». III. L'improvviso mutamento d'opinione e l'alternarsi di atteggiamenti diametralmente opposti non è tanto sintomatico quanto nel caso di Napoleone Bonaparte. Giudica lui solo degno d'esser «ministro della guerra in Italia», perchè lui solo sa trasformare «gl'Italiani in soldati»; dice che «lui solo, _solo_, SOLO in tutta Europa sa governare, maneggiare, dirigere i popoli e gli affari», e gli vorrebbe quindi affidare il proprio regno durante un anno affinchè glielo restauri, e gli professa «vera stima» e «profonda ammirazione» e «sincera venerazione», e se il grand'uomo morisse, vorrebbe che lo riducessero in polvere, «per darne una cartina a ciascun sovrano e due a ciascuno dei loro ministri, e allora le cose andrebbero meglio»; ma poi, anzi contemporaneamente, egli è «il bastardo incestuoso, il mitragliatore, l'avvelenatore di Giaffa, quello dei prigionieri infermi precipitati nel Po, mussulmano in Egitto, cattolico a Parigi, scellerato dovunque....». L'accusa che gli rivolge con maggiore compiacimento è d'essere un «_parvenu_», un imperatore «di nuova fabbrica»; ma il peggio, ancora, è che, giudicandolo tale, gli si umilia, lei, la figlia di Maria Teresa! Quante volte ha dichiarato preferibile «perire piuttosto che disonorarsi», quante volte ha promesso al suo confidente ed a sè stessa di non voler «mendicare misericordia da nessuno»? Orbene: ella la mèndica dall'«arci-Imperatore», da «Bonaparte I»; gli scrive una lettera d'umile implorazione, si espone a riceverne una risposta ironica e minacciosa, leggendo la quale — «io, la figlia di Maria Teresa!» — per poco non crepa di rabbia. Ma la rabbia, l'umiliazione, la mortificazione non le impediscono di tornare a piatire: «L'Imperatore è tanto grande! Ha tanta gloria che potrebbe acquistarne un'altra, una vera, mostrandosi generoso, lasciandoci tranquilli a casa nostra, _sicuro che mai più_» — dopo tre impegni spezzati, e nello stesso punto di infrangere il terzo! — «ci lasceremo sedurre!... Non ho più fiducia in nessuno, e mi sottometterei al tiranno, se mi trattasse bene....» Ha giurato che «mai, _mai_, MAI» consentirà che il Re di Napoli si riduca alla condizione di tributario o prefetto del proprio regno: e, meno di tre mesi dopo, accatta per suo figlio il posto «di re o di prefetto....» E nel chiedere che l'ambasciatore interponga i suoi buoni ufficii per ottenerle questa elemosina dal padrone del mondo, avvilendosi fino ad offrirglisi in ostaggio, dimentica d'averlo chiamato «bestia feroce, animale ruggente, mostro morale, vendicativo, furente....» In verità, il «piccolo Côrso» non dovrebbe fare altro se non risponderle come rispondeva a lui stesso il granatiere della leggenda: «_Après vous, s'il en reste!_...» _28 maggio 1916._ L'Austria nei giudizii d'un suo alleato. Pietro Colletta, nel terzo Libro della sua classica _Storia_, narrando l'accortissima ritirata strategica compiuta nel 1798 da quella parte dell'esercito napolitano che obbediva al generale Damas, giudicò che la salvezza della legione fosse «frutto del dimostrato valore de' soldati e del duce. I quali andarono lodati di que' fatti; ma poche virtù fra molte sventure si cancellano presto dalla memoria degli uomini». Più d'un secolo doveva passare prima che la diretta testimonianza dello stesso duce rinverdisse quegli allori, e le _Memorie_ del conte di Damas, rimaste inedite nell'archivio della nobile famiglia, dovevano finire di pubblicarsi in sul divampare d'una nuova serie di guerre più sanguinose e tremende di quelle alle quali l'autore partecipò. Ma appunto per questa coincidenza il libro, che in altri tempi avrebbe interessato soltanto pochi studiosi, si raccomanda oggi ad un maggior numero di lettori ed ha pagine che parrebbero scritte per noi. I. Ruggero di Damas, discendente da una famiglia di prodi, ebbe da fanciullo una straordinaria vocazione per il mestiere dei suoi maggiori, «il più bel mestiere del mondo», ed entrò giovanetto nel Reggimento del Re; ma, per la pace che allora regnava nella sua patria, non potendo altrimenti sfogare l'umor bellicoso se non nei duelli, una bella mattina, letto un giornale che dava notizie della guerra combattuta in quell'anno 1787 tra Russi e Turchi, restò «asfissiato» dalla lettura, e senza porre tempo in mezzo, senza chieder licenza nè a parenti nè a superiori, partì per la Russia con pochi denari ottenuti in prestito e andò ad offrire la sua spada al principe Potemkine. Fu accettato, ed ebbe anche la fortuna d'incontrarsi col principe di Ligne, che conosceva da Parigi e che si trovava presso i Moscoviti come rappresentante dell'esercito austriaco loro alleato. Il volontario ed il generale si misero a studiare insieme la lingua russa, «ritenendo le parole _baionetta_ e _vittoria_ prima che _pane_ e _vino_», e la vittoria ben presto rimeritò il suo ardentissimo alunno, in un combattimento più navale che terrestre contro il vascello ammiraglio ottomano ancorato sulla foce del Dnieper: la nave fu presa d'assalto dalle scialuppe comandate dal Damas, che ebbe in premio la croce di San Giorgio ed una spada d'oro da Caterina II. Ferito più volte, promosso al comando di reggimenti di cavalleria e di fanteria — aveva soli 23 anni — distintosi negli assedii e nelle espugnazioni, segnatamente ad Ismail, dove si guadagnò una commenda, l'ardito colonnello dimenticò quella guerra per le notizie d'un'altra, non solamente più grossa, ma più importante agli occhi ed all'anima di un Francese: la guerra originata dalla Rivoluzione. Bisogna dir subito che, nato e cresciuto nella devozione al suo Re, offeso nelle opinioni, negli affetti e negli interessi dalle persecuzioni alle quali fu fatta segno la sua famiglia, Ruggero di Damas non corse alla frontiera di Francia per combattere con gli eserciti repubblicani contro lo straniero, bensì per combatterli nell'_Armée royale_, nell'esercito di emigrati capitanato dal Condé e alleato degli stranieri. Non fu dunque, questa volta, la bella guerra: fu la guerra civile, con tutti i suoi orrori — dei quali egli stesso ebbe piena coscienza, se chiamò «strazianti» le cause e i ricordi di quegli avvenimenti, se nessun godimento potè mai provare «che non fosse formato dalle memorie o dalla speranza della Francia, che non provenisse da lei od a lei non mi riportasse», se dichiarò che la sua mano si sarebbe irrigidita prima di dare a stranieri il consiglio di entrare in Francia «senza la certezza che aspirino soltanto ad una pace solida e che nessuna idea di conquista li governi», e se, cercando ovunque una nuova patria e non trovandola in nessun luogo, credendo di poter fuggire la lava dilagante dal vulcano francese via per il mondo, e sentendosi sempre raggiunto da quella, pensò e scrisse un giorno: «I piedi mi bruciano ovunque mi fermo; presto non mi resterà altro rifugio che nel cratere di Francia...». Il militare di professione, del resto, non poteva non ammirare l'impeto straordinario e gli sforzi sovrumani dei generali della Repubblica, «l'ardore che conduce alla conquista del mondo»; e se, da legittimista convinto e inconvertibile, egli condannò in Napoleone l'usurpatore del trono di San Luigi, fu compreso anche di tanta meraviglia per le grandi cose compite dal capitano immortale, da esclamare con simpatica ingenuità: «Perchè non è egli Borbone!...» Simpatica propriamente riesce la figura di questo singolarissimo campione della causa dei Re, il quale non si lascia intanto accecare dalla fede monarchica, ma critica lo stesso Re suo, pure servendolo, e, pur combattendo la Repubblica, domanda a sè stesso, considerata la nullità dei monarchi del suo tempo: «Perchè mai l'Europa dipende da cotesta genie? I regnanti attuali disgusterebbero per tutta la vita del principio monarchico!...» Con parola più mordace, attribuendo la fortuna politica del Bonaparte alla deficienza degli altri sovrani, dichiara che allora crederà al tramonto dell'astro napoleonico quando i troni saranno resi vacanti «da una _epizoozia_ di tutte le famiglie regnanti....» È vero, tuttavia, che il mestiere del Re «dev'essere divenuto molto duro, se un Luigi Bonaparte se ne stanca e lo smette...» Sebbene partigiano, Ruggero di Damas non ha peli sulla lingua. Il famoso manifesto del Brunswick, donde prende le mosse la reazione sulla quale egli fonda tutte le sue speranze, è da lui severamente criticato; e battendosi insieme col duca e con gli Austriaci durante la campagna di Francia che dagli effimeri successi di Longwy e di Verdun finisce a Valmy con la ritirata e la rotta, non risparmia i biasimi alla strategia del comandante supremo; e lodando l'esercito prussiano dove è da lodare, denunzia la barbarie di cui esso si macchia. «Come difendersi da un sentimento di pena e di terrore, vedendo cotesto esercito celebrare il suo primo passo nel territorio francese con la più arbitraria devastazione?...» Un colonnello è cancellato dai ruoli e due soldati sono impiccati per dare un esempio; «ma io non potevo supporre allora che, ad impedire il disordine, sarebbe stato necessario impiccare tutto l'esercito....» II. Un più profondo esame ed un più severo giudizio è quello del quale egli fa oggetto un'altra potenza coalizzata contro la Repubblica di Francia: l'Austria. Come stimarla capace di vincere, se a tutte le molle che il «giacobinismo» faceva scattare nei petti dei soldati repubblicani, essa non sapeva opporre altro che la «pedanteria»? Come credere al genio dell'idolo dei Viennesi, il Coburgo, dopo aver visto cotesto maresciallo, a capo di 15000 soldati austriaci, indietreggiare all'assedio di Giurgevo dinanzi a soli 4000 Turchi? Come credere all'ingegno dei generali di corte, dell'arciduca Giovanni, «adoperato a guisa di polverine del James all'agonia d'un infermo», od a quello dello stesso arciduca Carlo? «Chi si è condotto come costui, nelle circostanze in cui si è trovato, non ha pensato una sola idea giusta, non ha fatto nulla di raccomandabile, e se ha avuto qualche momento di fortuna, bisogna cercare fra coloro che lo circondano la testa che pensava per lui....» Sarebbe certamente stolto, avverte il Damas, negare il valore di alcuni generali austriaci; ma essi non possono adoperarlo come i francesi, perchè «il genio della loro nazione li rende incapaci di rinnovarsi: gli Austriaci resteranno sempre un esercito d'altri tempi, teorico, coraggioso, ma lento e testardo nei suoi sistemi: essi agiranno contro i nostri nipoti come agirono contro i nostri avoli, e per conseguenza saranno battuti da quelli come furono battuti da questi.... La lentezza di concezione e di esecuzione nei generali, l'asservimento alla pedanteria nei preparativi nell'azione, l'inerzia e la svogliatezza nei subalterni, l'apatia dopo i buoni successi come dopo i rovesci, sono altrettanti vizii ed impacci». E, per esempio, a Wattignies il Cleyrfait «giudicò più semplice lasciar proseguire la ritirata vergognosa, anche quando le circostanze non l'esigevano più, che di fare indietreggiare le truppe il cui movimento era già cominciato, e solo per apatia non diede nessun contrordine. Il successivo passaggio della Sambra fu così compiuto e la battaglia più importante si trovò perduta, mentre i Francesi si ritiravano in tutta fretta sulla loro destra. Simili fatti si crederebbero difficilmente da chi non ne fosse stato testimonio; ma io garantisco che quanti hanno servito con gli Austriaci ne avranno una collezione....» Altro esempio: l'inutilità della vittoria di Essling, dopo la quale — ma prima di Wagram! — i soldati di Napoleone trovano un argutissimo modo di scusare la disfatta del loro duce, del loro _papà_: «Il nostro papà non fa più altro che sciocchezze dacchè è in Austria: il contagio del paese gli si è attaccato....» Quando era al servizio di Caterina II, il Damas aveva visto i Russi rallegrarsi e godere all'annunzio delle disfatte degli Austriaci, come se fossero loro nemici, mentre erano alleati contro il Turco, nemico comune: questo sentimento che lo stupì profondamente, e che poteva sembrare propriamente iniquo, fu da lui compreso quando studiò da vicino la psicologia austriaca. «Gl'individui di cotesto esercito aggiungono ai loro difetti disgraziatamente troppo noti, una presunzione ed una sufficienza indefinibili; essi non possono andare d'accordo con nessun alleato, non apprezzano altro che i sussidii in denaro, e questo genere di concorso non serve se non a farli perseverare nella guerra senza portare rimedio ai loro errori. Tutte le battaglie che hanno sostenute in lega coi Russi hanno messo a giorno la poca cordialità e la poca simpatia di cui sono suscettibili, e questo esempio recente fa tremare per l'avvenire. Quasi tutti i trattati conclusi dalla Corte di Vienna da un secolo a noi hanno dimostrato la sua abilità nel gravar la mano sugli alleati, e la potenza che contrae con lei si trova egualmente oppressa sui campi di battaglia e nei gabinetti diplomatici....» Ma la presunzione e la prepotenza finiscono il giorno delle sconfitte: allora gli altezzosi sono in preda ad un abbattimento che fa accettare le paci «disastrose», le paci «vergognose». Nei lunghi soggiorni dell'autore a Vienna, durante le grandi crisi dell'Impero, egli non ode «un solo proponimento che dimostri indipendenza e coraggio. Da che cosa dipende dunque l'avvenire d'uno Stato non sostenuto nè dalla coscienza della propria forza, nè elettrizzato dall'amore della gloria e della patria?...» Per conseguenza: «degenerazione, imbastardimento di ogni idea di onore e di morale», ed anche una irrimediabile «mostruosità di debolezza», per la quale i governanti non sono capaci di prendere altri provvedimenti fuorchè quelli _in extremis_ e si sottopongono poscia al giogo «senza resistenza». L'acuto ed equo osservatore non nega le buone qualità alla gente semplice, del popolo minuto; ma il congegno sociale è così fatto, che «per mantenere l'animo in pace, in questa metropoli (Vienna), bisognerebbe non incontrare personaggi ufficiali. La loro vista turba per tutto il giorno, tanto sono rappresentativi della decadenza». Ed anche fuori del mondo in divisa, c'è qui in tutti i procedimenti, in tutte le usanze, in tutte le feste e i divertimenti, un velo teutonico che toglie grazia ad ogni cosa.... L'edifizio morale di questo paese rammenta i monumenti costruiti nei tempi di decadenza dell'arte.... Immaginate la dissipazione senza godimento, la leggerezza senza garbo, la sciocchezza senza contegno, la fatuità senza conquiste, e avrete la misura della disgraziata differenza che passa tra la gioventù di Vienna e quella di Parigi». Delle sciocchezze e delle goffaggini delle quali egli fu spettatore il Damas riferisce gustosi esempii. Quando Maria Luisa andò in Francia sposa di Napoleone, scortata dai generali francesi, due cittadini di Ens, obbedendo all'ordine di far luminaria, tirarono fuori, per economia, gli stessi trasparenti «di cui si erano serviti nei festeggiamenti prescritti in altre occasioni: si leggeva sull'uno _Vivat Laudon_, sull'altro _Vivat Coburg_, e le effigie di quei due generali» — i peggiori nemici dei Francesi — «prendevano parte a quell'infame e vergognoso baccano con un'espressione diametralmente opposta alle circostanze....» Il generale Bubna, pezzo grosso dell'esercito e della diplomazia, spedito a negoziare l'armistizio dopo Wagram, si vede offrire da Napoleone un anello del valore di ventimila fiorini, e senz'altro se lo passa al dito. «E che? In questo paese un generale va a conferire col nemico — tuttora nemico, poichè la pace non è per anco stipulata — e il nemico osa fargli un regalo, e il generale negoziatore lo accetta?...» In previsione di nuove ambascerie del Bubna, il Damas esclama: «Quest'altra volta egli tornerà indietro con una ricca tabacchiera, e poi all'ultimo viaggio riceverà un calcio nel sedere tempestato di diamanti....» III. La gravità di questa diagnosi dipende dal fatto che è compita da un uomo il quale non è già nemico dell'Austria, nè predisposto contro di lei; che è anzi suo amico ed alleato, che ha combattuto accanto ai suoi eserciti, che chiede un giorno di esservi ammesso, perchè vede in lei la maggior potenza impegnata contro l'aborrita Repubblica e capace di abbatterla. Il Damas vorrebbe ammirare, sarebbe felice se potesse ammirare l'Austria come la più fedele fautrice delle tradizioni che egli venera, e vorrebbe nascondere agli altri ed a sè stesso la verità cocente; ma la verità è più forte dell'interesse, e il suo sdegno contro la dappocaggine delle legittime dinastie fiaccate o travolte dal ciclone rivoluzionario si accentra sugli Absburgo. L'apparato imperiale dei sovrani apostolici, degli eredi di Carlo V, è imponentissimo e incute un senso di soggezione; «ma quando gli avvenimenti li forzano a togliersi da cotesto teatro d'illusioni e d'inganni, la scena sulla quale si rifugiano mortifica l'immaginazione e lascia che lo spettatore scorga in cotesti personaggi illustri altrettanti poveri istrioni di campagna....» Si potrebbe ancora spigolare dell'altro nei due grossi volumi di queste _Memorie_, se non fosse ora di rammentare che, oltre alla diagnosi della mentalità austriaca, esse offrono un altro grande interesse; perchè, come si disse in principio, il Damas servì anche nell'esercito napolitano e direttamente partecipò alla storia nostra nei primi anni del secolo decimonono. _6 settembre 1917._ Un condottiero francese a Napoli. Dopo gli allori còlti al servizio di Caterina II contro i Turchi, dopo la meno fortunata partecipazione alla guerra della prima Coalizione contro la Francia, l'avventuroso Ruggero di Damas, trovandosi di passaggio a Napoli per andare a riprendere servizio in Russia, apprese che anche il regno delle Due Sicilie stava per entrare nella gran guerra; e allora, all'idea di poter menare subito le mani, l'uomo di guerra scrisse a Guglielmo Acton, primo ministro di Ferdinando, per chiedere di servire nell'esercito napolitano. Poichè questo era posto in gran parte sotto il comando di generali stranieri, quali il principe di Assia Filippstadt, il principe di Wittenberg, il cavalier di Sassonia, il barone di Metch, il generale Bourcard — generalissimo era l'austriaco Mack, successore dello svizzero Salis e dell'ungherese Zehenter — il Damas poteva sperare che la sua domanda avrebbe ottenuto buon esito. Favorevoli gli furono, infatti, le disposizioni dell'Acton e del Re; ma il cavalier di Sassonia, concepito un sentimento di gelosia contro di lui, riuscì, per mezzo della propria amante, che era la principessa d'Assia, a montare Maria Carolina in modo da farla opporre alla nomina. Ne seguì un duello fra il Tedesco ed il Francese, finito con un colpo di spada che il primo diede al secondo; ma allora, e come se questo anticipato tributo di sangue avesse dimostrato la serietà dei propositi del Damas, gli ostacoli cessarono, e il fuoruscito francese, nonchè colonnello russo, divenne maresciallo di campo napolitano. I. Da quel giorno si può dire che Ruggero di Damas facesse di Napoli la sua seconda patria. Studiate le condizioni interne del regno e la sua situazione in Europa, egli formò sull'una e sulle altre i più sensati giudizii. Le Due Sicilie, di cui l'Acton era «il cattivo genio», potevano, grazie alla giacitura geografica, attenersi alla neutralità; «ma un governo può saviamente fondare e restringere le sue precauzioni su questo calcolo?» A parte che il cataclisma minacciava di coinvolgere tutti gli Stati italiani, come dimenticare che «lunghi secoli non spegneranno le pretese della Casa d'Austria su questa parte d'Europa?...» Prima della Rivoluzione di Francia, l'Austria, effettivamente, era stata la potenza da cui Napoli aveva più dovuto guardarsi; capovolti poi tutti i rapporti europei per effetto dell'invasione repubblicana e della coalizione formatasi per contrastarla, l'alleanza, o almeno la buona armonia con l'Austria diveniva necessaria; sennonchè, considerata la mentalità austriaca, l'accordo non poteva riuscire «utile e scevro di pericoli» senza «un esercito napolitano di cinquantamila uomini che garantisca la reciprocità dei vantaggi delle due potenze». Non si poteva dir meglio. E l'esercito era già costituito; disgraziatamente la divisa non bastava a formare i soldati, in un paese dove, per un lungo ordine di cause storiche, politiche, sociali, la milizia era considerata, a giudizio di Pietro Colletta, come «lo stato più basso della nazione». Il Damas fece del suo meglio per infondere lo spirito militare nelle sue truppe, ma la breve campagna, se cominciò col portare i Napolitani a Roma, finì con la sconfitta e la rotta — che il generale francese, a differenza di molti, di troppi altri, non addebita alla codardia dei soldati. È bello anzi vedere questo Francese, cavalleresco verso i repubblicani di Francia contro i quali combatte, esser giusto con i Napolitani che comanda, e lodarli contrariamente a quanto di male ne dissero coloro stessi che avrebbero dovuto esserne i naturali difensori e aiutatori, invece di renderne propriamente disperate le operazioni per effetto della cieca imprevidenza e della presunzione folle. Durante i preparativi, nè lo Stato maggiore nè il Genio pensarono di gettare un ponte sulla Melfa, che le truppe dovevano pure oltrepassare; giunta l'ora, i soldati dovettero traversarla a guado. Il Damas dispose due squadroni di cavalleria a monte del passaggio, per rompere un poco la corrente, e fece entrare nel fiume la fanteria per plotoni, a file serrate, con gli ufficiali in testa: quantunque la piena prodotta dalle recenti piogge investisse gli uomini fino al petto e ne travolgesse una gran parte, il passaggio fu compito «col massimo ordine». Per l'insipienza dei capi e per l'inclemenza della stagione quell'esercito improvvisato giunse a Roma con le armi arrugginite, le scarpe perdute, l'artiglieria dispersa, una parte dei muli morti, i carriaggi a cinque marce addietro: «la guerra dei Sette Anni non aveva altrettanto sdrucito gli eserciti allora in azione». Elementare prudenza sarebbe stato, dunque, ristorare, riordinare e rifornire le truppe prima di procedere oltre: invece esse ebbero l'ordine di avanzare immediatamente. Il Damas rigetta sulla cattiva disposizione dell'ordine di attacco la disfatta della sinistra, e narra con singolare efficacia la drammatica situazione in cui si trovò — «il momento più grave di tutta la mia vita» — quando, dopo il felice successo del combattimento di Civita Castellana, dove i Napolitani conquistarono le alture alla baionetta, e sul punto d'impegnare la battaglia che doveva ributtare i Francesi oltre il fiume, ricevette l'ordine, portante la data del 10 dicembre, di ritirarsi immediatamente dietro Roma in seguito allo scacco patito dal Mack, e di trovarsi il 12 a Velletri: ordine e notizie che, per un fatale ritardo, gli pervenivano il 13 a sera! Isolato dal grosso dell'esercito in rotta, a cinquanta miglia dal punto in cui avrebbe dovuto trovarsi fin dal giorno innanzi, senza la possibilità di far conoscere il ritardo del messaggero e di chiedere quindi altre istruzioni, il Damas si salvò e salvò il corpo d'esercito posto sotto il suo comando con la bellissima mossa di fianco sopra Orbetello, allora possessione del Re di Napoli. La marcia notturna con la quale egli la iniziò fu talmente accorta, che il comandante francese dichiarò di esserselo visto «sgusciare tra le mani come un pezzo di sapone», e del buon esito delle azioni compite durante la ritirata egli attribuì il merito ai suoi soldati; ma il merito fu anche suo, poichè quelli obbedienti ad altri capi meno valenti e meno accorti non si portarono bene. A Toscanella i suoi si mantennero saldissimi perchè egli seppe fare appello al sentimento dell'onore, dimostrando loro che la baldanza e la temerità dei Francesi era tutta fondata sul disprezzo che nutrivano contro i Napolitani. «Kellermann spiegò la sua colonna non appena il terreno glielo consentì; la mia artiglieria disordinò quello spiegamento; poi, non appena fu compito, il generale francese fece battere la carica e con le grida proprie alle truppe repubblicane si precipitò sulla mia linea; il fuoco della moschetteria cominciò, si protrasse a lungo molto nutrito, e i Napolitani diedero prova del miglior contegno.» Il corpo d'esercito fu così disimpegnato e condotto a salvamento dentro Orbetello — dove il Damas si fece curare una terribile ferita alla mascella riportata nel fitto dell'azione. Lodi non minori egli tributò ai suoi uomini quando, promosso luogotenente generale dopo la caduta della Repubblica Partenopea — durante la quale aveva raggiunto la Corte a Palermo e preparato un piano di difesa della Sicilia — gli fu dato l'incarico di riordinare le milizie del Regno e d'intraprendere la marcia attraverso la Toscana per dar mano agli Austriaci — i quali intanto negoziavano la pace per loro proprio conto, senza comprendervi gli alleati napolitani!... La presa di Siena, la strenua resistenza opposta ai Cisalpini del generale Pino e la salvezza di quella legione furono dovute, dice il Damas, «allo zelo ed alla buona volontà» delle truppe che egli comandava. Par quasi che egli voglia riversare su chi ne è meritevole la lode tributatagli dal Colletta nel riferire quei fatti — e tanto più dispiace che il Botta li abbia narrati come una serie di disastri. Più giusto è il Marulli quando osserva, non senza una punta d'ironia, che il Damas era «predestinato alle ritirate»; ma ancora più grande è la malinconica ironia dello stesso condottiero, quando scrive: «Io ho gran pratica delle nazioni sconfitte, e siccome non ero nato per questo, soffro crudelmente di tale regime. Se le disaccortezze, le goffaggini, le sciocchezze non avessero nessuna parte nelle disgrazie, farei di necessità virtù; ma veder sempre le vittime sacrificate dalle loro proprie buaggini rende impossibile la stessa pietà.» E questo egli non lo dice più a proposito delle sconfitte napolitane, ma delle austriache!... Della sua nobiltà d'animo è da addurre un'altra prova. Nelle trattative dell'armistizio che preannunziò la pace di Firenze, il comandante repubblicano — Gioacchino Murat — pretese che il Re di Napoli licenziasse il suo ministro Acton. Ma il Damas, quantunque avesse poca ragione di lodarsi di costui, ricusò di ascoltare ogni altra condizione finchè quella non fosse ritirata: «Rigettai formalmente un articolo che offendeva direttamente la persona del Re; osservai che la scelta dei ministri, depositarii della confidenza sovrana, era riservata ai monarchi, e che per nessun motivo un governo straniero poteva immischiarvisi. Murat non ne parlò più....» E l'Acton, per tutta dimostrazione di gratitudine, fece di lì a poco una tale scenata al Damas, che il generale, dopo avergli detto il fatto suo, presentò le dimissioni al Re tra il plauso di quanti — ed erano tanti, a Napoli! — non potevano tollerare lo sgoverno del ministro. «Lasciai Napoli sfigurata dalle sciagure prodotte dal suo ministro e tremante sotto il suo flagello oppressore. Augurai che il tempo riparatore mi mettesse un giorno in grado di rendere nuovi servigi ad un paese e ad un esercito che mi avevano sempre dimostrato confidenza ed usato benevolenza.» II. L'occasione si presentò tre anni dopo. Richiamato dai sovrani all'approssimarsi della nuova crisi, egli lasciò Vienna, dove si era ritirato, e giunse a Napoli il 5 gennaio 1804. Ebbe a sopportare nuove prove della nemicizia dell'Acton e passò nove mesi nel Regno da semplice spettatore; ma il 12 ottobre fu nominato ispettore generale dell'esercito. Non secondato come e quando occorreva nei suoi disegni di riordinamento, mentre l'Acton dava al Re false cifre delle truppe disponibili, non fu colpa del Damas se le Due Sicilie si trovarono impreparate al nuovo assalto francese. Russi ed Inglesi dovevano aiutarle; ma anche quegli alleati mandarono forze molto minori delle promesse; peggio ancora: aggravarono la mano su Napoli con le esorbitanti esigenze e le oppressive imposizioni — e al momento buono decisero di ritirarsi! Le loro esitazioni avevano disgustato il Damas, il quale aveva dato ragione ai suoi soldati, scontenti e disgustati degli ordini e dei contrordini e delle sofferenze a cui le marce e contromarce inutili li avevano esposti. Il rigetto della sua proposta di tentare la difensiva sul Volturno era stato definito dallo stesso generale russo Anrep «un'infamia»; e la fuga degli alleati portò al colmo lo sdegno del prode Francese. «Al loro arrivo, mi ero proposto di offrirli come modelli ai miei soldati poco agguerriti, ed eccomi invece ridotto a sperare che dimenticassero il vergognoso esempio!...» Disgraziatamente essi non lo dimenticarono a Campotenese, dove pure il Damas fece il possibile per salvare la situazione e si battè, a testimonianza dell'universale, con coraggio «da leone». Un centinaio di lettere inedite di Maria Carolina, raccolte in appendice alle _Memorie_, attestano la fiducia che, nonostante il rovescio, egli continuò a godere da parte della Corte: a Vienna, dove si ritirò ancora una volta, servì la Regina, per desiderio di lei, da consigliere e da informatore. Ma la gratitudine che egli le portò non gl'impedì di giudicarla secondo coscienza. Certo, non è da stupire se il Damas insiste spesso, segnatamente in principio, sulle buone qualità di Maria Carolina; ma poi comincia a distinguere, e la dice provveduta «più d'immaginazione che di carattere, più di bisogno d'agire che d'abitudine di lavorare», ed anche di «troppa diffidenza», di «troppa effervescenza» e di troppo poca «perseveranza». Riconoscendone l'ingegno, le attribuisce il genio degli «intrighi», ed osserva che ha agito nel modo più pregiudizievole alla sua reputazione ed al Regno. «La vanità, l'inconseguenza, la petulanza sconsiderata, l'ambiguità dei pensieri le hanno fatto perdere il Regno di Napoli. Gli stessi inconvenienti, difetti ed indomabili impulsi le fanno ora (nel 1812) perdere il governo della Sicilia.» Mai cotesta donna, «a cui nessuno può negare ciò che si chiama disgraziatamente spirito, ha avuto abbastanza giudizio da governare il suo cervello, le sue azioni e le sue stesse parole. Ha esasperato e doveva esasperare Napoleone; ha esasperato e doveva esasperare gl'Inglesi, e se il cielo le avesse accordato l'impero del mondo e mille anni di vita, lo avrebbe perduto a poco a poco senza che una sola volta una sciagura avesse esercitato tanto effetto su lei da fargliene scansare un'altra. È nata per imbrogliare, per ostacolare tutto ciò in cui si mescola, e morrà disgraziata, dopo aver fatto tanti disgraziati da una parte quanti ingrati dall'altra, con un cuore eccellente e le migliori intenzioni del mondo. Io sono per buona sorte esente dal rammarico di non aver potuto moderarla negli ultimi sei anni, perchè la ragione, la buona fede, la lealtà, l'amicizia non hanno avuto mai il minimo impero su lei. Chiunque contraria la sua folle vivacità comincia tosto a divenirle sospetto....» Anche nell'esilio, «quantunque spenta moralmente, fisicamente e politicamente», egli non dubita che «cerchi ancora d'intrigare». III. Il giudizio del Damas conferma dunque, in fondo, con qualche riserva e qualche concessione ammissibile, quello della storia, ed in un solo punto è pienamente favorevole alla Regina, alla donna: in quanto concerne i suoi costumi. Contrariamente all'opinione comune, il Damas dice che, se pure, dopo il matrimonio, Maria Carolina ebbe sempre qualche amante, «nessuno di costoro, fino a quando ella non fu più in età di procreare, ottenne da lei gli estremi favori, e nessuno godette mai dell'intera sua confidenza: ecco ciò che non si crederà, e di cui _ho la certezza_». È doveroso notare questa testimonianza, che farà molto piacere all'ultimo storico inglese della Regina. Nei due volumi su _Lord Nelson and Lady Hamilton_ e negli altri due intitolati _The Queen of Naples and Lord Nelson_, John Cordy Jefferson si è studiato di rivendicare la fama dell'Austriaca. Come donna, egli la giudica «supremamente buona»; politicamente, attribuisce a lei tutti i meriti che finora gli storici nostri avevano assegnati al Tanucci, e va fino a dire che, proponendo l'accordo degli staterelli italiani per far argine ai Francesi, la Regina absburghese «anticipò il grido garibaldino per l'unità d'Italia!...» Questa apologia della sovrana non sarebbe riuscita possibile se non fosse stata preceduta dalla riabilitazione della sua sviscerata amica Emma Lionna; ed il Jefferson, senza spingersi fino a paragonare l'ex-cortigiana londinese, come fece il Paget, a Giuditta ed a Giovanna d'Arco, tenta scagionarla dalla maggior parte delle accuse e di metterla nella miglior luce compatibile con le traversie della sua vita. Intimamente connesso a questi due tentativi doveva esser quello di cancellare la macchia che il sangue dei Napolitani del 1799 stampò sulla divisa, per l'innanzi immacolata, di Nelson. Secondo il Jefferson, la condotta dell'ammiraglio fu tutta ammirevole; la capitolazione stipulata dai Partenopei col Ruffo, luogotenente del Re, e controfirmata dai rappresentanti esteri, compreso l'inglese, fu «scandalosa» ed «infame», e Nelson, annullandola, non fu «minimamente influenzato dalla passione per lady Hamilton»: egli non fece altro che obbedire agli ordini impartitigli dal suo governo; esercitò anzi «una savia discrezione» e non commise «nessuna mancanza contro l'umanità» mandando il «traditore Caracciolo dinanzi alla corte marziale: i provvedimenti presi per recuperare Napoli furono «terribili», ma «non abbastanza severi»; è anche «ridicolo» insistere nell'osservare che Ferdinando avrebbe dovuto concedere un'amnistia generale; e se la San Felice addusse la gravidanza perchè ritardassero il suo supplizio, il pretesto non poteva stupire «venendo da una donna così bene provvista di amanti....» In poche parole: tutto quanto si disse in difesa delle vittime e contro il Re, la Regina, la Hamilton e Nelson, fu «menzogna», fu «velenosa invenzione dei libellisti liberali». Ruggero di Damas non era liberale; era, come abbiamo visto, nemico acerrimo della Rivoluzione di Francia, paladino dei Borboni di Francia e di Napoli, alleato degli Austriaci, dei Prussiani, dei Russi e degli Inglesi nella lotta contro la Repubblica e l'Impero. E Ruggero di Damas, testimonio oculare, esce dal sepolcro attestando che «Nelson aveva molto da fare per riscattare le sciagure da lui cagionate a Napoli perchè si dimenticassero quelle alle quali ha contribuito nella riconquista del Regno.... Egli aveva associata milady Hamilton agli onori del trionfo; l'ambizione di lei divenne rivale della gloria di lui, e la gloria ne andò di mezzo.... Tutto si ridusse comune tra loro: denaro, difetti, vanità, torti d'ogni specie. Nelson non era più altro che una caricatura di Rinaldo, schiavo d'una sciocca Armida senza pudore e senza magia....» _7 settembre 1917._ L'Adriatico e le Due Sicilie a Campoformio. La quistione adriatica, imperialmente risolta dalla Repubblica di Venezia nel corso di lunghi secoli contro Tedeschi e Slavi ed Ungheresi e Turchi, risorse quando Napoleone Bonaparte, da ardito e fortunato stratega trasformatosi in mercante di popoli, ordì l'infamia di Campoformio. Agonizzando la Serenissima, avviandosi i Francesi per la Lombardia ed Ancona a Roma ed al Levante, subentrando l'Austria in Istria, in Dalmazia e poi nella stessa Laguna, un altro Stato italiano, la monarchia delle Due Sicilie, vide prepararsi un assetto contrario ai suoi interessi, lesivo della libertà delle sue mosse, pericoloso alla sua stessa esistenza. Con la Repubblica francese, autrice di quelle novità, i rapporti della Corte borbonica erano da poco tornati pacifici. Fin dall'inizio della Rivoluzione, Ferdinando e Maria Carolina avevano concepito contro la Francia un sentimento di odio misto a paura, che la neutralità imposta loro dall'ammiraglio Latouche-Trouville con i cannoni puntati contro la città di Napoli aveva rinfocolato, e che era poi giunto al parossismo quando Luigi XVI e Maria Antonietta, stretti parenti dei Reali siciliani, avevano perduto il trono e la vita. Partecipando allora alla coalizione contro la Francia, le Due Sicilie avevano mandato truppe all'assedio di Tolone, forze navali alla impresa di Corsica e reggimenti di cavalleria alla guerra nella pianura lombarda; sennonchè erano poi costrette dalle strepitose vittorie del generale Bonaparte a sciogliersi dalla lega e a chiedere la pace separata, che il principe di Belmonte destramente negoziava ed otteneva, a patti non troppo onerosi, il 10 ottobre del 1796. I. Cessata con la firma di quel trattato la missione del Belmonte, la rappresentanza diplomatica siciliana presso la Repubblica era assunta dal commendatore Alvaro Ruffo di Scaletta. Mentre tra Francia ed Austria si decidevano le sorti d'Italia, il primo ministro di Ferdinando, Guglielmo Acton, scriveva al Ruffo: «Vostra Eccellenza è nella situazione la più importante e la più critica per poter rendere agli augusti sovrani ed alla sua patria i massimi servigi, da far epoca in questi regni (Napoli e Sicilia).... Lavori intanto per acquistarsi il credito e le confidenze ed opinione di quei governanti, di Barthélémy e Carnot specialmente, e renda la quiete con la sua negoziazione a questi regni, nonchè la sicurezza, da procurar loro con la cessione di barriere effettive....» Duplice era la garanzia che il governo siciliano mirava ad ottenere: una terrestre, l'altra marittima. Dalla parte di terra, costituiti in Repubblica Cispadana il Ducato di Modena e le Legazioni di Bologna e di Ferrara, stabilitisi i Francesi in Ancona, preparandosi la formazione della Cisalpina, avvicinandosi fatalmente il giorno della caduta del potere temporale del Papa, Napoli voleva premunirsi contro possibili e probabili minaccie, acquistare più sicure frontiere, partecipare alla divisione del patrimonio di San Pietro. Non si leggono senza interesse i curiosi particolari di questi antecedenti della quistione romana nel bellissimo libro dove Benedetto Maresca, raccoglitore espertissimo dei documenti serbati nel R. Archivio di Napoli, narrò ed illustrò la missione del Ruffo a Parigi: ma l'altra rivendicazione napolitana, le pratiche fatte per ottenere compensi anche dalla parte del mare dopo i mutamenti avvenuti e minacciati nell'Adriatico, fermano meglio l'attenzione del lettore e acquistano sapore di attualità, oggi che l'Italia attende a risolvere il problema del suo mare orientale. Durante le discussioni della pace con l'Austria, abbandonando al vinto e prostrato nemico gli Stati veneti come compenso della Lombardia strappatagli per costituirla in repubblica e farne un satellite della Francia, Napoleone Bonaparte aveva detto di voler riservare a questa nuova potenza italiana le isole Jonie, già della Serenissima. Se gliele avesse effettivamente procurate, il Côrso avrebbe compensato, benchè in troppo piccola parte, l'iniquo vantaggio accordato all'Austria con la cessione delle più sicure costiere adriatiche; ma, ripensandoci meglio, il prepotente maneggiatore di quella pace si pentì della buona intenzione. Già cominciava egli a volgere nella mente il disegno di fare dell'Italia, parte conquistandola, parte asservendola, il centro di un impero mediterraneo; aveva allora allora recuperato la Corsica che gli Inglesi erano stati costretti a sgombrare, aspettava di prender l'Elba e d'avanzare da Livorno in Toscana, era già disceso in Ancona, «finestra dell'Oriente»: le isole Jonie avrebbero prolungato la catena di quelle stazioni fino alla soglia del Levante. Il Direttorio, col quale l'accordo non era sempre perfetto, lo assecondava in questo proponimento: il Carnot osservava: «Corfù è l'isola che più importa riservarci»; il Reubell soggiungeva: «Cerigo ci sembra anch'essa un posto non meno importante». Uno dei negoziatori per conto dell'Austria era il marchese di Gallo, ambasciatore delle Due Sicilie a Vienna. Conoscendo le mire francesi sull'Elba e sui Presidii napolitani di Toscana — erano già stati chiesti, insieme col distretto di Trapani in Sicilia, come una delle condizioni più onerose della pace dell'anno innanzi, e il Belmonte aveva ottenuto che il Direttorio non vi insistesse — il Gallo offerse al generale Bonaparte la porzione napolitana dell'Elba ed i Presidii, in cambio della duplice garanzia necessaria alle Due Sicilie: un più saldo confine terrestre, possibilmente la Marca d'Ancona con le sue adiacenze, e uno stabilimento all'entrata dell'Adriatico, di fronte alla Terra d'Otranto ed al golfo di Taranto: le isole Jonie e gli scali Veneti della costa d'Albania. Ai primi di luglio del 1797, in Udine, il generale gli faceva sapere che, tralasciando per il momento la quistione della barriera terrestre, consentiva a trattare intorno alla cessione delle isole e degli scali contro l'Elba ed i Presidii. Sulle prime egli voleva escludere Corfù e tenerla per sè, ma poi disse che avrebbe dato a Napoli tutto l'arcipelago Jonio insieme col territorio di Prevesa e con gli altri distretti Veneziani d'Albania e della Morea, tranne le Bocche di Cattaro, che appartenendo alla Dalmazia sarebbero andate all'Austria. Poichè nel fare questa concessione il vincitore della guerra d'Italia dichiarava di avere ricevuto le plenipotenze necessarie alla stipulazione del trattato, e poichè il governo siciliano rispondeva accettando di scindere le due quistioni e di regolare per il momento soltanto quella marittima, si potrebbe credere che l'accordo fosse virtualmente raggiunto. Lo credettero a Napoli, dove già tre reggimenti di linea, con proporzionata artiglieria, si preparavano ad imbarcarsi per essere scortati dalla squadra navale fino alle isole ed agli scali da occupare.... II. La cosa andò invece in modo molto diverso: perchè, contrariamente alle affermazioni del generale, il Direttorio non solo non gli aveva accordato le plenipotenze, ma gli spediva certi memoriali composti da studiosi francesi per dimostrare che l'arcipelago Jonio era necessario alla loro nazione. Uno degli scrittori affermava che con quelle isole in mano si sarebbe impedito agli Austriaci di penetrare in Albania: argomento la cui forza è stata confermata dalla discesa degli Alleati a Corfù: ma che, addotto a quei tempi, poteva alquanto stupire, avendo allora la Francia qualche cosa di meglio da fare, per impedire la penetrazione austriaca in Albania, che occupare le isole Jonie: la Francia poteva non consegnarle il patrimonio veneto: i preliminari di Leoben e le trattative di Mombello e di Udine non erano ancora finiti a Campoformio!... In un altro di quei rapporti spediti dal Direttorio al Bonaparte si dimostravano i vantaggi che la Repubblica si sarebbe assicurati stabilendosi sull'ingresso dell'Adriatico; l'autore proponeva di dare le città dalmate, già venete, alla Turchia, per averne in cambio un'isola dell'Egeo come garanzia degli interessi francesi in quel mare: al regno delle Due Sicilie si poteva tutt'al più cedere, e sempre in cambio dell'Elba, «la piccola isola di Lissa, sulle cui coste i pescatori del Regno facevano una ricca pesca di sardine....» I fatti seguivano alle dimostrazioni: mentre duravano ancora i colloquii del Bonaparte col Gallo, quest'ultimo apprendeva che truppe repubblicane erano già sbarcate a Corfù, e che altre avrebbero occupato Cefalonia, Zante, Santa Maura. La notizia era grave, ma le speranze siciliane non ne andarono distrutte. Il generale Canclaux, rappresentante francese a Napoli, si era dimostrato piuttosto favorevole alle rivendicazioni del Governo presso il quale era accreditato; a Parigi l'ambasciatore siciliano aveva ottenuto qualche promessa dal signor di Talleyrand, ministro degli affari esteri, e da alcuni membri del Direttorio. Insisteva quindi il Ruffo perchè si venisse ad una conclusione, dimostrando come l'acquisto dell'arcipelago Jonio fosse «oggetto incontrastabile d'infinito ed essenziale interesse per noi», se si voleva evitare il danno che sarebbe derivato al Regno «per la posizione e vicinanza di altre potenti nazioni»: con i Francesi in Lombardia e nelle Marche, con gli Austriaci a Venezia, in Istria e in Dalmazia, egli vedeva «le barriere generali d'Italia aperte a nazioni potenti». Ma quando gli affidamenti dovevano tradursi in fatti, cominciarono a spuntare le difficoltà. Il Talleyrand giudicava la Corte napolitana immeritevole di vantaggi per la sua condotta segretamente ostile alla Repubblica; e invano il Ruffo protestava contro l'accusa, e lo sfidava a provarla; e invano lo stesso ambasciatore francese a Napoli, il Canclaux, la dichiarava infondata: il Talleyrand negava fede al suo proprio inviato. E se il marchese di Gallo, da Udine, scriveva al Ruffo per esortarlo a sollecitare la pratica a Parigi presso il Direttorio, nulla potendosi ottenere dal Bonaparte, i Direttori rispondevano al Ruffo che bisognava, al contrario, trattare in Italia col generale, solo arbitro della situazione. E se l'ambasciatore tentava di tornare alla carica, nè i Direttori nè il ministro lo ricevevano; e se presentava una nota scritta, lo lasciavano senza risposta. Un giorno il Talleyrand aveva dichiarato non essere il caso di parlare dei compensi da assegnare al regno di Napoli mentre gli stessi negoziati della pace tra la Francia e l'Austria stavano per fallire; ma il giorno che le trattative austro-francesi arrivavano in porto tutta l'eredità veneta andava spartita fra i due contendenti: il boccone più grosso toccava all'Imperatore, la Repubblica tratteneva per sè le isole e gli scali. III. Neanche a questa notizia il Governo napolitano dispera. Al marchese di Gallo, che aveva insistito perchè la cessione alle Due Sicilie fosse stipulata nello stesso trattato di Campoformio, Napoleone Bonaparte aveva risposto che il cambio dell'Elba con le isole e gli stabilimenti veneti sì sarebbe concluso a parte, e che egli stesso, tornando in Francia, avrebbe parlato col Direttorio in favore di Napoli. Anche il suo capo di stato maggiore, il generale Berthier, partendo per Parigi col testo del trattato, prometteva al Gallo che avrebbe raccomandato le domande siciliane. Ma il Talleyrand, a Parigi, dove il Ruffo riprende a fare del suo meglio per ottenere quei compensi, risponde che la cosa non è più possibile, ora che le condizioni della pace, divulgate in Francia, hanno deluso il paese per la scarsezza dei vantaggi conseguiti. Menzogna, perchè la pace è accolta con grande e universale esultanza; ma tutte le insistenze sono vane. Invano il Ruffo dimostra che l'acquisto è un pericolo per la Repubblica, non potendo essa mantenerlo in caso di guerra marittima. L'ambasciatore napolitano è buon profeta: una delle ragioni che getteranno lo Zar Paolo I nella coalizione contro la Francia sarà appunto il vantaggio da costei assicuratosi con l'occupazione delle isole, e la flotta russo-turca riprenderà fra poco Cerigo, Zante, Cefalonia, e stringerà d'assedio Corfù, mentre Alì pascià farà trucidare le guarnigioni francesi di Prevesa e di Butrinto.... Ma il signor di Talleyrand sorride quando Alvaro Ruffo soggiunge che, nell'interesse europeo, e della stessa Francia, conviene affidare quella parte del patrimonio veneziano a una potenza italiana e neutrale come le Due Sicilie. Ed è vano tentare di rivolgersi ancora al Bonaparte: più volte il Talleyrand aveva assicurato che, pur essendo personalmente favorevole alla cessione, non poteva far nulla senza il consentimento del generale: ora dichiara che, se anche il generale dirà di sì, egli, ministro, replicherà di no.... Un'ultima speranza anima ancora il Ruffo. Non solamente egli spera, ma nutre fiducia che la stessa Austria possa e debba appoggiare le richieste siciliane. Le due Corti, strettamente imparentate, seguono entrambe con la stessa rigidità i principii della politica conservatrice, ed il Regno è stato e sarà sempre dalla parte dell'Impero: non potrà ottenere in premio che l'Impero favorisca le sue aspirazioni? E ad Udine, infatti, quando il futuro Console e padrone del mondo aveva la prima volta manifestato l'intenzione di tenere per sè le isole venete e gli scali albanesi, il Cobenzl, altro rappresentante austriaco, glieli aveva negati, chiedendo che andassero invece al Re di Napoli. In due tempestose sedute quel dissidio aveva minacciato di far naufragare la pace; ma poi, contenta della parte ottenuta, l'Austria aveva abbandonato la causa siciliana e si era piegata a lasciare sul passo dell'Adriatico la potenza rivale. Nonostante questo precedente il Ruffo fa ancora assegnamento sull'appoggio austriaco. Egli è persuaso che sia interesse del Gabinetto viennese togliere quei possedimenti alla Francia, perchè l'acquisto dell'Istria e della Dalmazia non garentirà alla monarchia d'Absburgo il dominio dell'Adriatico se la Francia resterà padrona di sbarrarle la via, da Ancona dove è insediata, alle isole Jonie anch'esse già occupate. «Senza il possesso delle isole», scrive, «il resto è solo apparenza speciosa ed inganno». E ancora: «La Corte di Vienna deve considerare che la Francia acquista col porto d'Ancona, possedendo già le isole di Levante, un dominio fatale in quel mare, a danno evidente della Dalmazia, dell'Istria e di Venezia stessa. Il concorso efficace dell'Imperatore in questo grande affare è indispensabile ed è l'àncora della mia speranza....» IV. Ma a quell'àncora egli si afferrò invano. Se già a Campoformio l'Austria aveva finito col lasciar vincere la partita alla Francia, non era più credibile che avrebbe poi rotto il trattato e ricominciata la guerra per i begli occhi del Re di Napoli. E il Ruffo ci rimise il fiato e l'inchiostro. È vero tuttavia che quelle pratiche sarebbero altrimenti riuscite, se un altro degli argomenti che il solerte ambasciatore aveva ripetuti fino alla sazietà fosse stato tenuto da conto. Nella stessa nota dove aveva suggerito la prima volta di richiedere l'appoggio e l'assistenza dell'Imperatore, il Ruffo aveva soggiunto che «lo sviluppo preparato di tutte le nostre più straordinarie forze è una necessità assoluta alla nostra sicurezza». Poi aveva insistito: «Le misure di forza prese in tempo e portate fino al maggior grado di possibilità sono le vere basi su cui è indispensabile d'appoggiare la nostra sicurezza....» E poi ancora: «La salvezza in queste deplorabili circostanze non ha altro possibile appoggio che la forza....» E poi ancora: «Purtroppo vedo realizzarsi il mio timore ed il bisogno delle misure estreme....» E poi ancora: «Una energia straordinaria, dirò anche eccessiva, è necessaria per salvarci....» Quasi in ogni suo dispaccio Alvaro Ruffo tornava su questa necessità. Era la vera, la sola àncora della salvezza. Perchè mai, l'anno innanzi, il principe di Belmonte aveva ottenuto che la Francia vittoriosa rinunziasse alle più gravose pretese, se non per la dimostrazione di forza fatta dal Regno con i vascelli e i soldati mandati a Tolone ed in Corsica, con i reggimenti del principe di Cutò schierati in Lombardia? «Sapete che hanno quattro eccellenti reggimenti di cavalleria che mi hanno cagionato molto male», aveva confessato Napoleone Bonaparte al Miot, ministro di Francia a Firenze, «e dei quali mi preme sbarazzarmi al più presto possibile?...» Dopo quella prova, il generale non si sentiva di eseguire le istruzioni del Direttorio, il quale presumeva di poter continuare la guerra a fondo tanto contro l'Austria quanto contro le Due Sicilie. Per marciare su Napoli, il vincitore di Arcole e di Rivoli non chiedeva meno di altri 24000 soldati e 3500 cavalli, che il Direttorio non poteva dargli; ed anche per combattere contro la sola Austria, il giovane condottiero sentiva la necessità di liberarsi il fianco dalla minaccia napolitana: «La pace con Napoli è di assoluta necessità!». Alvaro Ruffo sapeva dunque ciò che diceva quando ripeteva instancabilmente il consiglio di armare. E questo è l'insegnamento che scaturisce dall'episodio delle velleità di partecipazione all'equilibrio adriatico nutrite più d'un secolo addietro dalle Due Sicilie. La politica estera del governo borbonico non fu sempre cieca come l'interna: in quella crisi del 1797 esso comprese che il Regno, massimo potentato d'Italia, doveva ottenere le sue garanzie ed appagare le sue aspirazioni. Posto tra la Francia nemica e l'Austria amica, si affidò all'una ed all'altra per far valere il suo diritto: entrambe gli diedero ragione a parole e con belle promesse: nessuna le mantenne. Morale della favola: _diritto_ è nome astratto che solo la forza può tradurre in concreto. _29 marzo 1916._ Italia e Grecia nelle lettere di Giorgio Byron. Presentata da una breve prefazione di Giorgio Clemenceau e curata da Giovanni Delachaume, è apparsa or ora a Parigi la versione francese di una parte dell'epistolario di Lord Byron. Bene è che queste lettere siano, grazie alla nuova veste, accessibili anche al gran pubblico che ignora la lingua nella quale furono composte, perchè la figura dell'autore vi si rivela con quella singolare evidenza che Ippolito Taine aveva già avvertita. «Il suo diario, il suo epistolario, tutta la sua prosa involontaria», scriveva del cantore di _Childe Harold_ lo studioso della _Storia della letteratura inglese_, «è come fremente di spirito, di collera, d'entusiasmo; il grido della sensazione vibra nelle minime parole; dopo il Saint-Simon non si erano più viste confidenze più vive. Tutti gli stili sembrano opachi e tutte le anime sembrano inerti a paragone del suo stile e dell'anima sua». Non s'intende, in verità, da quale criterio il Delachaume sia stato guidato nello scegliere le centosessantacinque lettere di questa raccolta fra le molte centinaia comprese nella corrispondenza epistolare del poeta; certo, le presenti sono molto significative; ma altre anche più notevoli erano degne d'essere tradotte. Comunque, la buona intelligenza del testo, l'eleganza della versione e la molta conoscenza della biografia byroniana meriterebbero ampie lodi a questa fatica, se non vi si dovesse lamentare una poco perdonabile ignoranza delle cose nostre. Come si sa, e come questo volume apprende a chi non ne avesse notizia, il Byron fu conoscitore amantissimo della lingua, della letteratura e della vita italiana; in Dante, nel Tasso, in molti altri temi dell'arte e della storia nostra cercò e trovò l'ispirazione; alla traduzione del _Morgante maggiore_, «la miglior cosa ch'io abbia mai fatta», si accinse con gran fervore, «per imporre silenzio agli Arlecchini d'Inghilterra» che lo accusavano d'irriverenza in materia di religione, dimostrando loro, col poema del Pulci, «ciò che era permesso in un paese cattolico ed in una età bigotta». Orbene: il _Morgante maggiore_, per opera del Delachaume, muta sesso e diventa _La Morgante maggiore_.... Ancora: scrivendo un giorno al suo editore Murray, Giorgio Byron espresse l'opinione che il Ricciardetto «si sarebbe dovuto tradurre letteralmente, o non tradurre del tutto»: e il Delachaume annota: «_Ricciardetto_, poema cavalleresco in 30 canti di Fonteguerri....» Poniamo che questo sia uno svarione tipografico; c'è dell'altro. Il Byron, innamorato dell'idioma gentile, «soave latino bastardo che si strugge come baci in bocca femminea, che fluisce come se si dovesse scriverlo sopra serica stoffa, con sillabe dalle quali traspira tutta la dolcezza meridionale, con vocali carezzose, scorrenti e fuse così bene che neanche un solo accento riesce stridente», il Byron, dunque, con tanto amore per la lingua nostra, adopera spessissimo, in queste sue lettere familiari, frasi e parole italiane che il Delachaume lascia accortamente intatte; soltanto, quando vuole riferire ai lettori francesi il significato di «seccatura», spiega: «_Seccatura_ signifie sécheresse, stérilité....» I. Fatte queste osservazioni al traduttore, qualche altra è da muovere al presentatore dell'elegante volume. Nella prima pagina del quale il Clemenceau parla del «romanticismo importuno che vela l'ardente sincerità della vita del poeta». E certo il romanticismo del Byron può essere giudicato importuno ora che quello stato d'animo è superato, e che per certi aspetti riesce anche incomprensibile; ma dire che esso menoma la «sincerità» dello scrittore e dell'uomo non pare plausibile, quando di quell'arte e di quella vita fu anzi il segno predominante e l'essenziale carattere. Molte prove si potrebbero addurne, se oggi che il mondo è tinto di sanguigno, e che il nostro paese si trova impegnato in tanta guerra, non convenisse restringersi ad una sola: quella che non distoglierà la nostra attenzione dalla grande tragedia europea nè dalla causa nazionale italiana, che anzi ad entrambe si riferisce. Perchè, infatti, tra gli altri atteggiamenti di quel romanticismo del quale il Clemenceau lamenta l'importunità, ve ne fu anche uno politico, e riuscì tanto opportuno allora, che è ancora oggi opportunissimo, avendo i romantici dato l'esempio della ribellione non solamente alla tirannia dei retori classici, ma anche a quella dei despotici reggitori degli Stati, per propugnare la libertà dei popoli e l'indipendenza delle nazioni. I problemi allora posti, e più tardi parzialmente risolti, aspettano dal presente regolamento di conti una soluzione più radicale, ed il Byron, italofilo ed austrofobo quando la patria nostra era una semplice espressione geografica, significò questi suoi sentimenti con argomenti degnissimi d'essere ai nostri giorni riletti e meditati. Afferma il Clemenceau che se Lord Byron non amò i Francesi, «non si può dire che avesse maggior simpatia per gli Italiani». Nella prefazione di un volume dove si riferisce la voce secondo la quale il poeta avrebbe, come i Dogi veneziani, celebrato le sue nozze con l'onda adriatica, l'affermazione riesce alquanto stupefacente. Dobbiamo proprio citare tutte le pagine nelle quali lo scrittore inglese ci significa il suo favore? Tralasciamo i giudizii sulle città italiane, su Milano «impressionante», su Venezia che è stata, dopo l'Oriente, «la più verde isola della mia immaginazione» e dove vorrebbe morire, su Roma la Meravigliosa», che vince «la Grecia, Costantinopoli, tutto, tutto quanto, almeno, ho visto finora». Si può, infatti, ammirare un paese senza stimarne gli abitanti — distinzione che il Byron farà in un altro viaggio. Lasciamo anche da parte le lodi tributate all'Alfieri, al Pindemonte, al Foscolo, ad altri grandi Italiani del suo tempo, per i quali potrebbe aver fatto altrettante eccezioni. Ma al Moore, che lo invita in Francia, dichiara: «Mi piacerebbe molto prendere la mia parte del vostro _champagne_ e del vostro _laffitte_, ma sono troppo italiano per Parigi», e soggiunge di lì a poco: «Tutti i miei piaceri e tutti i miei tormenti sono italiani.... Ho vissuto nell'intimità degl'Italiani, sono stato testimonio delle loro speranze, dei loro timori, delle loro passioni; le ho condivise: _pars magna fui_....» Si potrebbe aggiungere dell'altro: basteranno per tutte le quattro righe della lettera del 28 settembre 1820 al Murray: «Gl'imbecilli che scrivono sull'Italia mi costringono a dar loro una clamorosa smentita. Parlano degli assassinii; ma che cosa è l'assassinio, se non l'origine del duello ed una _giustizia selvaggia_, come Bacone lo definisce? È la fonte del punto d'onore moderno, là dove le leggi non possono o _non vogliono_ colpire....». Ecco dunque: nella sua simpatia per la nostra gente il poeta arrivava a giustificare ciò che altri, non senza qualche ragione, le rimproverava: la frequenza dei delitti di sangue e la facilità a farsi giustizia da sè!... Agli occhi degli uomini nordici, nati e cresciuti nella concezione e nella disciplina protestante, il cattolicismo dei nostri paesi suole anche riuscire antipatico: e il Byron dichiara invece al suo amico Hoppner, da Ravenna, di voler educare nella religione cattolica la figliuoletta per la quale ha trovato nella nostra lingua il nome di Allegra. Vero è che talvolta egli si lasciò sfuggire qualche nota di biasimo sulla «rilassatezza» regnante nei costumi italiani a quei tempi; ma, prima di tutto, l'autore del _Don Giovanni_ perdette il diritto di condannarla, dal momento che se ne giovò — e riconobbe del resto egli stesso d'averne perduto il diritto —; in secondo luogo, anche avvertendo la differenza tra la «morale meridionale» e l'anglo-sassone, egli trovò che se gl'Italiani erano più «appassionati» — e voleva dire, e disse in un'altra occasione, più «incontinenti» — degl'Inglesi, attribuì a costoro meno delicatezza e meno «pudore». Ma questo fu ancora più bello e più degno, da parte sua, e questo merita d'essere oggi ripetuto: che dell'Italia egli compianse le sciagure e proclamò i diritti e fece sue le ragioni. II. Nato nella più alta aristocrazia, orgoglioso del suo nome e del suo titolo, Lord Byron si venne sottraendo a tutte le concezioni tradizionali nella sua casta e nel suo paese. «Ho semplificato la mia politica», scrive nel 1813: «essa consiste nel detestare a morte tutti i governi esistenti». Ammiratore, in un primo tempo, di Napoleone e di Murat, definisce «trattato di pace e di tirannia» quello che chiude nel 1814, col trionfo della Coalizione, le guerre della Rivoluzione e dell'Impero. «Il popolo lombardo-veneto», scrive nel 1818 al Moore, «è forse il più oppresso d'Europa». Nella primavera del 1820, al nuovo fremito di libertà che corre per la Penisola, narra al Murray, dalla commossa Ravenna: «Gli affari spagnuoli e francesi hanno messo gl'Italiani in fermento: troppo a lungo essi sono stati calpestati. Riescirà uno spettacolo triste ai vostri squisiti viaggiatori» — è superfluo avvertire l'ironica intonazione di queste parole — «ma non per chi risiede nel paese e ne desidera naturalmente il risorgimento. Io resterò, se i cittadini me lo consentiranno, per vedere ciò che avverrà, e forse per fare un giro con loro in caso di bisogno, come Dugald Dalgetty» — il soldato di ventura di Walter Scott — «perchè lo spettacolo degli Italiani ricaccianti nelle loro tane i barbari d'ogni paese sarà il momento più interessante della mia vita. Ho vissuto abbastanza fra loro da sentirmi affezionato a questa nazione più che ad ogni altra, ma» — la riserva fu sciaguratamente vera allora e per qualche tempo ancora — «ma difettano d'unione e di direzione, e dubito che riescano. Tuttavia è probabile che facciano la prova, e se la faranno sarà per una buona causa. Nessun Italiano può odiare un Austriaco quanto l'odio io stesso: la razza austriaca mi pare la più detestabile che si trovi sotto la cappa del cielo, dopo la inglese....» Non accade qui fermarsi sulle ragioni che fecero il Byron nemico dei suoi proprii connazionali, nè distinguere per quanta parte il suo odio contro l'Inghilterra fosse sincero e giustificato, e per quant'altra ostentato e mentito: preme ora vedere con quali veementi parole e con quanto animosi proponimenti egli parla della nostra causa durante la crisi del 1820-21. «Ci batteremo un poco», scrive al Murray da Ravenna il 31 agosto del 1820, «nel mese entrante, se gli Unni non traverseranno il Po, ed anche se lo traverseranno. Non posso dire di più per il momento.... Una volta che si sarà cominciato, ci si batterà da selvaggi, siatene certo. Il coraggio proviene nel Francese dalla vanità, nel Tedesco dalla flemma, nel Turco dal fanatismo e dall'oppio, nello Spagnuolo dall'alterigia, nell'Inglese dalla freddezza, nell'Austriaco dalla testardaggine, nel Russo dall'insensibilità, ma nell'Italiano dalla collera: vedrete quindi che non risparmieranno nulla....» Il 21 febbraio 1821, alla notizia dell'avanzata austriaca, scrive al Murray: «I barbari marciano su Napoli, e se perderanno una sola battaglia tutta l'Italia insorgerà. Alla prima loro disfatta si ripeterà ciò che avvenne in Ispagna. Aperte, le lettere? Certo, che sono aperte: ed è questa appunto la ragione per la quale io spiattello sempre la mia opinione su coteste canaglie di Tedeschi ed Austriaci: non c'è Italiano che li odii al pari di me, e tutto quanto potrò fare per liberare l'Italia e la terra intera dalla loro infame oppressione, sarà fatto con amore (in italiano nel testo)». Il 3 aprile, disanimato dalle cattive notizie, dichiara al console Hoppner: «Non parlo di politica, perchè quest'argomento mi sembra disperato finchè si consentirà a coteste canaglie di tiranneggiare i popoli e di privarli dell'indipendenza». Il 26 dello stesso mese confessa allo Shelley che «quest'ultima disfatta degli Italiani mi ha totalmente deluso per molte ragioni generali e private». Le ragioni generali consistettero nel suo fervore per la libertà, nella sete di giustizia, nella passione per tutte le nobili cause; le ragioni private furono il legame contratto con la Guiccioli, l'amicizia che lo stringeva ai parenti di lei e ad altre famiglie italiane; ma la delusione e la sfiducia che lo invadono hanno una causa più profonda: dipendono dallo stesso suo temperamento che dà subite ed alte vampe di entusiasmo troppo rapidamente ridotto in cenere, che lo rende incapace di proporzionare gli atti agli scopi ed i giudizii ai fatti, e che gli dètta sentenze scettiche e sarcasmi di discutibile gusto. Ecco: i moti italiani sono falliti a Napoli, a Palermo, in Piemonte, e la reazione trionfa: un altro che non fosse come lui tanto pronto alle speranze e alle disperazioni, troverebbe nello stesso abbattimento nuova forza e nuova fede: egli scrive lì per lì al Moore: «È impossibile che siate stato più disingannato di me, ed anche tanto ingannato», e soggiunge una volgarità che sarebbe imperdonabile, se nella stessa lettera non avesse cominciato con l'affermare che «nè il tempo nè le circostanze muteranno mai nè il tono delle mie parole nè i miei sentimenti d'indignazione contro la tirannide trionfante»; se non avesse scritto altrove, nelle pagine del _Diario_: «Si dice che i Barbari d'Austria stanno per venire. Lupi! Cani d'inferno! Speriamo ancora di poter vedere le loro ossa accatastate!...», se non avesse dichiarato: «Bello morire per l'indipendenza italiana!» e se non avesse aggiunto i fatti alle parole, aderendo alla Carboneria, armando del suo fanti e cavalieri, animando i timidi e affrontando egli stesso la sua parte di pericoli. III. Scoccata di lì a poco l'ora della resurrezione ellenica, egli si dà tutto a questa nuova causa. «La Grecia è stata sempre per me ciò che dev'essere per quanti hanno sentimento e cultura: la terra promessa del valore, delle arti e della libertà: il tempo che passai in gioventù a viaggiare tra le sue rovine non ha per nulla scemato l'affezione che porto alla patria degli eroi.» Durante il primo viaggio, a dire il vero, egli aveva dato un giudizio un poco diverso. «Amo i Greci», aveva scritto al Drury nel maggio del 1810: «sono ammirevoli furfanti — rascals nel testo — con tutti i vizii dei Turchi, e senza il loro coraggio....» Nondimeno, egli corre a patrocinare ardentemente la loro causa. Il 7 luglio 1823 annunzia che porterà seco laggiù, in denaro e lettere di credito, da otto a novemila sterline; cinque mesi dopo ha già largito al governo greco duecentomila piastre, «senza contare i doni complementari alle vedove, agli orfani dei rifugiati ed ai vagabondi d'ogni sorta»; e intanto ha ordinato al suo banchiere di anticipargli le rendite del 1824, di vendere anche la casa di Rochdale per poter profondere altre somme nell'insurrezione e nella guerra, e reclama a gran voce i diritti d'autore sul _Werner_ perchè, se anche sono poca cosa, con trecento sterline potrò mantenere cento uomini armati durante tre mesi». Quando ode che i Greci non si battono, o che si battono male, che «accettano i fucili, ma gettano via le baionette, e sono molto indisciplinati», si raffredda; ma poi riprende a dare senza «rincrescimento» il suo denaro, apprendendo che ricominciano a combattere. E dà qualche cosa di più che il denaro, spende tutta l'attività del corpo e dello spirito, si accinge ad offrire la vita. La bellezza della causa affascina l'anima sua di poeta, il risorgimento dell'ellenismo gli pare davvero capace di rigenerare l'umanità. Nè la poesia lo ha mai appagato come semplice sentimento, come pura forma: si è anzi dato a comporre versi in mancanza di meglio, giudicando che la gloria poetica non vale la pena di essere ambita. «Che cosa è un poeta? Che cosa vale? Che fa?... È un parolaio....» Andando a morire per la Grecia, egli traduce dunque ancora una volta l'intenzione in azione, aggiunge l'esempio alla predicazione; ma non sarebbe quello che è, amante dei contrasti, ricercatore delle antitesi attorno a sè e dentro di sè, a volta a volta e spesso ad un tempo apatico e appassionato, misantropo e caritatevole, idealista e cinico, ingenuo ed affettato, se anche durante questa partita suprema, in cui la posta è la sua stessa esistenza, lo scetticismo e l'ironia non gli prendessero la mano. «Vi raccomando ancora una volta di impinguare la mia cassaforte ed i miei crediti, cavando il miglior partito possibile da tutti i mezzi legali che sono in mio potere; perchè, insomma, val meglio giocare alle nazioni che scommettere alle corse....» Conviene soggiungere che anche un motivo esteriore e concreto lo spinge allo scetticismo: la poca virtù, appunto, della quale la Grecia dà prova. I figli di lei sono in preda a dissensi che egli si propone di sedare e comporre, sapendo purtroppo che «nè l'una cosa nè l'altra è agevole....» Da Cefalonia scrive direttamente ai governanti: «Sono pervenute fino a noi voci di nuove contese: che dico? di guerra civile! Auguro con tutto il cuore che siano false od esagerate, perchè non riesco ad immaginare più grave calamità....» Sciaguratamente le voci sono vere. «Le ultime notizie ci apprendono che non vi sono soltanto dissensi in Morea, ma che la guerra civile vi regna.... Il colonnello Napier vi narrerà il recente e specialissimo intervento degli Dei in favore degli Elleni, che sembra non abbiano nè in terra nè in cielo nemico più temibile della loro discordia intestina.... Se riuscirò soltanto a riconciliare i due partiti (e muovo cielo e terra a questo scopo) sarà molto; altrimenti dovremo percorrere la Morea con i Greci dell'ovest, che sono i più coraggiosi e forti, e tentare l'effetto di consigli _fisici_ se continueranno a respingere la persuasione morale.» Queste parole fanno anche oggi pensare. In un'altra lettera al principe Maurocordato egli scrive: «La Grecia è posta fra tre partiti: o riconquistare la sua libertà, o assoggettarsi ai sovrani d'Europa, o ridiventare provincia turca. Non c'è altra scelta fuori di queste tre soluzioni. La guerra civile non servirà ad altro che a preparare le due ultime. Se la Grecia desidera la stessa sorte della Valacchia e della Crimea, potrà ottenerla domani; quella dell'Italia, posdomani; ma se vuol essere veramente libera e indipendente, deve decidersi oggi, o non ne troverà mai più l'occasione....» Se il poeta potesse vedere ciò che accadde dopo di lui e ciò che accade ora delle due nazioni allora lottanti per la loro redenzione, non proporrebbe più il destino dell'Italia alla Grecia come esiziale e schivabile; potrebbe invece ripetere le parole rivolte con vero senso profetico al Governo ellenico il 30 novembre del 1823: «Debbo francamente confessare che se non si ristabilisse l'unione e l'ordine, i Greci perderebbero in gran parte, se non totalmente, l'aiuto che potrebbero aspettarsi di ricevere dall'estero. E ciò che peggio è, le grandi potenze europee, delle quali non una sola era nemica della Grecia, che anzi parevano favorire il suo ordinamento in nazione indipendente, resterebbero persuase che i Greci sono incapaci di governarsi da sè, e forse darebbero allora mano a metter fine alle vostre dispute in modo da distruggere le vostre più brillanti speranze e quelle dei vostri amici....» _25 dicembre 1916._ Il Protocollo della “Giovine Italia„. La regia Commissione preposta all'edizione nazionale degli _Scritti_ di Giuseppe Mazzini ha licenziato da qualche tempo, in appendice alle opere edite e inedite del grande Genovese, il primo volume di un _Protocollo della «Giovine Italia_», del quale, probabilmente per causa della guerra, non si parla quanto e come si dovrebbe, con poca giustizia, in verità; poichè, se la nuova storia della Patria richiama oggi tutti i nostri pensieri, non è distrarsi il meditare anche quella di ieri, dalle cui pagine escono voci di calda esortazione e di severo ammonimento degnissime d'ascolto nelle circostanze attuali. I. Che cosa sia questo _Protocollo_, una bellissima introduzione al sontuoso volume, copiosamente e perspicuamente annotato, spiega con molta diligenza. Dopo il fallimento della spedizione di Savoia e durante gli anni che corsero da quell'infelice tentativo al 1839, Giuseppe Mazzini patì un turbamento profondo. «A torto od a ragione», il mal esito era stato a lui addossato; «quanti conosci fra i migliori», scriveva egli stesso a Nicola Fabrizi, «m'hanno lasciato: ridono di tutto: mi dicono matto, alcuni — e degli intimi — ambizioso, e per questo ho operato, dicono, con istrepito. Alcuni coprono il mutamento colla misantropia: altri collo scetticismo o col Don Giovannismo: altri si contentano di formulare la impossibilità di fare: altri in fondo vogliono vivere e godere: tutti sono individualisti, che hanno recitato — in buona fede o no — la parte di poeti, di patriotti, di entusiasti, finchè hanno sperato di vincere. Quando avranno veduto che la nostra era una teorica di dovere, che bisognava far della vita una continua battaglia anche con la certezza di non vincere se non dopo morti, hanno voltato le spalle.... Da qualche scritto in fuori da me, per ora, non attendete cosa alcuna. Duole a me il dirlo quanto non puoi credere, perchè la mia vita va via e non vedo via neppur di morire a mio modo; ma v'illuderei se parlassi altrimenti. Son solo, sfornito di tutti i mezzi; costretto a lavorare per pane, e nella incredulità che mi circonda fo molto — non che propagarle di cercare di ridurle ad atto — s'io serbo intatte le mie credenze». Ma nell'uomo di pensiero e d'azione, nell'uomo che faceva della vita una «credenza in azione», la forza della fede doveva presto vincere e fugare i dubbii, le diffidenze, gli sconforti, e produrre un nuovo, più alto slancio operoso. Per lo studio della psicologia del Maestro questa crisi è delle più istruttive. Come al Fabrizi, egli descrive al Melegari l'abbandono nel quale è rimasto, le delusioni sofferte, la perdita «di ogni senso di vita individuale, d'ogni potenza di gioia, d'ogni capacità di sentire o sperare un'ombra di felicità»; «ma d'altra parte,» afferma immediatamente, «lontano dal cadere nella misantropia quanto alle azioni, mi sento più fermo che mai, più deciso che mai a giovare — se mi s'affacciassero mezzi — all'Italia futura. Vivrò e morrò, lo spero almeno, per essa. Sicchè qualunque sfogo io t'accenni sugli uomini e sulle cose d'oggi, non accusarmi di debolezza, nè di mutamento. Le cose e gli uomini, comunque m'appaiano, possono oprare sulla mia vita intima e sul mio cuore, tormentandolo; non mai sulle mie azioni, nè sull'adempimento de' doveri, de' quali il cenno viene a me da più alta cosa che non è il presente: Dio e il cuore, la tradizione dell'Umanità e la mia coscienza...». E di lì a poco l'uomo che aveva negato ogni fiducia «nella generazione vivente in Italia», riprendeva «con proposito deliberato, incrollabile, quasi feroce, il lavoro della _Giovine Italia_.... Perchè la _Giovine Italia_ non esiste più? perchè un'Associazione giurata per un intento gigantesco, giurata ora e sempre, giurata con promessa esplicita di consacrare pensieri ed azioni a ottenere vittoria o martirio, si è sciolta dopo il primo tentativo fallito, come se avesse compito la propria missione? Dopo un primo tentativo fallito, quando noi sul principio c'eravamo levati più su degli altri, a un'idea religiosa? quando avevamo dichiarato voler fare più di tutte le associazioni passate? quando avevamo accusato e osato e promesso tanto da esigere sforzi e costanza da Titani per non meritare la derisione? Or che mai è mutato? lo Stato d'Italia? la santità dello scopo? la nostra credenza nella _potenza_ italiana? no: non ha mutato che la nostra credenza nella _volontà_ italiana; bene; non avrebbe questa ad essere ragione di moltiplicare gli sforzi per farla nascere?...». E la volontà sua, dell'agitatore, del suscitatore, dell'apostolo, si tende, s'afforza, ricomincia ad operare, energicamente, magnificamente, «senza calcolo di tempo nè di riescita». Il proponimento di ricostituire l'associazione ideata nella fortezza di Savona sul cadere del 1830 e fondata l'anno appresso in Marsiglia, è ora partecipato, oltre che al Fabrizi e al Melegari, anche ad altri fidi, tra i quali Giuseppe Lamberti. Non volendo iniziare una cosa nuova, «ossia una _forma_ nuova», l'esule diffonde da Londra l'_Istruzione generale_ concepita come quella di dieci anni innanzi, tranne un accenno alla Giovine Europa sorta nel frattempo a Berna. Come la prima volta, anche ora il sodalizio sarà composto di _Congreghe_ da istituire nei varii paesi, dalle quali dipenderanno gli Ordinatori incaricati di reclutare gl'iniziati. E negli Stati Uniti e nell'America meridionale le sezioni sono facilmente formate; non così in Francia, dove, per esser convenuti la maggior parte dei proscritti e degli emigrati del 1821, del '31 e del '33, se si trovano molti fedeli discepoli del Mazzini, vi sono anche parecchi di coloro che sentono diversamente da lui, i liberali moderati sul tipo del Mamiani e di Pier Silvestro Leopardi, i fautori del progresso «omiopatico». II. Prima che la sezione parigina avesse vita, fin dal 15 maggio del precedente anno 1840, il Lamberti aveva cominciato a tenere il registro della corrispondenza epistolare, notandovi, riassumendovi e in buona parte trascrivendovi tutte le lettere ricevute e spedite Di questo libro pochi avevano notizia, pochissimi avevano visto l'autografo ed una copia infedele. L'originale, portato in Italia dal Lamberti al suo ritorno in patria, nel 1848, fu probabilmente da lui donato, insieme con gran parte delle lettere del Mazzini, all'amica del Maestro, Giuditta Sidoli; certo è che pervenne agli eredi di lei e che da costoro l'acquistò il Re Umberto, il quale volle che fosse custodito nella sua privata libreria di Torino. Sua Maestà Vittorio Emanuele III, quando la Commissione mazziniana deliberò di pubblicare il prezioso manoscritto, concesse che fosse portato a Roma e dispose che potesse essere consultato con la maggiore agevolezza. Ora se ne è pubblicato il primo volume, che comprende il registro del carteggio di due anni e mezzo, dal 15 maggio 1840 al 26 dicembre 1842. Se le lettere del Mazzini erano già note, per essere state integralmente raccolte nei volumi dell'_Epistolario_ — due sole riescono nuove e mancano negli autografi della raccolta Nathan — le risposte del Lamberti le completano e illuminano. E i sunti delle centinaia di lettere degli altri ed agli altri — Domenico Barberis, il condannato alla forca insieme col Mazzini e il Berghini; Federico Campanella, l'attivissimo ordinatore della Congrega di Marsiglia; Carlo Bianco, capo di quella centrale del Belgio; Angelo Furci, altro operoso ordinatore; Lorenzo Lesti, esule del '31; Giacomo Ciani, l'editore che diffondeva da Lugano gli scritti dei patriotti; Felice Foresti, il liberato dallo Spielberg; Edmo Francia, attivissimo corrispondente livornese che comunicava al Lamberti le poesie inedite del Giusti più volte pubblicate nel giornale della Società; Gaetano Moreali, arrestato nel '21 per aver diffuso un proclama in latino ai soldati ungheresi invitandoli a non combattere contro un popolo che difendeva la propria libertà, condannato poi a 10 anni di galera dal Tribunale statario di Rubiera e morto tisico in carcere; Giuseppe Zacheroni, segretario dell'Assemblea dei Notabili a Bologna nel '31; Pietro Fontana Rava, condannato nel '21 a vent'anni di ferri, collaboratore del Mazzini nella ricostituzione della _Giovine Italia_ a Lione; Natale Danesi, ordinatore dell'Associazione nell'Algeria; Giuseppe Pieri, il futuro complice di Felice Orsini; Lorenzo Ranco, collaboratore all'_Italiano_; Giambattista Cuneo, esule in America, fedelissimo ai principii mazziniani; Gaetano Fedriani, cospiratore in Genova con Garibaldi nel '34; Teodoro Dallari, compagno di prigionia del Fabrizi in Modena nel '31 — i sunti di tante centinaia di lettere formano una vera miniera di preziose notizie. La vita di quei giorni fortunosi vi è risuscitata, con le sue ansie, le sue speranze, i suoi disinganni. A considerare il corso preso dagli avvenimenti, si scoprono gli errori della politica, le sviste dell'opinione pubblica. Una parte dei liberali d'Italia si ripromettevano salute da Massimiliano di Leuchtenberg, figlio del vicerè Eugenio di Beauharnais, particolarmente dopo il suo matrimonio con una Granduchessa russa: a Milano si formava una società appositamente per favorire le rivendicazioni di quel principe! Altri facevano ancora assegnamento sui Borboni d'Italia e finanche di Spagna. Guglielmo Pepe, come Adolfo Thiers, voleva creare Re costituzionale di tutta la Penisola il sovrano delle Due Sicilie; Giacomo Antonini aspettava una discesa spagnuola sulle coste sicule o napolitane e credeva nell'azione liberale del principe Leopoldo. Ma gl'_Indipendenti_ di Sicilia chiedevano che la loro isola formasse un regno a parte, e quindi il Mazzini ricusava loro la cooperazione della _Giovine Italia_ per il movimento che essi preparavano a Palermo due anni dopo quello scoppiato in Aquila.... Le sorti della Polonia stavano anch'esse a cuore ai patriotti, e di esuli polacchi — il Gordaszewski, che aveva preso parte alla spedizione di Savoia; il Dybowski, ingaggiatosi nella colonna polacca che doveva concorrere alla seconda spedizione, e divenuto intimo del Mazzini; il famoso profeta Towianski, per il quale i suoi connazionali erano «impazziti» — di questi e di altri esuli il _Protocollo_ dà notizie e lettere. Ma le pagine dove sono riferiti i propositi, i consigli, le intenzioni, le mosse dei cospiratori italiani, dove sono trascritti e le cifre dei loro magri bilanci, degli oboli raggranellati per la gran causa o ricavati dalla vendita dell'_Apostolato popolare_ — il giornale dell'Associazione che costava 5 soldi per chi poteva spendere, ma che si dava per 3 agli operai — non si possono leggere senza commozione. Il Mazzini non si contentava questa volta di avere con sè gl'intellettuali: voleva anche acquistar proseliti nel popolo, scendendo in mezzo ad esso. «È cosa che non abbiamo mai fatta e che faremo» — e che fece —; e Giuseppe Lamberti, diligentissimo interprete del Maestro, gli scriveva da Parigi per dolersi che gli operai italiani fossero «mescolati nel Comunismo», che non avessero confidenza negli emigrati «aristocratici», che andassero da loro soltanto quando ne avevano bisogno: per guadagnarli alla causa nazionale, scriveva, «bisognerebbe esser a contatto con loro nelle lor fucine». Fin da allora c'era chi, movendo dal santo precetto che gli uomini debbono considerarsi ed amarsi come fratelli, presumeva che la patria dovesse posporsi al genere umano; ma al Mazzini, apostolo delle nazionalità, il Lamberti riferiva d'aver predicato: «Bisogna che siamo Italiani prima d'essere Umanitarii». Non era possibile conseguire l'Unità, il grande scopo, il supremo dei beni, senza l'unione, e grave al cuore del Mazzini, increscioso sopra ogni altra cosa, riusciva il dissidio prodottosi sin dall'inizio, quando uno dei primissimi confidenti ai quali egli aveva partecipato il proposito di risuscitare la _Giovine Italia_, lo stesso Nicola Fabrizi gli si era opposto fino allo scisma. Per l'esule modenese, l'antica associazione aveva compiuto il proprio ufficio ed era quindi vano e pericoloso tentare di richiamarla in vita. Essa aveva bensì contribuito a formar l'animo dei cittadini, ma occorreva ora armarne il braccio; quindi egli proponeva che le forze liberali militanti si raccogliessero intorno ad una nuova bandiera: quella della _Legione italica_. Per il Mazzini, invece, nel quale l'azione non era qualche cosa di opposto al pensiero, o di diverso da esso, bensì lo stesso «pensiero realizzato», questo distinguere fra la mente e la mano, fra la parola e la spada, era voler fondare una specie di dualismo, «a un dipresso il sistema delle caste indiane, dove agli uomini d'una era dato esclusivamente il pensiero, all'altra il valor militare». Ma il Fabrizi insisteva tanto nella sua idea, e tanto si era affezionato alla _Legione_, da opporre un rifiuto alla proposta di fonderla con la risorta _Giovine Italia_; ostinazione per la quale il Maestro pronunziava contro di lui una specie d'interdetto e manifestava un «rigore» che parve «troppo» al mite e conciliante Lamberti. Sennonchè anche Manfredo Fanti, di risposta all'annunzio della resurrezione della _Giovine Italia_, partecipava al Mazzini, dalla Spagna, di essersi legato al Fabrizi «nella parte esecutiva»; ed un altro esule di cui il Maestro aveva stima, che giudicava «buono, attivo, _giovine_ anche in illusioni», Francesco Vitali, scriveva dalla Corsica al Lamberti per dirgli che reputava totalmente finita la missione della _Giovine Italia_ «tanto come istitutrice che come cospiratrice», cioè tanto come strumento di propaganda morale che come fucina di forze operose. E il conte Giuseppe Ricciardi, nonostante la molta devozione al Maestro, pensava di fondare da canto suo una terza Società, un'_Italia novella_; senza contare una _Lega lombarda_, senza contare i _Livellatori_: moltiplicazione che il Lamberti giudicava «rovina grande per l'Italia», e che al Mazzini doleva sommamente, come quella che poteva seminare «germi di federalismo» e «rompere l'unità». La parte assegnata alla _Giovine Italia_ consisteva appunto nel «determinare una Unità di tendenze che promuova quando che sia l'Unità italiana». I dissensi, i contrasti, le divagazioni, le schermaglie non potevano far altro che giovare ai nemici: «Pensate che si va addietro terribilmente, che i nostri padroni se ne giovano a riconciliarsi con atti di clemenza in favor di molti, che l'Austria conquista più sempre pacificamente influenza, e che siamo infami verso il paese e verso i nostri giuramenti, se non cerchiamo di uscir di questo stato...» Ed in Francia la causa nostra era discreditata dai _Vendicatori del Popolo_: altra società italiana formata a Nimes da emigrati che millantavano rapporti con la _Giovine Italia_, ma che erano invece, tranne alcuni illusi, gente sprovvista di senso morale, incappata anche nelle maglie della giustizia penale per un ricatto, a Montpellier, dove l'aula delle Assise echeggiava di tristi accuse contro l'Italia, «nazione degradata, popolo generalmente vizioso e criminale», la cui emigrazione portava in Francia «la demoralizzazione, il principio dell'assassinio, la corruzione della gioventù....» E queste accuse godevano di tanto credito oltr'Alpe, che quei giornali ricusavano di pubblicare le risposte e le difese degl'Italiani.... Non c'erano soltanto ricattatori fra i _Vendicatori del Popolo_: c'erano anche spie; ma il tradimento più nefando ordito contro la fiducia degli esuli e del loro Capo doveva esser quello dello sciagurato Partesotti, intorno al quale il _Protocollo_, e particolarmente la nutrita appendice, ha pagine che fanno fremere. III. Attraverso tali difficoltà, tali ostacoli e tali insidie si veniva compiendo l'opera del Mazzini. Bene a ragione Giuseppe Lamberti scriveva sulla prima pagina di questo suo libro: «Mia corrispondenza della _Giovine Italia_: documento che proverà la costanza, gli sforzi, i sacrifizi di Giuseppe Mazzini per far libera, una, indipendente l'Italia». Se la figura del Maestro vi campeggia in tutto il suo splendore impareggiabile, anche i discepoli vi appariscono in nuova luce, gli illustri e gli umili, i celebri e i dimenticati. Come epigrafe di tutta l'opera si potrebbero mettere in evidenza le stesse parole indirizzate dal Mazzini al suo fedele segretario il 31 maggio del 1841: «Chi pensa veramente alla felicità e all'onor della patria, non può trascurare, quantunque minime, quelle cose che tendono a tale altissimo scopo»; perchè, se pure molte delle notizie che si attingono da questi fogli appartengono più all'umile cronaca che alla storia togata, nulla è trascurabile di quanto concerne la laboriosa, indefessa, mirabile preparazione del Risorgimento. «Se gli sforzi», soggiungeva il Precursore, e potrebbe soggiungere l'epigrafe, «se gli sforzi che promettiamo fare unitamente a voi ed a tutti gli altri buoni, otterranno pure, come speriamo, il nobile scopo che ci siamo proposto, verrà un giorno che la posterità riconoscente avrà in riverenza i vostri nomi, come quelli a' quali nè lontananza, nè tempo, nè ostacoli, nè sventure d'ogni maniera hanno potuto mai sterpare dal cuore la santa carità del proprio paese». _31 gennaio 1917._ Maestri di guerra. I. IL PRINCIPE DI LIGNE. Il Circolo archeologico della città di Ath, nel Belgio, avvicinandosi col dicembre del 1914 il centenario della morte del principe di Ligne, deliberava, ad onorare la memoria dell'insigne conterraneo, di ripubblicarne le opere: per cominciare, la tipografia Sellekaers e Keulener di Bruxelles approntava la nuova edizione delle _Lettres à la marquise de Coigny_ il 20 aprile di quell'anno, i _Prejugés_ e le _Fantaisies militaires_ il 20 ed il 29 giugno, ed i _Mémoires_ il 25 luglio — lo stesso giorno nel quale scadeva la perentoria nota dell'Austria alla Serbia.... Non occorrono altri discorsi a spiegare l'arresto della ristampa, ed è certo che se le egrege persone ad essa preposte avessero potuto sospettare il cataclisma dal quale il loro paese era minacciato, non avrebbero dato la loro attività ad imprese letterarie. Tuttavia quei valentuomini debbono essere contenti di avere licenziato i primi volumi del Ligne, i due di argomento militare segnatamente; perchè, se i gustosissimi ricordi autobiografici ci mettono dinanzi viva e parlante la singolare figura del grande scrittore, del gran signore, del grande amatore; se certi suoi aspetti particolari, e non dei meno caratteristici, sono lumeggiati dal carteggio con la marchesa di Coigny; i _Pregiudizii_ e le _Fantasie militari_ hanno acquistato, con la conflagrazione mondiale, nuova freschezza. I. Belga di nascita, francese di lingua, di cultura, di spirito, il principe di Ligne servì la Casa d'Austria. Non fu sua colpa, perchè allora il Belgio apparteneva agli Absburgo, ed «affinchè non nascano equivoci», il barone di Heusch, tenente generale nell'esercito del Re Alberto, avverte nella prefazione ai _Pregiudizii_ che Carlo di Ligne, «servendo l'Austria, serviva il proprio paese». Se tale è il giudizio dei suoi concittadini posteriormente costituiti in nazione, non sarà diverso quello degli stranieri; e poi, che cosa importa oramai lo stato di servizio del principe; anzi, che cosa ne resta? Di lui restano soltanto le opere, e qui egli è belga, francese, latino di purissimo sangue: per gli scritti d'argomento guerresco è annoverato tra i massimi scrittori militari di Francia; per le composizioni letterarie la signora di Staël lo definisce «il solo straniero che, trattando il genere francese, invece di restare imitatore sia divenuto modello». Ma si può dire qualche cosa di più: giova dire che servendo l'Austria, compiendo la sua carriera nell'esercito imperiale, il principe di Ligne non si trovò a suo agio, e che, senza lo straordinario e irresistibile trasporto per i ludi di Marte, molto probabilmente egli l'avrebbe troncata anzi tempo. Tale fu la sua vocazione, che udendo parlare, nei più teneri anni, della morte del Principe Eugenio — altro straniero al servizio dell'Impero, altra gloria latina e tutta nostra — il bellicoso fanciullo già si proponeva di prendere il posto dello stratega sabaudo. «Questo,» dichiara, «fu il primo pensiero di cui io serbi memoria». Il suo secondo ricordo gli rappresentò la guerra che si combatteva quando egli cominciava ad avere coscienza di sè, «la guerra,» racconta, «che mi diede alla testa». Ininterrotte tradizioni militari regnavano nella sua famiglia; il suo nome era portato da un reggimento di fanteria e da uno di dragoni; i suoi antenati erano stati generali e marescialli; maresciallo era suo padre quando faceva impegnare un combattimento d'avanguardia contro i Prussiani per dare al figliuoletto il battesimo del fuoco, galoppando al suo fianco, tenendolo per mano e dicendogli: «Sarebbe grazioso, Carlo, se riportassimo insieme una piccola ferita!...» E nulla potè agguagliare la soddisfazione e l'alterezza che invasero l'animo dell'adolescente nel partire per quella prima delle sue dodici campagne di guerra. Accoppiando fin da quei cominciamenti la facoltà e l'esercizio della riflessione con la voglia e l'impeto dell'azione, egli componeva a quindici anni un _Discorso sulla professione delle armi_; e l'uomo a cui, da giovane, le figure di Carlo XII e del Condé avevano «impedito di dormire», doveva più tardi ammonire i giovani: «Se i vostri sogni non sono popolati da immagini militari, se non divorate i libri di guerra, se non baciate le orme impresse dal piede dei vecchi soldati, se non piangete al racconto delle loro battaglie, spogliate subito la divisa! Guai ai tepidi! Foste anche del sangue degli eroi, foste anche del sangue degli Dei, se la Gloria non vi procura un continuo delirio, non vi schierate sotto le bandiere...» Amando dunque il suo mestiere sopra ogni altra cosa, s'intende come le delusioni non riuscissero a farglielo abbandonare; ma le delusioni non gli furono risparmiate, e provennero precisamente dalla incompatibilità mentale e morale che lo divideva dai supremi reggitori della milizia e della monarchia degli Absburgo. L'impossibilità di uniformarsi ai responsi dei Consigli aulici, di chinare la schiena nelle anticamere della Corte, di compiere le bassezze necessaire a farsi avanti, lo persuase ad appartarsi: due volte lo andarono a cercare per offrirgli il comando contro Napoleone Bonaparte; tutt'e due le volte gli anteposero «quattro invalidi» che si fecero battere uno dopo l'altro, «quattro poveri ignoranti che avevo avuti sotto i miei ordini ed ai quali, eccettuato il Clerfayt, non avrei affidato neanche tre battaglioni». Un'altra volta lord Grenville, residente inglese a Berlino, chiese al primo ministro austriaco, il barone Thugut, di affidare al Ligne il comando dell'esercito del Reno: la proposta britannica non fu neanche trasmessa all'Imperatore. Un'altra volta il principe fu invitato dal Re di Sardegna, con la promessa che sarebbe stato preposto al comando supremo delle forze piemontesi a condizioni eguali a quelle dell'esercito imperiale: questa volta il Thugut cominciò col sorridere graziosamente, come sul punto di consentire; ma poi, tratta una riverenza all'inviato sardo, che era il conte di Castellalfieri, volse ad altro tema il discorso. Il presuntuoso Cancelliere non poteva perdonare lo spirito mordace col quale il Ligne aveva fatto ridere di lui, appioppando a quel _parvenu_ il titolo di _Barone della Guerra_ per l'ostinato rifiuto opposto alle ragionevoli offerte di accomodamento avanzate dalla Francia, e per contrasto al titolo di _Principe della Pace_ largito dal Re di Spagna al primo ministro Godoy. «La sciocchezza e la furberia dei favoriti di Corte, le cattive scelte che hanno fatte, la negligenza usata verso le brave persone e gli uomini di valore, hanno distrutto il mio fervore guerresco, che nulla credevo potesse scemare». A Vienna «l'immaginazione è una pianta tanto esotica, che le tre o quattro persone che ne posseggono sono pazzi...». Non sarebbe fuor di luogo trascrivere tutti i saporosi giudizii da lui dati intorno a quel mondo, a quei sistemi ed all'uomo che li impersonò, se non importasse maggiormente notare le doti proprie dell'autore, la vivacità dell'immaginazione, appunto, che fece di questo soldato un artista; la severità del sentimento del dovere e dell'abito della disciplina, che fece di questo artista un soldato; la capacità di freddamente osservare e di caldamente sentire; il mirabile equilibrio del cuore e dell'intelletto, della dottrina e dell'ispirazione; la perfetta fusione di qualità non sempre concordi, anzi, e per disgrazia, ordinariamente contrastanti. II. Così formato dall'eredità, dall'educazione e dalla vita, egli doveva cadere in discredito come maresciallo austriaco e conseguire l'immortalità come scrittore militare. Lasciamo stare le sue vedute geniali, le sue invenzioni e le sue previsioni nel campo strettamente tecnico, capaci d'interessare soltanto i competenti; ma poniamo in evidenza la singolarità d'un uomo che al tempo nel quale un buon numero di mercenarii e di stranieri entravano a comporre gli eserciti, scriveva un libro intorno alla «parte morale del nostro mestiere, che è dovunque negletta od ignorata»; d'uno scrittore che durante il regno del bastone asseriva: «La prima disciplina consiste nel regnare sulle anime»; che mentre i governanti avevano una matta paura delle _baionette intelligenti_, e gl'istruttori lavoravano in piazza d'armi a ridurre i soldati all'obbedienza cieca ed al perfetto automatismo, dimostrava la necessità di suscitare la coscienza di sè e il senso della responsabilità in quelle macchine. Quale credito poteva ottenere l'originale che nello Stato e nella casta dove imperava il feticismo delle norme e delle forme, affermava che un articolo da aggiungere a tutti i regolamenti dovrebbe dare la facoltà di trasgredirli; che i giovani uscenti dalle scuole debbono disimparare tutte le inutili cose con tanta fatica cacciate nella mente; che non occorrono maestri d'armi, bensì maestri d'elevazione, e scuole d'ammirazione, scuole d'entusiasmo, e scuole — anche — di «disordine»? Non doveva essere giudicato propriamente eretico e far passare brividi d'orrore per la schiena dei _feld-marschälle_ pettoruti, compassati e pedanti lo scrittore secondo il quale gli aiutanti di campo debbono distinguersi, sì, per il coraggio, l'esattezza, l'intelligenza, ma anche «nel saper modificare l'ordine che portano, se le circostanze sono modificate....»? Non doveva sembrare un sovvertitore degli elementari principii della gerarchia e dell'etichetta colui che voleva vedere la prima severità esercitarsi sui capi supremi: colui che si vantava d'aver fatto aspettare Imperatori e Imperatrici, ma non un coscritto; che giudicava la società dei fantaccini «più pura e delicata che non quella delle persone della buona società»; che assegnava ad ogni ufficiale la missione «d'amico, di confidente, di consolatore» dei suoi uomini, ed affermava che il colonnello dev'essere «il padre e la madre del reggimento»? Quando la psicologia non era ancor di moda negli studii, e tanto meno tra i _ranghi_, il principe di Ligne indagò l'anima di quel grande fanciullo che è il soldato e gli attribuì tutta la dignità che gli compete. Ai soldati pensò che bisognerebbe deferire, se non si vuol sbagliare, il giudizio intorno ai premii da largire ed alle punizioni da infliggere ai generali; e la più perfetta eguaglianza volle che regnasse nell'esercito; ma dall'altra parte, e per giusto compenso, volle anche che l'ordine concernente una «bagattella» fosse tanto sacro quanto quello che si riferisce alla battaglia, e che al caporale si portasse tanto rispetto quanto al generale. Le idee anticipate dal principe hanno fatto strada, ma non è inutile che i giovani destinati alla carriera militare le meditino sulle eloquenti pagine dell'autore. Più utile ancora riuscirà, non solamente ai militari, ma a quanti sentono che la guerra è una dolorosa necessità e che nella forza consiste, e consisterà finchè l'umana natura non sarà mutata, la sanzione del diritto; più utile, oggi, ai cittadini cui non fu dato di poter combattere, ma che seguono con l'ansioso pensiero e con la fervida speranza i combattenti, riuscirà la lettura delle parole con le quali il principe di Ligne esalta «il più bello dei flagelli». Ai predicatori della pace ad ogni costo egli ne dimostra i danni e propone un formidabile dilemma: «Bisogna scegliere tra l'avere la Pace perchè si è pronti a fare la Guerra, o avere la Guerra perchè non si è pronti a farla»; e soggiunge un'altra verità espressa in forma non meno concettosa: «Giunto il primo giorno della Guerra bisogna pensare alla Pace, e il primo giorno della Pace bisogna pensare alla Guerra». Ma non perchè è persuaso della fatalità della lotta, non perchè nutre tanta passione per il suo mestiere da scrivere: «Il mio stupore è che si possa sopravvivere ad una battaglia, qualunque ne sia l'esito: come non morire di dolore se è stata perduta, e di gioia se è stata vinta?; non perchè dice: «Una battaglia è un'ode di Pindaro: bisogna mettervi un entusiasmo che confini col delirio»; e non per essere nato soldato «come altri nasce pittore, poeta o musicista»; non perciò Carlo di Ligne si può ascrivere tra quei militaristi di professione i cui viziosi abiti mentali dànno buon giuoco ai mestieranti del pacifismo. Altra è la personalità di quest'uomo di cuore, di questo avversario della pena di morte, di questo sentimentale a cui fu possibile amare tre donne ad un tempo «con la miglior fede del mondo, poichè non le ingannavo punto: ingannavo, forse, me stesso...». Se la passione lo acceca in amore fino ad un certo segno soltanto, gli lascia tutta la sua chiaroveggenza come soldato; e dopo avere dimostrato i danni delle lunghe paci, l'infiacchirsi dei corpi e delle anime, il prevalere degli appetiti materiali e degli istinti egoistici; dopo avere esaltato la necessità della guerra, la bellezza dell'eroismo, la fecondità del sacrifizio, «io non dirò,» conclude: « — Fate per ciò la guerra; ma se la ragione, la giustizia, l'onore, l'utilità o la vendetta fanno gridare _all'armi!_ sia allora consentito ai giovani ufficiali di gioire, ai vecchi di riprendere il cammino della vittoria, alle fanciulle ed alle spose di ornare di coccarde i loro innamorati ed i loro consorti, e si vieti alle vecchie ed ai filosofi di trovarci da ridire...». La guerra, senza dubbio, porta con sè durezze e crudeltà inevitabili; «ma bisogna essere uomini: essa non è mestiere da filosofi!». III. E tanta è la lucidità di questo assertore della guerra, che egli non se ne dissimula il grande nemico: il prepotente istinto della vita, il sentimento della paura. «Fra tutti gli animali il più pauroso è l'uomo. È chiaro che la paura ci rende le più maldestre creature. Consiste essa in una specie di ragionamento che c'impedisce di fare ciò che i più pigri e tardi animali fanno tutti i giorni. Con un poco di coraggio, noi salteremmo tanto bene quanto le scimmie, e cadremmo forse da un terzo piano come i gatti, senza farci male. Si è visto mai la lepre, che non gode fama d'essere la bestia più animosa, temere il tuono, o la cerva spaventarsi degli spettri?... Quante brave persone non tremano al pensiero di trovarsi sole in un bosco durante la notte e la tempesta? A quante il vento non impedisce di dormire?... E come mai l'uomo non avrebbe paura del fuoco? Ne ha tanta dell'acqua! È il solo fra tutti gli animali che non sappia nuotare. Non c'è cinghiale che non ne sia capace, venendo al mondo. Non appena noi vi entriamo, già si lavora a sgomentarci. Balie, governanti, precettori, frati, parenti: tutti ci minacciano, tutti ci intimidiscono....» Contro i deplorevoli effetti di questa congiura egli sostiene l'utilità degli esercizii fisici ardimentosi, la necessità di una scuola del pericolo, l'immensa efficacia dei fattori morali. Per quest'uomo pugnace la guerra è fiducia nella forza, volontà di vincere, tensione della volontà, impetuosità di assalto. «Bisogna ostentare l'offensiva, anche quando si è costretti, per una moltitudine di circostanze che del resto non dovrebbero mai avverarsi, a mantenersi sulla difensiva.» E non gli parlate dei temporeggiatori: Cesare, Alessandro, Annibale, Pirro, Scipione sono i santi del suo calendario: Fabio non vi ha posto: «la stessa temerità è talvolta prudenza». La precauzione deve nascondersi, restare tutta interiore; solo l'audacia ha da manifestarsi. Nulla vi dev'essere d'impossibile; bisogna fare cose straordinarie sapendo che si possono fare: «Siate certi che un capitano di dragoni lanciato a briglia sciolta può vincere una battaglia». Per compiere «passabilmente» il proprio dovere, bisogna compierlo «tre volte»; e ancora: «Per fare il proprio dovere bisogna fare più del proprio dovere. La gloria è qualche cosa di tanto raro, che bisogna procacciarsene quanto più si può...». La guerra d'oggi è diversa da quella d'un tempo, ma non tanto che le parole di questo maestro non siano da meditare. C'è, sì, qualche foglia secca in questa sua fiorita; c'è qualche paradosso e qualche sofisma; ma scegliendo di pagina in pagina si potrebbe comporne un _vade-mecum_, una Bibbia del soldato; ed egli ha veramente ragione di dire ai critici che i suoi libri tengono luogo di un'intera biblioteca, contenendo tutto il succo della scienza delle armi come la fiala contiene un elisir. _16 luglio 1916._ II. LAZZARO CARNOT. Non c'è lettore di giornali francesi, dacchè la guerra divampa, che non si sia imbattuto più volte nel nome del gran cittadino da cui la prima Repubblica riconobbe la salvezza ed a cui la gratitudine nazionale conferì il titolo di _Organizzatore della Vittoria_. Bene a ragione la Francia, in questi giorni di prove, rievoca la vita, interroga lo spirito, medita gl'insegnamenti di Lazzaro Carnot; perchè, sebbene la fama concesse i suoi massimi favori a Napoleone, i posteri non hanno ancora sentenzialo se quella dell'Imperatore fu gloria vera, mentre nessun velo d'ombra offusca lo splendore dell'aureola che circonda la figura di chi ebbe, fra tanti altri meriti, anche quello di riconoscere il valore dell'Uomo fatale e di favorirne il genio — finchè non diede segni di errore. I. Questa «divinazione meravigliosa» — sono parole del Michelet, riferite da Carlo Mathiot nel suo recente studio _Pour vaincre_ — questa capacità di scoprire e all'occorrenza di suscitare le capacità dei collaboratori e dei dipendenti, è fra le primissime doti dei duci e contraddistinse come pochi altri il Direttore di guerra del Comitato di Salute pubblica. Il suo penetrantissimo sguardo vide nel comandante d'un battaglione di volontarii provinciali il futuro espugnatore di Charleroi, il liberatore delle frontiere settentrionali della patria, il vincitore di Fleurus e di Stockach — il maresciallo di Francia Jourdan — e in un tenentino delle guardie nazionali il futuro difensore di Dunkerque, il _Pacificatore della Vandea_, l'eroe di Wissemburgo e di Neuwied — Lazzaro Hoche. Facoltà propriamente divinatrice, esercitata talvolta anche contro la volontà degli stessi prescelti, come nel caso dei Levasseur, che il Carnot destina a soffocare la ribellione scoppiata nell'esercito del Nord dopo l'arresto del generale Custine. «La scelta mi onora,» risponde il designato, «ma la fermezza della mano non basta: occorre l'esperienza, occorre il talento militare: coteste doti essenziali mi fanno difetto.» — «Noi ti conosciamo,» risponde il Direttore, «e sappiamo apprezzarti....» — «Ma, in verità, Carnot,» obbietta il rappresentante del popolo, «anche i mezzi fisici mi mancano. Considera la mia piccola statura, e dimmi come, con tale aspetto, potrò incutere soggezione a granatieri!...» — «_Alexander Magnus corpore parvus erat._» — «Sì,» insiste ancora l'altro, «ma Alessandro aveva passato la vita negli accampamenti, e sapeva quindi come si governa lo spirito dei soldati.» — «Le circostanze formano gli uomini; la fermezza del tuo carattere e la tua devozione alla Repubblica mi garantiscono....» In sul finire del 1793 il generale Dugommier è preposto all'assedio di Tolone caduta in mano degli Inglesi. Due piani d'attacco sono presentati al Comitato: uno dello stesso comandante delle forze repubblicane, l'altro d'un giovane capitano suo aiutante, un Côrso dal nome stravagante: un certo Napoleone Buonaparte. Lazzaro Carnot non dà la preferenza a quello del generale perchè è del generale, nè mette da parte quello del capitano perchè è del subalterno. Spiegate le carte topografiche sulla tavola delle adunanze, il Direttore della guerra dimostra ai colleghi che entrambi i disegni hanno del buono e che bisogna per conseguenza formarne uno solo, fondendoli: ciascuno dei due strateghi dirigerà quella parte delle operazioni che ha escogitata. Ma come mai un semplice capitano avrà tanta autorità di comando? Ed ecco che, seduta stante, il capitano è promosso capo di battaglione — e, dopo la vittoria, generale di brigata. Nè solo all'inizio, ma in tutta la prima fase della prodigiosa carriera Napoleone deve i buoni successi ai consigli, agli incoraggiamenti, agli aiuti del Carnot. Quando il vincitore della campagna d'Italia chiede che, per mezzo di onorevoli trattati, sia scemato il troppo grande numero dei nemici, il diplomatico del Direttorio, il Reubell, trova ed oppone mille difficoltà, ed è invece il soldato, è lo stesso Carnot, quello che interviene, improvvisandosi diplomatico, per appagare le giuste domande del generale. Dopo che la Repubblica è rappacificata col Piemonte e con le Due Sicilie, il Bonaparte potrebbe essere in grado di volgersi con tutte le sue forze contro gl'Imperiali per assestar loro il colpo di grazia; sennonchè, e nonostante l'accorciamento della fronte, egli chiede ancora grossi rinforzi. Lazzaro Carnot non gli risponde con un rifiuto: dispone anzi le cose in modo da mandargli, prima che l'Austria s'accorga dei movimenti di truppe sul Reno e sulla Mosa, non già i quindicimila uomini richiesti, ma trentamila.... Quest'uomo suscita gli eserciti come per virtù di magia. Nel febbraio del 1793 la Francia possiede poco più di 200000 soldati: ne ha 500000 tre mesi dopo, più di 600000 alla fine dell'anno, più di un milione dopo un altro semestre. Come gli uomini, così egli moltiplica gli strumenti di guerra: in pochi mesi tutta la nazione si trasforma in fucina ed officina, accumulando armi, munizioni ed approvvigionamenti. Mentre il salnitro mancava, ora la sola Parigi ne fornisce dodici milioni di libbre. «Parigi,» dice l'operatore di cotesti miracoli, «Parigi, già sede della mollezza e della frivolità, potrà ora gloriarsi del titolo immortale di arsenale dei popoli liberi.» E il risultato del mirabile sforzo è questo: che mentre i nemici erano giunti a trenta leghe dalla metropoli, la pace è dettata loro a trenta leghe da Vienna. Militarmente, la perizia posseduta da Lazzaro Carnot non è minore della sua straordinaria facoltà di organamento. Quella nuova strategia e quella nuova tattica che contraddistinguono il genio di Napoleone, il Carnot le ha prima di lui pensate e adoprate. «Agire in massa; cercare il punto debole del nemico con una superiorità tale che la vittoria non possa essere dubbia.... Volete vincere? Attaccate ogni giorno, mattina e sera.... Attacco continuo, e sempre con forze preponderanti, colpendo all'improvviso, ora sopra un punto, ora sopra l'altro.... La difensiva ci disonora ed uccide.... Siate attaccanti, sempre attaccanti: c'è un solo mezzo di trionfare: la vigilanza. Un uomo che veglia è più forte di centomila che dormono....» Hondschoote e la liberazione di Dunkerque, Wattignies e la liberazione di Maubeuge sono glorie sue. A Wattignies, quando il Jourdan, dopo quattro ore di eroici e vani attacchi frontali al centro e l'indietreggiamento dell'ala sinistra, propone di battere in ritirata, il Carnot gli risponde una sola parola: «Vigliacco!». Ma il furore col quale l'offeso sferra, per vendicarsi, due nuove cariche consecutive, non ha ragione dei cannoni dei Coburgo. Nella notte, il Jourdan consiglia ancora di rinunziare all'assalto centrale e di rinforzare la pericolante sinistra. «A coteste modo si perdono le battaglie», afferma Lazzaro Carnot, e suggerisce invece di richiamare la sinistra per rinforzare la destra. «Se adottiamo l'opinione del rappresentante del popolo,» dichiara l'altro, «lo avverto che dovrà sostenerne tutta la responsabilità.» — «Preparazione ed esecuzione: assumo ogni cosa su me!» risponde il Carnot; e il domani, dati gli ordini, cinta la fascia tricolore, sfoderata la spada, monta egli stesso all'assalto del formidabile pianoro e vi arriva sanguinante ma trionfante alla testa dei soldati che intonano la _Marsigliese_: «la più bella battaglia della Rivoluzione», giudicherà più tardi il vincitore di Marengo e di Austerlitz. Uscito dall'arma del genio, il Carnot precorre i tempi adattando alla nuova guerra i nuovi ritrovati dell'ingegno umano, e gli stessi uomini. Sua è la prima idea di speciali truppe alpine: durante la missione nei Pirenei egli propone che si crei, col nome di «legione delle montagne», un corpo di fanteria leggera addestrata a manovrare tra le balze e i dirupi. La prima linea telegrafica militare è creata da lui; a lui è sottoposto il disegno di adoperare le mongolfiere, ancora semplici oggetti di curiosità e di giuoco, agli usi militari, e con suo decreto il Coutelle è nominato capitano d'una compagnia d'«aerostieri» e inviato al campo. Per poco il rappresentante del popolo, Duquesnoy, insospettito alla vista degli inesplicabili ordigni, non prende l'aeronauta per un agente dei nemici e non lo fa fucilare; lo stesso Jourdan lo accoglie male, ed occorre che il Carnot scriva: «Il cittadino Coutelle non è un ciarlatano, è un tecnico dei più stimabili, e l'operazione che compirà rappresenta il frutto delle speculazioni di scienziati insigni. Preghiamo il generale di accordargli protezione ed assistenza....». Così, per merito suo, le vie dell'aria sono battute la prima volta da soldati esploratori: il giorno della battaglia di Fleurus l'aerostato librato per nove ore sul campo rende ottimi servigi e gli Austriaci si fanno il segno della croce, giudicandolo opera del diavolo. Allora il Carnot crea tutta una scuola d'aerostatica militare a Meudon, dove si iniziano anche gli studii della nuova telegrafia aerea. Una quindicina d'anni dopo, i fratelli Coessin espongono all'Accademia delle scienze un loro battello chiamato «nautilo sottomarino» capace appunto, dicono, di navigare sott'acqua: Lazzaro Carnot, relatore della commissione nominata per esaminare quell'apparecchio, lo descrive, riferisce i risultati delle esperienze e conclude — cento anni or sono! — non esservi più dubbio che si possa creare un sistema di navigazione subacquea «molto rapida e poco costosa....». II. Singolari quanto si voglia, questi meriti non raccomanderebbero tuttavia il nome del Carnot all'ammirazione dei posteri, se non fosse la bellezza e la bontà delle idee da lui significate. Quest'uomo di guerra che riconobbe nella guerra una condizione eccezionale e violenta, durante la quale le ordinarie norme della convivenza civile sono abolite, volle pure, col suo maestro Vauban, che i soldati procedessero per le vie «meno sanguinose» e che nell'umanità consistesse la loro prima virtù. Con una sentenza dal suono paradossale, ma animata, come tutti i paradossi, da un senso di verità, disse che «la guerra è per eccellenza l'arte di conservare»; infatti: «l'arte di distruggere ne è l'abuso». E le fortezze furono da lui definite «monumenti di pace», perchè la loro moltiplicazione consente di scemare il numero dei combattenti e di restituire molti soldati alle arti pacifiche. Nessun popolo, del resto, dovrebbe lottare a scopo di conquista; tutti debbono impugnare le armi per difendere la nazione minacciata o la civiltà offesa: «Ogni guerra giusta, degna del nome, è essenzialmente difensiva». Ed ogni soldato _degno del nome_ dovrebbe incidere nella memoria e nel cuore le parole di questo maestro: «Risparmiate ovunque gli oggetti del culto; fate rispettare i tugurii, gl'infelici, le donne, i bambini, i vecchi: presentatevi come benefattori dei popoli.... Bisogna far temere il nome francese» — e così dicasi di ogni altro — «ma non farlo odiare....». Quanti invocano il regno della giustizia nei rapporti dei popoli non fanno se non esprimere con altre parole — nè molto diverse — i principii enunziati dal Carnot. «Le nazioni sono, le une rispetto alle altre, nell'ordine politico, ciò che gl'individui sono nell'ordine sociale: esse hanno, come questi ultimi, i loro diritti reciproci, consistenti nell'indipendenza, nella sicurezza all'estero, nell'unità interna, nell'onore nazionale: beni d'ordine superiore dei quali nessun popolo potrebbe esser privato se non per violenza, e che ciascun popolo può riacquistare quando l'occasione se ne offre. Ora la legge naturale vuole che si rispettino cotesti diritti, che ci si aiuti vicendevolmente a difenderli, finchè i soccorsi ed i riguardi non pongano a rischio i diritti proprii.... Poichè la sovranità appartiene a tutti i popoli, non può darsi comunità ed unione fra loro se non in virtù di una formale e libera transazione: nessuno d'essi ha il diritto d'assoggettar l'altro a leggi comuni senza il suo espresso consentimento.... Noi abbiamo per principio che ogni popolo, qualunque sia la esiguità del territorio da lui abitato, è assolutamente padrone in casa propria, che è eguale in diritto al più grande, e che nessun altro può legittimamente insidiarne l'indipendenza, tranne che la sua propria non corra visibilmente pericolo.» Testimonio ed attore principalissimo d'una delle maggiori crisi che travagliarono il suo paese e il mondo tutto, egli sperò d'afferrare nella Rivoluzione «il fantasma della felicità nazionale», credendo possibile d'ottenere «una Repubblica senza anarchia, una libertà illimitata senza disordine, un sistema perfetto d'eguaglianza senza fazioni»: l'esperienza lo disingannò «crudelmente» e gli fece riconoscere che la saggezza è egualmente lontana da tutti gli estremi. Il massimo della prosperità nazionale consiste fra la libertà assoluta ed il potere assoluto.... Il miglior governo è quello dove tutto si fa per abito, per educazione, e non già in forza di precetti sempre variabili: è quello, in una parola, dove i governanti hanno meno da fare....» E molto probabilmente nel corso di quella terribile delusione egli concepì la grande verità, umana e non soltanto politica, che incluse in un'altra delle sue concettose sentenze: «Lo stesso sforzo compiuto per afferrare la felicità è uno stato violento che spesso la distrugge....». III. Non è dunque vero che la guerra, quantunque necessariamente atroce, sia scuola mortificativa di quanto è più alto e nobile nello spirito umano, se quest'uomo di guerra potè sollevarsi alle ultime vette della filosofia, quelle dalle quali si dominano il tempo, gli uomini e l'universo; se potè dire che il savio, «come cittadino, ferma gli occhi sulla Patria, fa voti per lei, applaudisce alle sue fortune, partecipa ai suoi trionfi»; ma, «come filosofo, ha già oltrepassato le barriere che separano gl'imperi, non ha più nemici, è cittadino di tutti i paesi e contemporaneo di tutte le età....». Il saggio che scriveva queste parole era anche un poeta di cui restano alcuni delicati componimenti: il _Ritorno al casolare_, fra i più espressivi, e il _Soliloquio d'un vecchio_. Ma la saggezza filosofica e il sentimento elegiaco non impedirono che il Carnot seguisse in ogni atto della sua vita i consigli del più esclusivo e geloso amore di patria. Nel 1789, capitano del genio, legge dinanzi all'Accademia di Digione il suo _Elogio del Vauban_: il principe Errico di Prussia, che è fra gli astanti, gliene fa i più caldi rallegramenti, seguìti dall'offerta di un alto grado nell'esercito prussiano: egli ricusa. Venticinque anni dopo, nel 1811, comandante di Anversa assediata, riceve da un altro Prussiano, il conte di Bülow, l'insidiosa proposta di abbandonare la causa di Napoleone, con la promessa di un'adeguata ricompensa, egli risponde: «Troppo mi sta a cuore di serbare la stima che mi dimostrate, perchè non difenda con tutti i mezzi in mio potere il posto onorevole confidatomi dall'Imperatore dei Francesi....». Pochi giorni dopo Napoleone ha abdicato, e un altro Francese più accomodante, divenuto, grazie alla malleabilità della sua tempra, principe ereditario di Svezia — il Bernadotte — ritenta di indurre il Carnot a rendere Anversa; egli risponde infliggendo una lezione al transfuga: «Comando questa piazza in nome del governo Francese: esso solo ha il diritto di fissare il termine del mio ufficio. Allorquando il nuovo regime sarà definitivamente e incontestabilmente stabilito sulle nuove basi, sarà mia premura eseguirne gli ordini: determinazione che non può mancare d'essere approvata da un principe nato Francese, a cui sono ben note le leggi imposte dall'onore....». Tanto zelo non è alimentato, sia pure indirettamente, sia pure in minima parte, dalla speranza dei premii. Non ne ha mai ottenuti quanti ne ha meritati; tanto meno ne ha chiesti. Tornato a Parigi il domani di Wattignies, che è vittoria sua, egli scrive al comando dell'esercito del Nord per rallegrarsi con esso del glorioso successo, come se non vi avesse contribuito per nulla. All'inizio del Consolalo è ancora ministro della guerra ma ha già detto al Côrso ambizioso: «Credo che soltanto il Bonaparte tornato semplice cittadino possa lasciar vedere il generale in tutta la sua grandezza». Più tardi soggiunge: «Voi avete da scegliere nella storia il posto d'un Cromwell o d'un Washington. Se sceglierete male, precipiterete dall'alto, e un giorno forse si contesterà la vostra stessa gloria militare....». L'ammonitore, il repubblicano, il Convenzionale che ha votato la morte del Re, è il solo a votare contro lo stabilimento dell'Impero; ma quando la maggioranza dei Francesi accetta la nuova forma di governo, egli desiste dall'opposizione, perchè nelle crisi dello Stato vi può essere per ogni cittadino un momento d'incertezza sul partito da prendere; si può esitare, o scegliere fra le diverse opinioni, senza commettere un delitto; ma tosto i più si pronunziano, e allora, se la minoranza si ostina nell'opposizione, non è altro che una fazione: principio di giustizia eterna formante l'essenza d'ogni società politica, senza del quale non c'è più altro che anarchia e guerra intestina nell'intero universo». In forza di questo principio il cittadino esemplare che lo enunziò fece qualche cosa di più che desistere dall'opposizione all'Impero. Dopo avere inflessibilmente respinto, negli anni della prosperità, le seduzioni di Napoleone, che gli offriva «tutto quanto vorrete, quando vorrete, come vorrete», il giorno che l'Imperatore è ridotto a lottare disperatamente per salvare la Francia invasa, il gran patriotta accorre ad offrirgli i suoi servigi. E si contenta del comando di Anversa; e quando è il momento di compilare il decreto di nomina, scoprono che quel creatore di quasi tutti i generali francesi, quell'antico Direttore della guerra e quasi dittatore della nazione, ha soltanto, sull'annuario, il grado di maggiore del genio, conseguito per anzianità all'uscire dal Comitato di Salute pubblica.... Il solo oppositore all'Impero è anche, ora che l'Impero rappresenta la Patria e la stessa Libertà contro il pericolo della restaurazione borbonica imposta dagli stranieri, il solo che sconsigli a Napoleone di abdicare; ed anche dopo l'ultimo disastro, anche dopo Waterloo, è il solo che gli suggerisca di resistere, di rivolgere un proclama al popolo, di chiamare alle armi tutti i cittadini, di mobilitare la guardia nazionale, di difendere Parigi, di ritirarsi dietro la linea della Loira. Fouché esclama: «Siete pazzo!». Lazzaro Carnot gli risponde gettandogli in faccia il giudizio della storia: «E voi siete traditore!...». _10 aprile 1917._ Gli enimmi di Waterloo. Nell'anno secolare della battaglia che segnò l'ultimo crollo dell'impero napoleonico, un soldato francese ridottosi da molto tempo a vita di studio per le ferite riportate in guerra ha pubblicato una nuova storia di Waterloo. Compiuta nella primavera del 1914, l'opera ponderosa e poderosa fu consegnata ai tipografi il 3 giugno di quell'anno, due mesi prima della conflagrazione europea: l'autore ha creduto necessario avvertirlo sin dal frontespizio, quasi a giustificare la pubblicazione di indagini intorno ad una guerra passata mentre le battaglie imperversano dall'un capo all'altro del vecchio continente. E il libro suo, narrando come si decisero un secolo addietro le sorti del mondo, rischierebbe veramente di passare inosservato oggi che esse si stanno decidendo ancora una volta, se non fosse che mentre noi abbiamo sete di conoscere quanto avviene sui campi della gran guerra attuale, mentre non abbiamo quasi altro bisogno, supreme ragioni di prudenza vietano ai capi degli eserciti e degli Stati di appagarlo: talchè alla nostra immaginazione distratta da ogni altro oggetto le stesse narrazioni degli antichi combattimenti offrono un pascolo. Si potrebbe intanto, e pregiudizialmente, domandare se occorresse proprio tornare sul tema che da cento anni centinaia di scrittori d'ogni paese hanno sviscerato. La luce non è fatta, chiara, piena, lampante?... Non è fatta ancora. Il Lenient, avanti di comporre il suo libro, ha meditato gli altrui, dal primo al penultimo, che pareva anche definitivo: quello di Arrigo Houssaye. L'ultimo fu scritto da un Italiano, da un competentissimo Italiano: Alberto Pollio. Noi possiamo dolerci che lo scrittore francese non ne conosca l'opera, ma non certo quanto se ne dorrà egli stesso dopo averla cercata; perchè vi troverà, a sostegno delle idee da lui combattute, argomenti che lo faranno pensare, e meglio ancora perchè alcuni degli stessi suoi giudizii potrebbero essere egregiamente avvalorati con quelli espressi dal generale nostro. Nel suo _Waterloo_ il Pollio, come tutti gli studiosi precedenti, non presume di spiegare ogni cosa: ammette anzi che molti enimmi sussistono; il Lenient intitola invece l'opera sua: _La solution des énigmes de Waterloo_. Vediamo. I. La domanda preliminare, la più generale e comprensiva, è questa: come mai un esercito di 124000 soldati, con 25000 cavalli e 300 cannoni, comandato dal primo capitano del secolo, forse di tutti i secoli, è in soli quattro giorni disfatto, distrutto, dissolto? Gl'idolatri hanno detto che il piano dell'Imperatore era infallibile; Adolfo Thiers afferma che la fatalità soltanto potè sconvolgerlo. La fatalità ha spalle da regger some anche più gravi di questa. Ma poichè nessuno l'ha vista ancora in faccia per chiamarla alla resa dei conti, e poichè il più prepotente bisogno, nelle avversità, è quello di addossarne a qualcuno la colpa, così anche di Waterloo si sono cercati e, naturalmente, trovati i capri espiatorii. Tutta una scuola addebita il disastro ai luogotenenti, o disertori come il Bourmont che passa al nemico con lo Stato maggiore della sua Divisione all'inizio della campagna, o insolitamente malaccorti, subitamente intimiditi, straordinariamente inabili, come Ney ai Quatre-Bras, come Grouchy a Wavre. Il Lenient dimostra che i traditori non giovarono al nemico, e distrugge le accuse rovesciate sui marescialli. Si dovrà credere allora ciò che tanti altri hanno asserito, cioè che la rovina fosse da imputare allo stesso Napoleone, perchè non era più quello di prima, perchè le grandezze ne avevano indebolita la tempra, perchè gli anni, i malanni e i rovesci ne avevano offuscata la mente, infiacchita la volontà, fiaccata la fede? Neanche questa è l'opinione dell'autore. Egli adduce, al contrario, tutte le prove dell'energia fisica, della prontezza e dell'acume intellettuale, della gran forza morale con le quali l'Imperatore compose ed attuò il piano della campagna. Allora?... II. Il primo dei problemi particolari nei quali si risolve il gran problema di Waterloo è quello del numero. Poteva Napoleone avere una forza maggiore di quella che adoperò? Egli mosse con 124000 uomini contro Wellington e Blücher, ciascuno dei quali ne comandava quasi altrettanti: fin dal principio, dunque, la partita si presentava come troppo disuguale. Con un incredibile intuito profetico l'Imperatore scriveva al maresciallo Davout: «La più gran disgrazia che possiamo temere è d'esser troppo deboli al nord e di patirvi sulle prime uno scacco». Lo scacco sopportato di primo acchito, dopo soli quattro giorni di campagna, in quei campi settentrionali dove appunto temeva d'esser troppo debole, fu veramente senza rimedio: terribile lucidità di previsione! Allora, perchè non correggere la debolezza? Il Thiers, il Siborne, il Pollio, molti altri dicono che nell'apparecchiarsi alla guerra Napoleone fece quanto umanamente era possibile. Il Lenient, sulla fede di ragionamenti e di calcoli, lo nega. Le forze della Francia sarebbero state molto maggiori se l'Imperatore non avesse esitato tra la difensiva e l'offensiva, se avesse chiamato più presto le milizie territoriali che avrebbero lasciato disponibile per la prima linea un più grosso nerbo di truppe. Comunque, alla difesa del suolo nazionale bastavano i 434000 uomini già raccolti: perchè mai, dunque, i 178000 dell'esercito di campagna furono ridotti a 124000? Perchè distrarre dalle pianure del Belgio, dove si decideva la quistione vitale, 54000 soldati e disseminarli sulle altre frontiere? La Coalizione minacciava, è vero, anche dalla parte del Reno: ma che potevano fare i 46000 uomini di Rapp, di Suchet e di Lecourbe contro i 500000 del principe di Schwarzenberg? Alberto Pollio adopera una formula a definire il concetto napoleonico della ripartizione delle forze: il minimo necessario per le operazioni secondarie, il massimo disponibile per le principali. Secondo il Lenient si dovrebbe dire invece: le forze impotenti sono forze inutili. Sui confini della Spagna, del resto, nessuno minacciava: che stavano dunque a farci gli 8000 soldati del Decaen e del Clauzel? La spiegazione proposta dall'autore è tutta psicologica: l'uomo che aveva riconquistata la Francia con gli ottocento soldati dell'isola d'Elba, che disprezzava i nemici, che giudicava Wellington «generale di terz'ordine», Blücher nient'altro che «un bravo ussaro» e le loro truppe altrettanta «canaglia», quest'uomo non credeva di dover fare uno sforzo eccessivo e stimava che 124000 soldati in mano sua valessero il doppio.... Ora, in qual modo li adoperò? III. La manovra di Charleroi è ancora levata al cielo come la più sapiente rottura strategica, e l'attacco come una sorpresa fulminea. Il Lenient dimostra che non vi fu sorpresa di sorta, che Blücher e Wellington, sei settimane innanzi, si erano pienamente accordati prevedendo precisamente ciò che Napoleone poteva fare, e che poi fece. L'idea di sorprenderli, di sgominarli prima di dar battaglia, fu una presunzione suggerita e alimentata anch'essa dal folle orgoglio. Avanzarsi su Charleroi per separare i due nemici e quindi avvolgerli e travolgerli uno dopo l'altro, sarebbe stato possibile se in quel luogo si fosse trovato il nodo concreto della fronte alleata da rompere; ma Charleroi era soltanto un centro geografico, come chi dicesse il luogo geometrico del collegamento nemico: l'ala inglese vi sfiorava appena la prussiana, e un attacco su quel punto poteva tanto meno essere considerato come rottura strategica, perchè il campo di manovra che l'Imperatore veniva ad aprirsi sarebbe riuscito del tutto insufficiente. Secondo la stessa teoria napoleonica, un esercito composto di cinque o sei Corpi e posto tra due pericoli, deve poter disporre, in ciascuna delle direzioni pericolose, di almeno tanto spazio quanto ne occorre per due marce. Ora l'esercito del Nord era appunto composto di sei corpi, e le due direzioni nelle quali si trovavano gl'Inglesi e i Prussiani erano pericolosissime: esso aveva dunque bisogno d'una zona di manovra lunga quaranta o cinquanta chilometri — e tra Sombreffe e i Quatre-Bras ne correvano appena dodici! Ma veniamo all'esecuzione, ed al primo atto del gran dramma: il passaggio della Sambra. Fu passata, infatti, il 15 giugno, e l'esercito, lasciata la riva destra del fiume, ne tenne l'opposta; ma questo non era il puro e semplice risultato da conseguire: bisognava anche arrivare dentro un certo tempo ai luoghi designati, distruggendo quante forze nemiche vi si trovassero. Invece il corpo di Zieten, contro il quale la superiorità numerica dei Francesi era schiacciante, potè ripiegare come e dove volle, e il fiume fu passato con molto ritardo. Perchè? Come mai i luogotenenti dell'Imperatore lasciano i bivacchi due, tre, quattro ore dopo quello prescritta? Sono incapaci?... Altri generali certo più capaci, come Davout, come Gouvion Saint-Cyr, sono stati lasciati da Napoleone in disparte per la stessa superba persuasione di non averne bisogno; ma nè Reille, nè d'Erlon, nè Vandamme sono inabili o infidi: essi non curano come dovrebbero l'esecuzione degli ordini perchè l'autocrate, chiuso in sè stesso, ha trascurato di svelare tutto il suo pensiero, di mostrare quale e quanta è la parte a ciascuno di essi affidata. E mentre il passaggio del fiume è appena iniziato a mezzogiorno, il duce supremo scende da cavallo, si fa portare una sedia e vi s'addormenta. Debolezza della carne? Sì; ma anche cieca fiducia che il sonno gli è consentito, che nulla egli ha da temere, che a tutto saprà porre riparo. IV. L'azione s'inizia. Napoleone col grosso attacca a destra i Prussiani e lancia il I e il II Corpo a sinistra, contro gl'Inglesi. Questo è l'enimma di Ney. Ney, il cuor di leone, l'eroe della Moscova, il fedele Ney che pagherà con la vita l'adesione accordata al reduce dell'Elba, il fulmine di guerra che tre giorni dopo anticiperà temerariamente le cariche della cavalleria contro Mont-Saint-Jean e avrà cinque cavalli uccisi sotto di sè, Ney, _le brave des braves_, ricevendo l'ordine di slanciarsi «a capofitto» contro Wellington e di prender posizione oltre il crocevia dei Quatre-Bras, si avanza infatti, il 15; ma, affrontatosi col nemico, giudica di non potersi impegnare a fondo, e s'arresta; il 16 esita ancora, perde tempo, attacca con una sola parte delle sue forze, non si spinge oltre il crocevia, non è neppure in grado di concorrere, dalla destra, all'accerchiamento della sinistra prussiana! Enimma nell'enimma: tutto il corpo d'esercito di Drouet d'Erlon, posto tra Ney che attacca gl'Inglesi e Napoleone che attacca i Prussiani, va dall'uno all'altro e torna dall'altro all'uno senza arrivare a combattere con nessuno dei due!... Chi ha portato a d'Erlon l'ordine scritto con la matita? Non si sa! Ma Napoleone l'ha veramente scritto? Il Lenient lo nega. La sua spiegazione del mistero è nuova del tutto. Il fatale andirivieni di Erlon è dovuto a un ordine contraffatto: un gregario, a fin di bene, in quell'esercito dove la disciplina lascia troppo a desiderare, dove lo zelo consiglia audacie pazze, ha falsificato la scrittura del capo. E Ney non ha colpa d'avere esitato. Se mai, doveva esitare anche più, disobbedire totalmente all'ordine imperiale, arrestarsi più indietro ancora, rendere così impossibili le marce e contromarce di Erlon e mettersi in grado di dare una mano a Napoleone contro Blücher. La colpa è tutta dell'Imperatore, che mentre si propone di separare i due nemici alleati e di cominciare a distruggerne uno, si divide invece egli stesso, resta con soli 80000 uomini contro i 120000 di Blücher e manda i 47000 di Ney contro Wellington, pretendendo anche che il maresciallo gliene riservi una parte. Troppo poche se debbono affrontare tutti i 95000 soldati del duca, le forze di Ney sono troppe se debbono sostenere soltanto qualche breve zuffa. E quest'ultima è veramente l'opinione dell'Imperatore: Wellington non potrà resistere, non riuscirà neanche a concentrarsi, non potrà opporre nessun serio ostacolo sulla via di Brusselle. Entrare a Brusselle è il sogno del vanaglorioso: già egli caracolla con l'immaginazione per le vie di quella città.... Un particolare è caratteristico: Napoleone dà a Ney la cavalleria della Guardia, ma gli dice: «Non ve ne servite!». La cosa è tanto incredibile che Alberto Pollio ricusa di crederla. Il Lenient vi trova invece la conferma della sua spiegazione. La cavalleria è data a Ney per mostra, come uno spauracchio contro i nemici: basterà che costoro vedano quella forza, perchè si sentano perduti. Questo concetto l'Imperatore ha di Wellington, del duca di ferro! Un concetto non molto diverso ha di Blücher: è persuaso che il maresciallo prussiano, con 120000 uomini sotto il proprio comando, non potrà, non saprà concentrarne più di 40000 a Ligny. Non contento quindi d'aver distaccato Ney contro gl'Inglesi, il temerario lascia anche inerte Lobau a Charleroi con tutto un corpo d'esercito, lo richiama troppo tardi, quando s'accorge che Blücher ha con sè tanta forza da non lasciarsi schiacciare. Potendo riuscire un trionfo risolutivo, Ligny è così una mezza vittoria e lascia indecisa la partita tremenda. V. Il 17, alla vigilia della giornata suprema, l'Imperatore può scegliere tra due obbiettivi: o inseguire e finire Blücher, oppure correre addosso agl'Inglesi. Anche ora, invece, egli presume di poter conseguire i due scopi ad un tempo. Illudendosi che Blücher sia stremato, crede che basti Grouchy ad annientarlo; 38000 Francesi in tutto, contro più di 100000 Prussiani! Egli stesso con i 60000 soldati che gli rimangono, stima di poter opprimere i 95000 di Wellington. La giornata fatale già spunta. Napoleone ha inoltrato tutte le sue forze verso Brusselle, in unica colonna, senza tentare un attacco di fianco, senza accennare ad una mossa avvolgente. Scorgendo Wellington fermo sul pianoro di Mont-Saint-Jean, lo giudica perduto — «il tempo di far colazione!» — e non si accorge che l'Inglese, certo dell'arrivo dei Prussiani, si stima intanto sicuro, nel campo precedentemente scelto e studiato, come dentro una piazzaforte. I Prussiani, secondo l'Imperatore, non possono, non debbono arrivare: Grouchy è stato da lui spedito appunto per attraversare loro la via. Ma il maresciallo ha pure un'altra missione: sostenere la destra del generalissimo. È ancora il presuntuoso sistema di voler raggiungere due scopi ad un tratto — con l'aggravante che questa volta il duplice ufficio non è assunto da Napoleone in persona, ma affidato a un povero di spirito come Grouchy! Soult, la sera innanzi, ha dimostrato la necessità di richiamarlo: il despota gli ha brutalmente ordinato di tacere, salvo a ricredersi, più tardi — troppo tardi. E Grouchy non arriva, non arriverà, non potrà mai arrivare; e invece i Prussiani spuntano all'orizzonte mezz'ora dopo l'inizio della battaglia! Anche ora, nell'ora estrema, invece di tenere le sue forze indissolubilmente unite per disfare gl'Inglesi prima che i suoi alleati siano in linea, Napoleone si divide un'altra volta, manda contro il pericolo ancora lontano tutto il VI Corpo e due intere divisioni di cavalleria! Qui spunta un altro enimma: l'impiego dell'artiglieria. Gl'Inglesi dispongono di 177 pezzi, Napoleone di 266: l'enorme vantaggio resta infruttuoso. È vero che il campo di battaglia è stato trasformato dal temporale della notte in una pozzanghera; ma il principio dell'attacco è ritardato sino alle undici e mezzo appunto per dar tempo al terreno di asciugarsi. Non è asciutto abbastanza? Ma allora come mai Wellington può far manovrare i suoi cannoni e Blücher farli arrivare da tanto lontano?... L'artiglieria può essere, è adoperata anche dai Francesi; male, però, insufficientemente, nè alle ore nè dalle posizioni opportune. Tutto un corpo d'esercito si logora contro la bicocca di Hougoumont presidiata da neanche due migliaia di nemici, quando qualche batteria ne avrebbe avuto rapidamente ragione. Espugnata a costo di sacrifizii enormi, l'altra fattoria della Haye-Sainte è difesa da batterie di cui le batterie inglesi spengono i fuochi. Napoleone, ufficiale d'artiglieria, vincitore di cento battaglie grazie al sapientissimo impiego dell'artiglieria, non se ne serve per guadagnare l'ultima posta! Distrazione? Inquietudine? Smarrimento? Impotenza? No: parossismo dell'orgoglio presuntuoso, ancora e sempre. «Che bisogno ha dei cannoni? Non c'è che lui, il suo pensiero, il suo sogno, la sua illusione....» VI. Ora, spinta a tal segno, la tesi del Lenient, in buona parte evidente e plausibile, non persuade più. Una presunzione che si astrae talmente dalla realtà potrebbe essere segno di quelle amnesie, di quelle aberrazioni, di quella involuzione e degenerazione mentale che l'autore nega risolutamente. Piace rammentare che egli stesso ha scritto: «Nei problemi complicati bisogna diffidare delle soluzioni troppo semplici». Spiegare ogni cosa con l'accecamento dell'orgoglio è veramente una troppo grande semplificazione. In flagrante iattanza, da un'altra parte, non sorprendiamo anche Blücher quando scrive alla moglie: «Con i miei 120000 Prussiani assumerei di prender Tripoli, Tunisi e Algeri, se non ci fosse di mezzo il mare»? Blücher riuscì, Napoleone fu vinto; si dovrà giudicare sulla fede dell'esito?... Napoleone si divise dinanzi al nemico: ma non si divise anche Wellington, distaccando ad Hall 20000 uomini che vi restarono inerti, mentre egli poteva esser travolto a Mont-Saint-Jean? Non fu travolto: diremo che ebbe ragione? Chiameremo errore — dice Alberto Pollio — ciò che non riesce?... L'errore proprio del Lenient consiste nell'aver voluto sciogliere tutti gli enimmi con una sola chiave. Il suo libro incatena l'attenzione del lettore anche digiuno di scienza militare, ma ansioso, oggi, di conoscere come si vince, avido di trovare nella lezione del passato la rivelazione dell'avvenire. Waterloo è l'effetto di un formidabile intrico di cause prossime e remote, particolari e generali, militari e politiche, fisiche e psichiche, materiali e morali. Quando si sono enumerate tutte, resta ancora il _quid obscurum_ vittorughiano: _quid obscurum, quid divinum_. «Era possibile che Napoleone vincesse quella battaglia? Rispondiamo di no. Perchè? Per Wellington? Per Blücher? No. A cagione di Dio....» Questa è la soluzione del poeta. Il Lenient si duole perchè sul campo della pugna eternamente memorabile fu eretto «un modesto monumento di due o tre metri in onore della _Grande Armée_, e un'interminabile colonna alla gloria di Victor Hugo». Lasciamo il metro, inadatto a paragonare le altezze morali. I soldati diedero il sangue e la vita: il poeta, narrando ai secoli le loro gesta, proferì una grande parola. _8 gennaio 1916._ Thiers, Bismarck e la guerra. La signorina Dosne, proprietaria delle carte di Adolfo Thiers, ne fece a sua volta erede il Governo francese, col solo patto che non fossero rese pubbliche prima d'un certo tempo. Il caso ha voluto che la scadenza del termine da lei assegnato coincidesse con la guerra, e che le lettere del Thiers e di altri a lui intorno al conflitto franco-prussiano del 1870-71 apparissero mentre i due popoli, a distanza di circa mezzo secolo, si affrontano ancora una volta. La lettura di questi documenti offre molto interesse, poichè dagli avvenimenti di allora gli odierni in gran parte dipendono. I. La giornata «terribile», la scena «diabolica» del 15 luglio 1870, quando Emilio Ollivier partecipò al Corpo Legislativo la dichiarazione di guerra alla Prussia, è narrata con senso divinatorio dal Thiers, il solo che avesse tanto coraggio civile da tentare di opporsi alla «follia criminale» del governo napoleonico e della maggioranza parlamentare. Come tutti gli altri patriotti francesi, meglio che gli altri, l'insigne storico e statista sapeva quale errore fosse stato lasciare stravincere la Prussia dal 1864 al '66; come e più che gli altri, egli voleva fare il possibile per evitare la minaccia gravante sul suo paese; ma si ribellò sdegnosamente «vedendo i miserabili che nel 1866 non vollero impedire il male all'origine, voler ora precipitarne le conseguenze, a rischio di renderle decisamente mortali» — sono parole scritte quarantotto ore dopo la seduta. Per correggere l'errore antico bisognava aspettare il giorno propizio; questo giorno sarebbe stato quello «in cui la Prussia avrebbe ripreso il corso delle sue usurpazioni» «Allora», scrive Adolfo Thiers al Duvergier de Hauranne, i Tedeschi del Sud, invasi da lei, si sarebbero gettati nelle nostre braccia, l'Austria non avrebbe potuto neanch'essa esitare, e l'Inghilterra sarebbe stata moralmente insieme con noi. In queste condizioni, con l'esercito tenuto in assetto, si sarebbe forse potuto rifare l'antica Confederazione germanica, o prendere sul Reno qualche pegno territoriale. Ma qualunque guerra, prima che la Prussia avesse commesso una nuova usurpazione materiale, mi sembrava una pazzia.» Ed al Rémusat, un altro dei pochi rimasti capaci di freddamente ragionare: «Voi avete indovinato. Le cause della guerra sono delle più meschine. La rivincita contro la Prussia, per offrire probabilità favorevoli, doveva essere differita. Poichè la Prussia non poteva proseguire l'opera sua, tante volte ostentata, senza mettere la mano sugli Stati del Sud della Germania, bisognava aspettare quel giorno, e allora avremmo avuto dalla nostra una buona metà dei Tedeschi, più l'Austria, costretta a pronunziarsi, più l'Inghilterra che non avrebbe tollerato nuove usurpazioni prussiane, o che, se anche non avesse partecipato alla guerra con noi, sarebbe rimasta neutrale, benevola, capace per conseguenza di trattenere la Russia. Quello sarebbe stato il momento dell'azione. Fino a quell'ora bisognava contentarsi di comporre nel miglior modo possibile gl'incidenti quotidiani, senza mettersi dalla parte del torto nel caso che una rottura fosse divenuta inevitabile....». Opporsi alla candidatura di un Hohenzollern al trono di Spagna era dunque legittimo, ma non si doveva forzare la nota. Quantunque il Governo francese avesse ecceduto nel tono della protesta, il rimedio era ancora possibile. Bisognava appagarsi d'infliggere alla Prussia un grosso scacco diplomatico. «Se pretenderete di più», aveva detto il Thiers ai ministri, «l'amor proprio entrerà in giuoco, e allora la guerra sarà inevitabile. Essa potrà andar male, nonostante il valore dell'esercito nostro, e non bisogna correre il rischio. Bisogna porre da parte il desiderio di disfare ciò che fu compiuto a Sadowa; bisogna aspettare il giorno delle future e immancabili usurpazioni prussiane.... Mi si rispose che avevo ragione, ma che disgraziatamente non credevano possibile ottenere il sacrifizio della candidatura Hohenzollern. _Replicai che si sarebbe ottenuto, ma che bisognava contentarsene_....». Fu ottenuto, infatti, come egli assicurava; ma, sciaguratamente, come egli stesso temeva, non bastò. Il dispaccio spagnuolo annunziante la rinunzia del Principe prussiano produsse un tripudio di gioia nell'Ollivier, ma non valse a soddisfare gli ultrabonapartisti, cui non importava affrontare la guerra, che volevano anzi affrontarla, sperando di affermare, con una segnalata vittoria sul nemico di fuori, il regime imperiale minacciato e minato dagl'interni avversarii. «A capo di cotesto partito si trovava il maresciallo Leboeuf, brav'uomo, soldato eccellente, ma ebbro d'ambizione e politico molto leggero. Tutti i bonapartisti si sono messi dietro di lui ed hanno fatto risonare il Gabinetto di grida furenti. Resta a sapere se l'Imperatore è stato più trascinato che non trascinasse. Fatto sta che i pacifici, formanti la maggioranza e guidati dallo stesso Ollivier, si sono lasciati intimidire ed hanno stabilito di chiedere al Re di Prussia l'impegno personale (che la candidatura del congiunto non sarebbe stata ripresentata), con lo scopo, apertamente dichiarato, di umiliarlo. Ho visto i ministri dopo il funesto Consiglio tenuto martedì, 12 luglio. Ho detto loro che avevano commesso un grave errore non dichiarandosi soddisfatti, e che la guerra tornava ad esser possibile. Mi hanno solennemente giurato che sarebbero stati prudenti, cioè poco esigenti. Nel frattempo ho fatto una vera campagna presso i deputati del Centro. Cento, a dir poco, mi hanno dichiarato che, se davo loro il segno della pace, m'avrebbero seguìto. Un buon numero di costoro sono venuti a dirmi: — Prendete il potere: siamo in duecento pronti a sostenervi; non si può lasciare il Governo in quelle mani....». Ma egli ricusa di mettersi avanti, di appagare ambizioni ed appetiti; insiste invece perchè si faccia consistere soltanto nella pace lo scopo essenziale da raggiungere. «Non ho udito una sola obbiezione, salvo tra i bonapartisti, che del resto io non frequentavo. Il mercoledì, 13, si sono rimandate le ultime spiegazioni a venerdì, 15. Ho visto e rivisto i ministri, e parecchi mi hanno dichiarato che si sarebbero dimessi piuttosto che assumere la responsabilità della guerra. Plichon, Chevandier, me lo hanno promesso....». II. Disgraziatamente, se i bonapartisti, in Francia, volevano venire ai ferri corti, i bismarchiani se ne struggevano in Prussia, e come i Francesi si erano môrse le mani vedendo sfumare, col ritiro della candidatura tedesca, l'occasione desiderata, ed avevano perciò avanzata l'eccessiva e pericolosa pretesa che il Re Guglielmo s'impegnasse personalmente a non permettere che mai più si riparlasse del suo parente, così il conte di Bismarck, leggendo la nota redatta per ordine del suo sovrano dal consigliere segreto Abeken, con la quale la risposta negativa era distesamente e serenamente riferita, pensò di «_abbreviarla_» in modo che sonasse «come una fanfara di risposta a una sfida....». Il Thiers non poteva allora conoscere questo particolare, svelato molti anni dopo dallo stesso Bismarck; ma neanche nella secca forma datagli dal ministro prussiano il dispaccio di Ems parve allo statista francese quell'«oltraggio» che vollero trovarvi in Francia. «Buoni cittadini avrebbero attenuato la cosa, si sarebbero rivolti all'Inghilterra perchè la accomodasse, e avrebbero così preservata la pace. Ma i signori ministri vi hanno veduto un motivo di mettersi col partito della guerra senza troppo disonorarsi, e di restare quindi nel Gabinetto dal quale si sentivano sul punto di uscire.... Quando, in mezzo ad un'ansietà inaudita, il manifesto è stato letto, una specie di stupore si è impadronito della Camera. I Centri hanno fatto come i ministri, si sono serviti di questo mezzo per non guastarsi col potere, e i ministri per restar tali, i ministeriali per continuare ad essere ministeriali, hanno gettato il paese ed il mondo in una guerra spaventosa. La stessa Sinistra, solitamente tanto coraggiosa, era sorpresa e paralizzata, quando io mi sono alzato con uno scatto infrenabile. E allora tutti i furori del bonapartismo si sono scagliati su me.... Cinquanta energumeni mi mostravano il pugno, m'ingiuriavano, dicevano che insozzavo i miei capelli bianchi....» L'ansia del Thiers era tanto più grande perchè, antivedendo purtroppo la sconfitta, neanche la certezza della vittoria sarebbe valsa a rassicurarlo: la guerra fortunata avrebbe anzi afforzato il partito bonapartista, nemico delle pubbliche franchige, fautore e autore di dispotismo. «Questo avvenimento che ci costerà o la libertà o la grandezza, m'ha spezzato il cuore.... Per quelli dei nostri militari che sono liberali, quale dolore, combattendo per la nostra terra, all'idea che non vinceranno se non a spese della nostra libertà!...» Ma nel terribile frangente la condotta, non solo dei soldati, bensì di tutti i cittadini, era nettamente segnata: «Il dovere non è equivoco: bisogna fare di tutto per vincere, e se fossi soldato darei francamente la vita per questa causa....». Non dovendo e non potendo combattere, egli fece tutto quanto la patria gli chiese; e non fu poco: a cominciare dalla penosa peregrinazione attraverso le metropoli europee in cerca di aiuto. Qui consiste il maggiore interesse dei documenti venuti ora in luce, per le profezie che vi si trovano, talvolta un poco involute ed incerte, talaltra singolarmente precise, intorno alle conseguenze dell'incontrastato trionfo tedesco e della profonda umiliazione francese. III. Il Mignet scrive al Thiers, a Londra: «Gli augurii e i consentimenti continuano a seguirti nella tua patriottica missione. Così possa riuscire, per l'onore e l'interesse delle grandi Potenze europee, non meno che per il sollievo e l'integrità della Francia, abbandonata ad un'invasione che resta ora senza fondato motivo da parte d'una Potenza oggi soltanto conquistatrice. L'Inghilterra, la Russia e l'Austria hanno eguale interesse ad opporsi alla devastazione, alla rovina, alla menomazione territoriale della Francia. Il mantenimento dell'equilibrio europeo importa ad esse in egual grado. L'unità della Germania sotto la Prussia, divenuta certa, in fatto, grazie alla guerra, e destinata a compiersi, in diritto, dopo la pace, renderà l'orgogliosa e bellicosa Prussia preponderante sul continente. Se la si lasciasse tendere ad ingrandirsi con annessioni a spese nostre, presto o tardi, quando l'occasione favorevole si presentasse, essa sarebbe disposta a riunire al futuro e inevitabile impero germanico i Tedeschi delle province austriache e quelli delle province russe del Baltico. Tollerare che soddisfi la propria ambizione a spese della Francia, importa esporsi al pericolo che la sua ambizione si rivolti contro l'Austria e contro la Russia. _Se non le s'impedisce d'essere invadente oggi, la si renderà pericolosa per tutto il mondo in un avvenire immancabile_....». Ma il Thiers non raccoglie altro che delusioni. Il Tissot, incaricato d'affari a Londra, gli scrive il 14 ottobre, a Firenze: «La situazione è qui press'a poco quale l'avete lasciata. Il Governo inglese continua a chiudersi nel proponimento dell'astensione e persiste nel non voler intervenire se non quando gli sarà provato che la sua mediazione avrà qualche probabilità di riuscita». E il 12 novembre, notando le simpatie dell'opinione pubblica e riferendo le promesse di Lord Grenville: «In fondo a queste simpatie che l'Inghilterra ci dimostra, c'è senza dubbio il sentimento molto egoista dei pericoli che la minacciano; ma non importa: l'essenziale è che essa comprenda oggi questi pericoli da lei tanto lungamente negati. L'arroganza teutonica vi ha contribuito più ancora, forse, che i nostri disastri. La stampa germanica già reclama Heligoland come chiave del Mare del Nord. Quanto all'Olanda, essa sarà chiamata a far parte del Zollverein, aspettando che occupi, di buona o mala voglia, il posto che già le è assegnato nella Confederazione tedesca. Tali sono le conseguenze prossime, ed altre se ne intravedono in un avvenire più o meno lontano. _Tutto ciò_ — mi diceva ieri il signor Otway, sottosegretario agli affari esteri — _finirà con una coalizione europea contro la Germania_....». Meno fortunati ancora dovevano riuscire i tentativi compiuti dal Thiers presso il governo russo. Il marchese di Gabriac, incaricato d'affari francese a Pietroburgo, gli scrive di lì, dopo la sua partenza: «Il partito tedesco, in minoranza nel paese, ma forte quanto sapete, ha sfruttato presso l'Imperatore la notizia delle scene di disordine avvenute in Francia, segnatamente a Marsiglia ed in una parte del Mezzogiorno. Si sono distesamente riferite nei giornali le tristi scene dell'Hôtel de Ville. Dall'altra parte la capitolazione di Metz ci ha naturalmente nociuto molto come effetto morale, e, militarmente parlando, se ne è concluso che, non avendo più esercito regolare da opporre al nemico, la nostra resistenza non è più se non un atto d'inutile ostinazione....». Dopo aver notato alcuni sintomi di migliori disposizioni alla notizia dei nobili sforzi della Difesa nazionale, ed accennato allo scambio di note delle grandi Potenze, il Gabriac osserva: «Se la guerra durerà ancora a lungo, mi sembra probabile che non vi sarà altra politica tranne quella delle cupidige individuali, con appena qualche intermezzo. Del resto sarà la stessa che è moralmente prevalsa dopo lo schiacciamento della Danimarca e di cui noi portiamo oggi la pena, senza speranza di risollevarci interamente, _finchè le due grandi nuove agglomerazioni uscite da questo disordine, il germanesimo e lo slavismo, si urtino in una lotta suprema_ da cui spero che saremo tanto abili per fare nuovamente uscire il regno della giustizia e del buon senso....». E la Russia disse pure una buona parola; il Cancelliere dello Zar consentì che il Gabriac partecipasse a Giulio Favre, ministro degli affari esteri della Repubblica, che «il desiderio della Russia di vedere risparmiate alla Francia le cessioni territoriali non era ignoto a Berlino». Ma poi, con la totale distruzione delle forze militari francesi, il ministro moscovita tenne tutt'altro linguaggio: ogni Potenza, fece osservare al Gabriac, ha dovuto compiere sacrifizii in seguito a guerre disgraziate.... IV. Il Thiers e il Favre sostennero sforzi sovrumani durante le trattative della pace. «Ci trovavamo», narra il primo al duca di Broglie, ambasciatore a Londra, «nella posizione d'un esercito ridotto ad arrendersi a discrezione, cioè nell'impossibilità di resistere. Ho resistito nondimeno, e talvolta con violenza. Volevano portarci via tre quarti della Lorena (l'Alsazia era già sacrificata): ne abbiamo serbato i quattro quinti: ma abbiamo perduto Metz. Bisognava scegliere tra Metz e Belfort. Volevano togliercele entrambe. Io ho rivolto i miei sforzi su Belfort, perchè Metz non chiude nulla, mentre Belfort sbarra la frontiera dell'est, e particolarmente quella della Germania meridionale. La lotta è durata nove ore. Finalmente ho salvato Belfort....» Ma c'era ancora la quistione finanziaria, quell'indennità di cinque miliardi, il cui annunzio, secondo riferiva il Broglie al Thiers, aveva prodotto in Londra un «vero scandalo». «Il pubblico inglese», soggiungeva l'ambasciatore, «si sente toccato nel vivo. Esso sa che sarà lui quello che, di buona o mala voglia, pagherà i cinque miliardi, o almeno il più grosso boccone dell'enorme bottino. La richiesta di capitali e di numerario che saremo costretti a rivolgere a tutti i mercati del mondo, ed all'inglese particolarmente, che è il primo, lo turba straordinariamente. Il pensiero che questo capitale, di cui i tralasciati lavori della pace aspettavano impazientemente l'impiego, è sul punto di essergli sottratto per ficcarsi nel tesoro di guerra d'un esercito ancora conquistatore, l'irrita e lo sdegna.... La _City_ è come un formicaio su cui la Prussia ha posto il piede....» Ma forse l'immagine era più bella che fedele, o le formiche si sentirono impotenti contro il piede; perchè, ad eccezione d'un tentativo compiuto _in extremis_, «veramente molto insignificante e tardivo, per aiutarci ad ottenere la riduzione d'un miliardo» — sono parole del Broglie — e ad eccezione dell'offerta di favorire l'emissione del prestito, l'Inghilterra non seppe far nulla per moderare le pretese del vincitore. «Si può dunque dire», conclude amaramente il Thiers, «che, avendoci abbandonati, l'Europa è il vero autore del trattato che abbiamo firmato; trattato tanto crudele per lei quanto per noi, poichè i miliardi che dalla nostra cassa passeranno in quella prussiana saranno altrettante forze tolte all'Europa _e portate al dispotismo germanico che si prepara_....» Sarebbe riuscito veramente difficile far intendere alla Prussia il linguaggio della moderazione, se le grandi Potenze avessero voluto veramente, fermamente tenerlo? La discrezione nella vittoria era stata la legge che il Bismarck si era imposta, e che aveva imposta agli stessi militari ed al Re, nel 1866. Se qualcuno l'avesse imposta a lui nel 1871, egli si sarebbe risparmiato l'ammonimento che, perduto il potere, rivolgeva ai suoi successori, e del quale Gabriele Hanotaux ha pur ora avvertito il profetico senso: «Il mio timore è che, sulla via per la quale siamo posti, il nostro avvenire resti sacrificato ai mutevoli umori del giorno.... Il nostro prestigio e la nostra sicurezza si affermeranno tanto più durevolmente, quanto più nelle contese che non ci toccano direttamente ci terremo da parte, e quanto più saremo insensibili ad ogni tentativo di solleticare e sfruttare la nostra vanità.... La Germania commetterebbe anche oggi un grosso sproposito, se nella quistione orientale, e senza avervi un interesse proprio, volesse prendere partito prima delle altre Potenze più interessate di lei.... Essa è forse la sola grande Potenza d'Europa che sia meno tentata da fini raggiungibili solo mediante guerre vittoriose. Il nostro interesse è quello di conservare la pace.... A questa situazione dobbiamo conformare la nostra politica: impedire cioè quanto più è possibile o limitare la guerra: non lasciarci forzar la mano nel giuoco di carte europee, non lasciarci vincere dall'impazienza, da nessuna compiacenza a spese del paese, da nessuna nostra vanità come da nessun incitamento d'amici. Altrimenti, _plectuntur Achivi_....». _26 agosto 1916._ Un profeta del pangermanesimo: EDGARDO QUINET. Mathieu de Mirampal, al tempo della Rivoluzione francese, propose di far viaggiare gli adolescenti in Germania, «per ritardare, grazie ai rigori del clima, l'età della pubertà». La stravaganza del consiglio, e quella dei molti contemporanei giudizii intorno all'indole delle popolazioni teutoniche, può dare un'idea della ignoranza degli scrittori che li proferirono. Un giorno ci si mise una scrittrice, colei che fu chiamata Imperatrice del Pensiero per far dispetto a Napoleone Bonaparte, Imperatore di Francia — e l'_Allemagne_ della signora di Staël riuscì un'apologia, anzi un'apoteosi. Il bello fu questo: che gli stessi Tedeschi non vi si riconobbero, e dissero che l'autrice «nulla ha visto, nulla ha udito, nulla ha capito....». Corinna meritò quest'accoglienza, perchè non fu sincera: ella esaltò la Germania per combattere Napoleone che l'aveva sottoposta. E mentre il suo libro era male accolto tra le genti che portava al cielo, lo applaudirono invece con gran calore quegli stessi Francesi che festeggiarono le truppe della Coalizione accampate a Parigi nel 1814. Perchè Bonaparte era stato dispotico, quei cittadini dimenticarono che nel despota, intanto, era impersonata la patria, e in odio a lui gioirono della disfatta, e accettarono come articoli di fede le lodi tributate dalla Staël ai loro secolari nemici. È vecchia sentenza che la passione acceca. E la passione politica continuò ad offuscare la vista dei Francesi durante la Restaurazione ed al tempo della monarchia di Luglio; per il disagio sofferto sotto quei regimi, gli spiriti insofferenti si volsero a cercare oggetti di ammirazione oltre confine. Il romanticismo letterario contribuì anch'esso a mettere in voga i costumi alemanni; gli stessi progressi compiuti dalla scienza tedesca accrebbero quel fervore, a segno che il Michelet scriveva nel 1828: «la _mia_ Germania, il _mio_ Lutero, il _mio_ Grimm» — e non chiamava _suo_ Giambattista Vico, a cui doveva pur tanto, e di cui aveva tradotto l'opera. Un altro giovane scrittore amico del Michelet e destinato anch'egli alla celebrità — Edgardo Quinet — si recava tre volte in Germania con l'ardore d'un pellegrino, sposava una Tedesca, chiamava «_nostra_» Eidelberga, e leggendo e traducendo e presentando ai suoi connazionali la _Filosofia della storia del genere umano_, dichiarava d'aver trovato nel libro tedesco «una fonte inesauribile di consolazione e di gioia: mai, no, mai mi è accaduto di chiuderlo senza avere un'idea più nobile della missione dell'uomo su questa terra; mai, senza credere più profondamente al regno della giustizia e della ragione; mai, senza sentirmi più devoto alla libertà, alla mia patria, e più capace di buone azioni». I. Quel filosofo esordiente sarebbe rimasto molto stupito se gli avessero detto che il suo entusiasmo per la Germania avrebbe, di lì a poco, dato luogo ad un sentimento molto diverso. La prima impressione di doccia fredda fu da lui provata quando, innamoratosi di Minna Morè e scambiata con lei la promessa nuziale, conobbe da vicino i fratelli della sposa, Tedeschi fanatici, inconciliabili nemici della Francia, i quali indussero la giovanetta a ritirare la parola data. Molto penosa fu la crisi del disinganno, ma potè essere superata, e qualche anno dopo Minna sposò Edgardo, e lo rese felice; ma il velo attraverso il quale egli aveva visto la patria di Arminio gli era intanto caduto dagli occhi: egli si guardò intorno, prestò attentamente l'orecchio, e vide e udì ciò che a tutti gli osservatori sfuggiva allora, e doveva ancora sfuggire per lungo ordine d'anni: «_segni_ in fondo alle cose, come un mormorio che partiva non si sa donde, indistinto e indefinibile; conversazioni rare, parole interrotte, improvvisi entusiasmi che scoppiavano e svanivano come lampi: _la grandezza della Germania_....». Paolo Gautier, raccogliendo oggi tutti gli articoli nei quali, dal 1831 al 1870, il Quinet avvertì la Francia di ciò che si preparava nell'animo della nazione rivale, ci dà modo di apprezzare la singolare chiaroveggenza dello scrittore. Mentre il popolo tedesco pareva ancora, come era parso a lui stesso nella prima fase dell'ammirazione, e come forse era stato in altri periodi della sua storia, contemplativo, meditabondo, rifuggente dalla realtà, incapace di passare dalle idee agli atti — «annegato nell'infinito», aveva detto la Staël — il Quinet colse i sintomi del mutamento, dell'orientazione dello spirito pubblico verso l'attività pratica e politica, dell'aspirazione all'unità nazionale, dell'ambizione di farsi largo nel mondo: sentimenti e movimenti già così profondi, «che non resta più a quel popolo se non afferrare la corona universale». Queste parole sono del 1842. Undici anni innanzi, scrivendo al Michelet, Edgardo Quinet annunziava all'amico che le cose erano molto mutate in Germania dacchè entrambi avevano lasciato quel paese, «e l'unità tedesca si prepara in modo così minaccioso, che non ho resistito al bisogno di descriverne i progressi inevitabili». Nella sua descrizione — un articolo intitolato: _La Germania e la Rivoluzione_ — il Quinet nota che l'antica imparzialità e serenità, che l'apatia politica e la tendenza al cosmopolitismo hanno dato luogo in Germania ad una «nazionalità irritabile e collerica»; che la libertà non è tra i più urgenti bisogni di quel popolo; che il partito democratico, ed anche il demagogico, hanno fatto pace col Governo della Prussia dopo che questo ha dato al paese ciò di cui esso è ora cupido: «l'azione, la vita reale, l'iniziativa sociale», appagando «il repentino infatuamento per la potenza e per la forza materiale». Tra i governati e i governanti «c'è una secreta intesa per rimandare l'avvento della libertà e mettere in comune l'ambizione di conseguire la fortuna di Federico II». Il dispotismo prussiano è più minaccioso dell'austriaco, perchè non risiede soltanto nel Governo, «ma nel paese, nel popolo, nei costumi e nel portamento da _parvenu_ dello spirito nazionale». Benchè preparati ad apprezzare l'efficacia delle idee, i Francesi si sono addormentati per quanto concerne «il moto dell'intelligenza e del genio tedesco»: lo ammirano ingenuamente, credendolo immune dall'ambizione «di passare dalle coscienze nelle volontà, dalle volontà agli atti, e di aspirare alla potenza sociale ed alla forza politica». Ma ecco: quelle idee che dovevano restare incorporee «fanno come tutte le altre idee apparse nel mondo, e si sollevano contro di noi con tutto il destino d'una razza, e questa razza si pone sotto la dittatura di un popolo — il prussiano — non già più illuminato, ma più avido, più ardente, più esigente, meglio addestrato agli affari. Essa gli affida le sue ambizioni, i suoi rancori, le sue rapine, le sue astuzie, la sua diplomazia, la sua gloria, la sua forza.... La Germania è dunque intenta oggi a sostituire, come suo agente, la Prussia all'impero d'Austria? Sì: e se sarà lasciata fare, la spingerà lentamente, da tergo, all'assassinio del vecchio regno di Francia». Scritte nel 1831, queste parole tolsero il riso al Michelet, come confessò egli stesso, «per dieci anni». Al loro paragone, le pagine sull'_Arte in Germania_, composte l'anno appresso, fanno meno impressione, ma sono anch'esse degne di nota, perchè l'ansia dello scrittore cerca e trova più sottili ma non meno fondate ragioni d'inquietudine nella stessa attività fantastica del popolo nemico. Finora, in Germania, l'arte è stata senza patria; il più grande scrittore tedesco, Volfango Goethe, si è mantenuto superiore a questa come a tutte le altre passioni umane; ma già i buoni cittadini sono sconcertati dalla sua olimpica impassibilità; già i nuovi artisti, nella musica, nella pittura, in poesia, si accostano al popolo, attingono alle tradizioni, celebrano i fasti della razza. Se Uhland è «il Béranger tedesco», Goerres «ha ricevuto la missione di gettare una volta per sempre nell'arena la massa inerte della Germania e di scatenare il mostro»: quel Goerres che, per punire l'infedeltà commessa dall'Alsazia nel farsi francese, proponeva di bruciare la cattedrale di Strasburgo eretta nel secolo XV dal genio tedesco, e di lasciare intatta la sola guglia «per l'eterna vendetta dei popoli germanici». II. Più il Quinet conosce la Germania nuova, più ne diffida. Nel quinto articolo, composto nel 1836, egli denunzia il dissolvimento dell'antico spiritualismo tedesco, ammonisce la Francia di non rappresentarsi la rivale «come un Eden popolato da poeti, e l'intera nazione come la Bella addormentata nel bosco: immagine vera cinquant'anni addietro, ora non più». La _Giovine Germania_ ha «scoperto» che l'uomo è di carne e d'ossa, e si è quindi messa a sciogliere inni al corpo. Ubbriacati dalle lodi che il mondo aveva loro tributate, i Tedeschi hanno preso coscienza di sè, e la febbre dell'orgoglio li ha assaliti. Ma, dopo la prima ebbrezza, si sono guardati attorno: hanno visto che il loro paese è chiuso, in terra, tra la Francia e la Russia, e che l'Inghilterra lo blocca dal mare. «Hanno cercato allora quale grande pensiero portassero in sè per rinnovare il mondo, e hanno trovato la _teutomania_....» La parola è pronunziata dal Quinet nel 1842, e gli serve per intitolare il nuovo articolo, nel quale l'autolatria, già entrata nel cuore della Germania prima ancora di aver conseguito l'unità politica ed ottenuto il predominio militare, è denunziata con parole gravi. Ma più gravi di tutte, veramente terribili, sono quelle che il polemista scrive dall'esilio, nel 1867, dopo Sadowa. In questo nuovo studio, intitolato _Francia e Germania_, egli comincia con l'avvertire che la vittoria prussiana non è soltanto il segno d'una crisi, che è anzi la rivelazione «di un nuovo stato del mondo». L'unità tedesca non può più essere impedita da nessuno, ma essa non si viene conseguendo «con la giustizia e la libertà, bensì con l'ingiustizia e l'arbitrio». I Tedeschi sono ora convinti di aver conquistato il dominio degli spiriti in Europa, «e tengono per fermo che tutto emana da loro: scienza, poesia, arte, filosofia, e che il mondo è divenuto loro discepolo. A cotesta presunta sovranità che cosa manca ancora? La forza. Ecco che se ne sono, ora, impadroniti. Per loro, non c'è soltanto un impero di più nel mondo, è avvenuta senz'altro la sostituzione dell'êra germanica all'êra dei popoli latini, relegati in un piano inferiore». Rivolto al popolo tedesco, lo scrittore francese gli fa osservare: «Fino ad oggi il dispotismo prussiano è stato violento, iniquo, ma non si è data la pena d'esser falso. Si è servito di armi palesi: l'audacia, la temerità, la sfida, senza avvelenarle con la menzogna, e la menzogna è quella che corrompe l'avvenire. Fin qui, dunque, il principio del diritto, della vita morale, può ancora essere restaurato e salvato. Ma badate che il momento decisivo non è ancora giunto. Sarà quello in cui cotesto dispotismo avrà bisogno di travestirsi, di mutar nome e linguaggio, di mettersi la maschera della libertà e della democrazia. Allora tutto minaccerà di falsarsi e snaturarsi. Che faranno quel giorno i Tedeschi? Sarà l'ora dei tranelli. Vogliono essi cadervi? Quando il dispotismo si travestirà da democrazia, la democrazia, sempre compiacente, sposerà il dispotismo? Se mai coteste nozze si celebreranno, dite per sempre addio a quanto avete conosciuto della vita tedesca: probità dell'intelligenza, acume, grandezza dello spirito, genio, gloria; tutto sparirà, tutto naufragherà nella confusione del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto, del vero e del falso»: avvenimento inevitabile, perchè già «la democrazia tedesca si è riconciliata con chi la calpestava». Non mancano i liberali, in quel paese, e credono anche d'esser padroni dell'avvenire; ma s'illudono. Non lasciano essi che l'unità della patria si compia con la violenza e le conquiste? Come possono dunque prometter nulla, «dopo la fatalità a cui si rassegnano?». Se questa fatalità dovesse un giorno ripresentarsi, «nulla impedirà che essi vi si rassegnino con più filosofia e più pazienza». Quando si pensa come i Tedeschi si accordarono nel volere la guerra, sembra propriamente che Edgardo Quinet abbia letto nell'avvenire. Ma non c'è in lui, come non c'è in nessun uomo, la capacità di antivedere il futuro: c'è soltanto, come bene avverte il Gautier, «un senso più intimo delle realtà e delle grandi leggi storiche che si governano». La riprova è questa: che quando lo studioso non tiene conto di tutti i fatti, o quando le leggi sono troppo complesse, le sue previsioni non riescono altrettanto sicure. Fin dal 1842, ad esempio, egli preannunziava l'alleanza franco-russa: «Gli scrittori tedeschi vogliono proprio inimicare i due paesi — Francia e Germania — trascurando di pensare che una sola stretta di mano della Francia e della Russia potrebbe bene, all'occorrenza, stringere oltre misura i fianchi di Teutonia?». Ma il Gautier, ponendo in evidenza l'accortezza di questo giudizio, non avverte che un altro ragionamento porta il Quinet ad una conclusione contraria: «Avete dimenticato che la Russia era con la Prussia e con la grande Germania a Lipsia? Ecco, senza parlare degli interessi comuni, il legame sacro tra loro....». Quando scrive queste parole, lo stesso Quinet ha dimenticato d'aver detto che la gran rivale della Germania è la Russia, perchè — e qui ha indovinato — «i Tedeschi sono fatalmente attratti verso l'Oriente». Queste ed altre esitazioni e contraddizioni sarebbero tuttavia trascurabili senza quelle che concernono il principale argomento delle indagini e delle inquietudini del pubblicista francese. Il quale, dopo avere denunziato con parole tanto concitate i pericoli dell'autocrazia prussiana inebbriata dalle sue fortune guerresche, scrive che «del resto, fra i Tedeschi, la gloria militare non degenera in superstizione, perchè è dominata dalla gloria dei riformatori, dei poeti, degli artisti». Lutero, Goethe e Schiller, soggiunge, «passeranno sempre prima di Blücher. Lo splendore dell'uniforme, che affascina gli altri popoli, non è la principale magia dall'altra parte del Reno». E allora egli stesso non teme più ciò che lo ha tanto spaventato: «Io posso dunque concepire un impero fondato sul fucile ad ago, e nondimeno incapace di far tutto consistere nel militarismo. Gli resterebbero, a suo dispetto, forze molto diverse da quelle della spada». III. La verità è che il Quinet aveva troppo amato la Germania, un tempo, perchè potesse poi odiarla. La detestò certamente quando, tornato dall'esilio alla caduta del Secondo Impero, vide avverarsi la disfatta e la mutilazione della patria che egli aveva predette; ma, prima dello scempio, serbò sempre in cuore qualche cosa della fede nutrita negli anni più belli. C'è anche nei suoi giudizii un errore, grave di conseguenze: quello di procedere per distinzioni troppo radicali fra popolo e popolo, di assegnare a ciascuno di essi qualità diverse e discordi, e funzioni separate ed opposte. E sapete, fra parentesi, in che cosa consisterebbe la parte dell'Italia? «L'Italia ha per sè la libertà dei costumi, la vita facile, la felicità e l'esaltazione dei sensi, la noncuranza prodotta dall'abitudine delle rovine; ella ha segnatamente al suo servizio l'arte, che dovunque altrove è uno sforzo, ed in lei istituzione divina e naturale». Faremmo torto al nobile scrittore se ci fermassimo su questa sentenza: non dimentichiamo la simpatia che egli accordò alla causa nostra, nè i rimproveri acerbi che mosse alla Francia di Napoleone III per averci abbandonati a Villafranca, nè l'esortazione che rivolse all'Austria, «di sollevare un momento la pesante zampa distesa sull'Italia». Ma, per tornare in argomento, tanto è ancora il credito da lui accordato alla Germania, che riconosce ai paesi di lingua tedesca «il senso della felicità domestica, le cure della famiglia, la calma dei costumi tradizionali, la vita religiosa, la vocazione per la scienza». L'Inghilterra si distingue per l'industrialismo; l'America del Nord per il culto della libertà; alla Francia resta riservato l'istinto e l'istituto della civiltà: «da due secoli la Francia ha posto il suo destino nel farsi organo dominante della civiltà». Ora, come non osservare che, precisamente per questa volontà di dominio, riuscita un giorno troppo molesta alle altre nazioni, tutta l'Europa si collegò contro la Francia, e che al «sole di Campoformio» tennero dietro le nebbie della Beresina e le tenebre di Waterloo? Dopo Napoleone I, scrive il Quinet, è divenuto impossibile che, «per la _stessa_ causa», si scateni la «gran guerra, la guerra universale». E qui non cogliamo in fallo il profeta? La guerra universale, oggi, non si è scatenata per la _stessa_ causa, avendo la Francia saviamente deposta l'ambizione di primeggiare, ma per una causa _simile_. «Da 15 anni», scrive il Quinet nel 1832, cioè dalla caduta del Primo Impero, «il posto della Francia resta vuoto; da 15 anni la corona della civiltà moderna si trascina con lei nel fango. Chiunque può raccattarla e prenderla a suo talento; non bisogna far altro che chinarsi: chi lo impedisce?...». Lo impedisce, appunto, una coalizione simile a quella formatasi contro l'impero napoleonico, e soltanto più vasta, perchè più forte è il popolo che non ha resistito alla pericolosa tentazione di raccattare quella corona. Il mondo non è più disposto a tollerare che nessuno se la ponga in capo; nessuna benevolenza verso la civiltà dà diritto ad egemonie. Lo stesso Quinet, con un'altra contraddizione che gli fa onore, dopo avere attribuito ad ogni nazione una parte distinta nel gran concerto umano, domanda a sè stesso: «Nel caos di opinioni, di idee, di poesia che si agita in ogni angolo d'Europa, come riconoscere l'elemento che ciascun popolo vi porta? Lo spiritualismo del Nord, il materialismo del Mezzogiorno, l'eguaglianza francese, l'industria inglese tendono a stabilirsi e coesistere ovunque contemporaneamente». Allora, che cosa concludere? Questo: che tra i voti — se non tra le profezie — dello scrittore francese, il più bello, il più degno di avverarsi è che il Reno diventi un giorno «il fiume di alleanza dove si mescoleranno il genio della Francia e della Germania», e che una nuova guerra tra le due nazioni debba considerarsi, come in cuor suo egli già la considera, «guerra civile». Fino ad oggi — oggi più che mai — «il genere umano è stato in guerra con sè stesso». Composti i dissidii, cessata «la solitudine dell'orgoglio», il posto degli uomini sia al focolare «non d'un popolo, ma dell'umanità». _1.º novembre 1917._ L'Imperatore liberale: FEDERICO III. Se è vero che «i vituperi di nemico a nemico onta non fanno», le lodi di nemico a nemico fanno senza dubbio tanto onore a chi meritamente le ottiene quanto a chi doverosamente le tributa. Che in piena guerra contro la Germania ancora accampata in terra francese, un Francese, un membro dell'Istituto, Henri Welschinger, pubblichi una grossa biografia apologetica di uno dei principali autori delle vittorie del 1870, di un Hohenzollern, del padre di Guglielmo II, è cosa degna d'esser notata, particolarmente in Italia, dove le virtù di quell'infelice sovrano furono conosciute più da vicino e poterono quindi esser meglio apprezzate. I. Certo, da Principe ereditario e da Imperatore, Federico Guglielmo ebbe piena coscienza del dovere di lavorare alla grandezza del suo paese; ma quanto le vie che egli intendeva seguire per assicurarla fossero diverse da quelle che i governanti batterono col consentimento ed il plauso della nazione, si vide dalla guerra che gli fu mossa nella stessa Germania. Ammiratore delle istituzioni politiche inglesi, profondamente devoto alla Regina Vittoria, della quale aveva sposato la figlia Vittoria, l'erede del trono prussiano riuscì tanto inviso al ministro del proprio padre, da vedersi escluso dai pubblici negozii e giudicato finanche non incapace di tradire gl'interessi della patria! Ottone di Bismarck lo tenne al buio, sempre che potè, delle notizie di governo, temendo che le rivelasse alla moglie, la quale le avrebbe a sua volta partecipate alla Corte britannica. Discutendosi, durante la guerra contro la Francia, alte quistioni di Stato, il ministro osò chiudere la bocca al suo futuro sovrano, e quando si firmò la pace gli nascose il grande avvenimento; un giorno lo accusò senz'altro di comunicare ai suoi «piccoli amici d'Inghilterra» ed ai «ciarlatani politici» le note e le osservazioni che il Principe riflessivo e studioso consegnava alle pagine di un suo diario intimo. «Ciarlatani», naturalmente, erano, a giudizio di Bismarck, i progressisti dei quali Federico Guglielmo amava circondarsi. Quello che fu chiamato _incidente di Danzica_ aveva dato inizio alla lotta. Recatosi nell'antica città polacca per compiervi un'ispezione militare, l'erede del trono vi giungeva il 31 maggio del 1863, vigilia della pubblicazione di un decreto che restringeva la libertà di stampa: alle espressioni di rispettoso rammarico rivoltegli il domani dal borgomastro, Federico Guglielmo si affrettava a rispondere manifestando il rammarico suo proprio per essere giunto mentre, a sua insaputa, si produceva tra il governo ed il popolo un disaccordo del quale non aveva la minima responsabilità. Non contento di questa assicurazione, il Principe mandava a Bismarck una formale protesta contro il reazionario decreto ed esigeva che fosse comunicata al Ministero di Stato. Bismarck, di rimando, accusava il figlio al padre; ma, ai rimproveri paterni, Federico Guglielmo rispondeva giustificando la propria condotta, e scriveva al ministro dichiarandogli che la sua politica non dimostrava nè affetto nè stima verso il popolo, che era fondata sopra discutibili interpretazioni della costituzione, che la svalutava agli occhi del Re, e avrebbe anzi finito con lo spingerlo a violarla: per conseguenza, lo scrivente chiedeva d'essere esonerato da tutte le sue cariche ufficiali e dispensato dal partecipare ai Consigli dei ministri. Come se non fosse abbastanza per suscitare la collera bismarchiana, il _Times_ pubblicava una particolareggiata informazione intorno all'incidente, rallegrandosi col Kronprinz per avere una moglie educata a quei principii liberali che egli stesso tentava di far prevalere anche in Prussia. Nell'impeto dell'ira, Bismarck accusò al Re la Principessa ereditaria, la Regina Vittoria, e la stessa Regina prussiana — Augusta di Sassonia-Weimar, anch'ella favorevole al partito progressista — come autrici della ribellione del Principe; ma questi confermava al padre d'esser contrario alla politica dispotica, che avrebbe recato gran danno alla dinastia e pregiudicato l'avvenire della nazione, e gli consegnava inoltre un memoriale dove erano partitamente precisate tutte le ragioni del suo malcontento. E Bismarck, a cui il Re Guglielmo partecipava quello scritto, vi apponeva in margine i più acri commenti, osservando che la condotta dell'erede del trono, suggeritagli probabilmente dalla Principessa, cupida di guadagnare al marito il favore popolare, era una vera e propria ribellione alla Corona, passibile di giudizio e di castigo, più pericolosa della stessa propaganda anarchica, capace finanche di provocare qualche odioso attentato contro la persona del Re! II. Il dissidio tra quei due uomini non poteva comporsi, perchè dipendeva dall'intima e quasi organica diversità della loro natura. Mentre l'uomo di ferro, duro, testardo, iracondo, violento, non intendeva adoperare altro che la forza per conseguire l'unità tedesca, il Principe mite, generoso, persuasibile, giudicava la forza «non necessaria»; e mentre l'astuto, infinto e mendace ministro procedeva per vie oblique e tortuose, il Principe franco e leale manifestava apertamente tutto il proprio pensiero e non sospettava la doppiezza altrui. Iniziandosi, con la guerra danese del 1864, l'effettuazione del programma bismarchiano, Federico Guglielmo, infatti, non scopre subito il giuoco; ma, non appena comprende le secrete mire del ministro, «il secondo fine di qualche ingrandimento prussiano», tosto gli scrive: «Lasciatemi brevemente dirvi la mia opinione: cioè, che tali disegni falsano tutta la nostra politica tedesca e ci preparano complicazioni con l'Europa». E quando, nel 1866, la Prussia dichiara guerra all'Austria, sua complice nell'aggressione di due anni innanzi, rigettando su lei l'accusa di menzogna, di perfidia e di malafede, l'erede del trono fa di tutto per evitare il conflitto e non nasconde neanche all'esercito il proprio rincrescimento: chiamato al suo posto di battaglia, compie egregiamente il suo dovere di soldato e arriva in tempo a Sadowa per decidere le sorti della giornata; ma sullo stesso campo della grande vittoria esclama: «Colui che con un tratto di penna scatena la guerra non sa che cosa fa uscire dall'inferno!». Il trionfo non lo inebbria, non lo converte ai metodi preferiti dai militaristi: nel 1867, a chi considera leggermente l'eventualità che la quistione del Lussemburgo si risolva con le armi, osserva severamente: «Voi non avete visto la guerra, signore; altrimenti non ne pronunziereste tanto facilmente il nome. Io che mi sono trovato a faccia a faccia con questa cosa terribile, io vi dico che il più grande dei doveri consiste nell'evitarla, quando è possibile. Dichiararla è assumere una ben grave responsabilità. Un uomo di Stato, anche quando ne prevede la necessità, non dovrebbe mai provocarla per via di artifizii....». E nel 1870 egli accetta la nuova sciagura appunto perchè non sa che Bismarck si è servito di «artifizii» — la falsificazione del dispaccio di Ems — per far credere che la Prussia sia stata provocata; ma, nel condurre le operazioni militari, mentre lo spietato politico vieta che si conceda quartiere e che si facciano prigionieri, il Principe soldato si duole nel vedere i campi di Francia deserti «per paura degli antropofaghi tedeschi», e impartisce quindi gli ordini più severi affinchè le popolazioni siano rispettate, e lamenta che in quella «lotta di giganti nulla sarà risparmiato al mio orrore della guerra». A Sedan sconsiglia tutto quanto può umiliare il vinto Napoleone, e dal premio della vittoria sarebbe disposto ad escludere Metz, e prevede che l'acquisto dell'Alsazia e della Lorena «potrà riuscirci molto precario». III. Nelle grandi e nelle piccole cose il suo pensiero differisce da quello dei dirigenti. Mentre gli ambiziosi vogliono fondare l'impero, Federico Guglielmo ha idee più modeste: si contenterebbe che la Germania fosse costituita in Regno, e propone per conseguenza che tutti i capi degli Stati da riunire nel nuovo reame rinunziino ai loro particolari titoli di Re, Principi e Granduchi, per ridursi semplicemente a duchi. Regno od Impero, del resto, «il principale nostro scopo», scrive, «è di edificare una Germania libera». Disgraziatamente, non può illudersi di raggiungerlo finchè il timone dello Stato resterà nelle stesse mani che ora lo reggono: «Dove trovare gli uomini capaci di comprendere e di esporre i veri principii, i principii necessarii a consolidare le nostre fortune?». Questi principii sono tanto avversati, che mentre egli fa distribuire ai soldati feriti un giornale liberale, Bismarck ne ordina il sequestro! Come fare assegnamento, in queste circostanze, sulla fondazione d'un Impero democratico? «Solo quella futura età nella quale si dovranno fare i conti con me potrà riuscirvi. Le esperienze compiute durante dieci anni non mi saranno tornate inutili. Io sarò più che altro il primo principe che si presenterà al popolo lealmente e incondizionatamente affezionato alle leggi costituzionali». Coerenti a questo proponimento sono tutte le sue idee di governo. «Il mio primo còmpito sarà la soluzione delle quistioni sociali, che voglio sviscerare». Egli è favorevole ai Polacchi, ai Danesi, a tutte le nazionalità sottoposte; in politica estera vuole una sincera pacificazione con la Francia: «Non porto nessun sentimento di odio contro i Francesi, mi sforzo invece di preparare la riconciliazione». L'alleanza con l'Inghilterra è un altro punto del suo programma: «Io vorrei arrivare, seguendo i principii dell'indimenticabile mio suocero» — Alberto di Sassonia-Coburgo, Principe consorte della Regina Vittoria — «a formare una catena tra due nazioni i cui rapporti saranno per essere tanto vasti». Ed a questo proposito si manifesta ancora una volta l'irreconciliabile discordia con Bismarck. Quel _junker_ difensore del diritto divino, contrario al sistema parlamentare britannico, mediocre estimatore della Regina Vittoria — «la gonnella inglese», la chiama, e chiama la figlia di lei, la Principessa ereditaria tedesca: «Vittoria Numero due», od anche: «il discepolo di Gladstone» — quel furbo Prussiano stringe con la Russia il secreto patto diplomatico conosciuto col nome di _Trattato di contro-assicurazione_, secondo il quale, in caso di guerra anglo-russa, la Germania resterà neutrale. Non appena ne ha notizia, Federico Guglielmo immediatamente osserva: «Spero bene che l'Inghilterra ne sia stata avvertila e che vi abbia acconsentito!» — provocando il riso di Bismarck e dei suoi accoliti con queste parole, dettate, a giudizio del volpino ministro, da un candore troppo ingenuo e propriamente puerile.... Il Cancelliere non lo stima infatti «uomo capace di serie riflessioni»; dice anzi di lui che, «come tutti i mediocri, il Kronprinz amava copiare e nascondere le sue lettere. Non aveva nient'altro da fare, del resto, poichè l'Imperatore lo teneva sempre al buio delle cose di Stato, e non mi permetteva di comunicargli nulla»: menzogna con la quale il troppo abile uomo capovolge la verità: ha lavorato egli stesso ad escludere l'erede del trono dal governo, a mettere in cattiva luce il figlio presso il padre, e vorrebbe dare ad intendere che è il padre quello che ha dubitato del figlio!... E un giorno il dramma del quale è teatro la Corte prussiana si muta in tragedia. È il giorno nel quale, morto il vecchio Guglielmo I, Federico Guglielmo sale finalmente al trono col nome di Federico III. Vuole il destino che l'uomo tanto lungamente, tanto scrupolosamente preparatosi a meritare il suo altissimo ufficio, l'uomo che vorrebbe fare del suo regno «un benefizio per il popolo, una benedizione per l'Impero», il sovrano nella cui corona «l'oro ardente dovrebbe mescolarsi ai pallidi e dolci rami dell'olivo», il fautore del regime liberale, del sistema parlamentare, delle leggi democratiche, della giustizia sociale, della diplomazia leale, della politica conciliante, temperata e pacifica, debba afferrare lo scettro quando la sua mano sta per essere irrigidita dalla morte, che debba annunziare al popolo il suo grande disegno di governo quando non gli resta più un filo di voce nella gola invasa dal cancro.... Ma neanche dinanzi a quella tremenda agonia le ire e gli sdegni si placano. Egli — l'Imperatore! — non è libero di affidarsi ad un chirurgo di sua fiducia: perchè il chirurgo è inglese, i medici tedeschi e i pangermanisti arrabbiati gli si scagliano contro; un giornale, la Koelnische Zeitung, lo avverte di non uscire per le vie di Berlino «perchè il popolo lo farebbe a pezzi e lo lapiderebbe». Per suo conto, il Cancelliere, a cui qualcuno fa notare lo strazio atroce dello sciagurato sovrano, seccamente risponde: «Possibile, ma non ho tempo da fare una politica sentimentale». E neanche la morte lo placa. Prima di chiudere gli occhi, Federico III ha affidato il suo _Diario_ alla moglie adorata; la quale, stralciate le pagine del 1870, le ha consegnate al consigliere Geffcken, uno dei sinceri amici del morto sovrano. Il consigliere, per onorare la memoria del suo signore e per appagarne l'espresso desiderio, pubblica quelle pagine sulla _Deutsche Rundschau_ — e allora l'ira del Cancelliere non conosce più freno. La sua fortuna ha voluto che Federico III restasse ad agonizzare sul funebre trono novantanove giorni, durante i quali è mancata al moribondo, già muto per sempre, la forza, non che di effettuare, ma di semplicemente proclamare i suoi magnanimi proponimenti; sennonchè il morto, dal suo sepolcro, dalle pagine del postumo libro, li attesta ancora, li riafferma, e svela anche la tenace opposizione che gl'impedì di tradurli in atti. Fuori di sè, il Cancelliere impone che quella pubblicazione sia incriminata; quantunque certo dell'autenticità del _Diario_ — «neanche un minuto ne ho dubitato» — vuole metterla in forse: «Non importa: bisogna trattarlo come se fosse falso», e minaccia di dimettersi se non si procederà giudiziariamente; chiede un minimo di due anni di lavori forzati contro l'editore; fa accusare il duca Ernesto di Sassonia-Coburgo, proprietario della _Rundschau_; fa imprigionare il consigliere Geffcken, spontaneamente presentatosi alla giustizia; lo traduce dinanzi al Tribunale di Lipsia; ma, poichè i giudici pronunziano una sentenza assolutoria, il furibondo chiede che, almeno, l'atto di accusa sia reso pubblico sul Giornale ufficiale dell'impero, e pretende che Geffcken sia punito se non altro disciplinarmente, come professore all'Università di Strasburgo: udendo che l'Università non è sottoposta allo stesso regime di tutte le amministrazioni dello Stato, esclama: «Ma come? Il professore, in Germania, sfugge alla legge?...» e non se ne dà pace, e non lascia mezzo intentato per distruggere la «leggenda» del liberalismo dell'Imperatore, «come perniciosa a tutta quanta la dinastia». Il nuovo biografo francese di Federico III, come già l'inglese Rennel Rodd, molto opportunamente ha voluto dimostrare che quel liberalismo non era una leggenda, che l'orrore della guerra, che l'amore della patria, che la mitezza, la modestia, la moderazione, la lealtà, la carità, il cristianesimo del monarca meritamente chiamato Federico il Nobile furono virtù rare — nel doppio senso della parola: come infrequenti sul trono che egli doveva per tanto poco tempo occupare, e per ciò stesso tanto più preziose — sebbene fatalmente e sciaguratamente rimaste inefficaci. Negano i deterministi ciò che Tommaso Carlyle afferma, cioè l'efficacia dell'intervento personale dell'Eroe sul corso della storia; ma quando si pensa che Federico III, il quale scriveva, dinanzi a Parigi assediata, il 27 gennaio del 1871: «È oggi il tredicesimo natalizio di mio figlio Guglielmo. Possa egli divenire un uomo forte, leale, fedele, sincero.... C'è propriamente da aver paura quando si pensa alle speranze riposte fin da ora sul capo di quel fanciullo, e quale grande responsabilità ci incombe dinanzi alla patria per l'indirizzo che diamo alla sua educazione. Essa incontra già tante difficoltà per le considerazioni di famiglia e di casta alla Corte di Berlino!...»; quando si pensa che quel padre esemplare, che quell'Imperatore liberale avrebbe potuto regnare a lungo ed attuare i suoi grandi disegni, o se non altro impedire che i piani contrarii e le correnti ostili prevalessero, e vivere ancora nel luglio del 1914 — avrebbe avuto 83 anni; il padre suo potè bene viverne 91! — si deve veramente concludere col Welschinger che la morte prematura di quell'uomo fu un disastro per la Germania, per l'Europa e per il mondo. _1.º gennaio 1918._ La battaglia della Marna. Il corso di tre anni è troppo breve perchè tutte le fasi della titanica pugna che salvò la Francia possano essere note in tutti i loro particolari. Durando ancora il conflitto, manca la versione della parte contraria, e la verità, nella storia delle guerre, come nelle liti incruente, non può scaturire se non dal paragone delle opposte affermazioni: ma questo, intanto, piace da parte degli scrittori francesi: che, pure esaltando il genio del Joffre ed il valore delle sue truppe, essi non attribuiscono la vittoria a questi due soli fattori, ma fanno la sua parte alla fortuna e non disconoscono i meriti del nemico. I. La battaglia della Marna fu annunziata dal Moltke — il primo, si potrebbe anzi dire il solo — qualche tempo innanzi che fosse combattuta: fin dal 1859.... Lo stratega tedesco, a cui erano mancate ancora le occasioni di rivelare il suo genio, scriveva allora, riferendosi agli avvenimenti guerreschi del 1814, che, come nella campagna fatale all'Uomo fatale, anche in una futura guerra franco-germanica l'investimento e la presa di Parigi mediante un'offensiva attraverso il Belgio, avrebbe rapidamente deciso le sorti della Francia; «ma», soggiungeva, «se noi trovassimo l'esercito francese riunito nella regione di Reims, dovremmo tosto deviare dalla direzione di Parigi. Attaccheremmo allora i Francesi dietro l'Aisne e col favore del numero li batteremmo e rigetteremmo dietro la Marna, la Senna, la Ionna e la Loira. Poi marceremmo su Parigi....». Questa è, in poche parole — e, beninteso, con la differenza d'un esito totalmente diverso — la battaglia della Marna, e qui consiste la spiegazione della condotta, da alcuni giudicata inesplicabile, e forse troppo severamente condannata in Germania, del generale tedesco von Klück. Posto all'estrema destra della valanga che precipitava dalle frontiere del Nord con la velocità di cinquanta chilometri il giorno, e che, secondo una testimonianza riferita dal Madelin nel suo studio sulla _Victoire de la Marne,_ schiacciava le forze francesi «come un rullo», von Klück era pervenuto il 30 agosto in vista di Parigi: una marcia ancora, più breve delle precedenti, e la metropoli sarebbe stata investita; quand'ecco a un tratto il comandante tedesco si lascia a destra la via della grande città e piega a sud-est verso Meaux e Coulommiers. Che cosa è avvenuto? Questo: che l'esercito francese, già duramente provato sulle frontiere, quindi in piena ritirata attraverso il territorio nazionale abbandonato al nemico, ha finalmente ricevuto l'ordine di fermarsi sopra una linea opportunamente prestabilita, di ammassarvisi insieme con nuove forze e di riprendere di lì l'offensiva. «Mentre s'impegna una battaglia dalla quale dipende la salute della patria», dice l'ordine del giorno del generalissimo, «importa ricordare a tutti che non è più il momento di guardarsi addietro: ogni sforzo dev'esser diretto ad attaccare e respingere il nemico. Le truppe che non potranno più avanzare dovranno mantenersi a qualunque costo sul terreno guadagnato e farvisi uccidere piuttosto che arretrare. Nelle circostanze presenti nessuna debolezza può essere tollerata....» Si è dunque dato il caso previsto mezzo secolo innanzi dal futuro trionfatore di Sedan. Se non precisamente «nella regione di Reims» l'esercito francese è riunito e fa fronte un poco più giù: si distende ad arco, come una gran falce bene affilata, dinanzi al grande arco della Marna e fino alle porte di Verdun. In queste condizioni, come indugiarsi, da parte tedesca, dinanzi a Parigi? Conquistarla, dopo che il Governo si è trasferito a Bordeaux, sarebbe raggiungere un obbiettivo puramente «geografico» — dicono al Grande Stato Maggiore germanico —: l'obbiettivo militare e politico da conseguire, per chiudere con una rapida vittoria la guerra, consiste invece nell'affrontare, avvolgere e distruggere le ricostituite forze francesi. Quindi von Klück opera la sua conversione a sinistra e si accosta a von Bülow, il quale scende dal canto suo al fianco destro di von Hausen, anch'egli affiancato dal duca del Würtemberg, alla cui sinistra procede ultimo il Kronprinz: i cinque capi tedeschi comandano cinque eserciti che sono come le cinque dita di una enorme mano distesa a ghermire e strozzare. Ma anche la Francia ha ora in campo cinque eserciti: cinque dita di un'altra mano aperta a respingere quella dell'avversario: Sarrail, il mignolo, sotto Verdun, contro il Kronprinz; Langle de Clary, l'anulare, contro il duca Alberto; Foch, il medio, contro von Hausen; Franchet d'Espérey fiancheggiato dagli Inglesi del French, l'indice, contro von Bülow; Manoury, finalmente, contro von Klück. E l'errore di quest'ultimo — poichè errore c'è — consiste nel credere che la mano francese abbia solo quattro dita, e che il quinto o sia stato troncato o penda inerte. Dinanzi a quella Parigi che il generale tedesco rinunzia ad assediare, Joffre ha disposto, formandolo con elementi in gran parte freschi, tutto un nuovo esercito — questo del Manoury, per l'appunto — che è come il pollice poderoso della mano francese improvvisamente contrapposta a quello della germanica. Così, e costì, avviene il primo urto. Sulla Marna, dal 5 al 12 settembre, lungo una linea di trecento chilometri e fra tre milioni d'uomini, non si combatte una battaglia sola, e bene il Fabreguettes intitola il suo libro _Les batailles de la Marne_: le battaglie sono cinque, quanti gli eserciti di ciascuna nazione, quante le dita di ciascuna mano — e alcune vanno già designate con un lor proprio nome. II. Questa prima, impegnata tra von Klück e Manoury, è la battaglia dell'Ourcq. Sull'Ourcq, come osserva il Babin (_La bataille de la Marne_), consiste «lo stesso pernio, la stessa anima ardente» dell'immensa mischia; a giudizio del Madelin, qui avviene «l'atto determinante della vittoria». Discendendo da sinistra per circuire l'esercito del Franchet d'Esperey e gl'Inglesi, von Klück sente a un tratto d'essere egli stesso minacciato d'accerchiamento quando vede sorgere sul suo fianco destro l'insospettato o disistimato esercito del Manoury. Allora, come ha rinunziato a Parigi per concorrere alla distruzione delle forze nemiche, così il generale tedesco capovolge un'altra volta il suo piano — «con una decisione che consacra la sua reputazione di stratega», riconosce il Madelin — e lasciando da parte i Franco-Inglesi, ripassa la Marna che aveva già passata, e si volge con ogni sua possa contro il Manoury. Il primo scontro avviene il 5 settembre: i Francesi trovano a Barcy ed a Chambry il «calvario» della loro Riserva; ma si affermano, intanto, e compiono anche qualche piccolo progresso; il domani avanzano ancora e costringono il IV Corpo germanico a battere in ritirata verso i boschi di Meaux. Grazie ai rinforzi ricevuti, von Klück pare sul punto di scongiurare il pericolo; il giorno 8 contrattacca con nuova violenza e fortuna; ma anche Manoury è soccorso dalla rapida iniziativa di Gallieni, il governatore di Parigi, che requisisce migliaia di _autobus_ della metropoli per lanciare sul campo nuove truppe fresche: le parti sono allora invertite, la destra tedesca, sul punto d'essere oppressa, compie uno sforzo disperato e costringe la sinistra francese a ripiegare; ma è il supremo sussulto, e prima di mezzogiorno la resistenza teutonica è vinta: alle 5 gli avioni francesi segnalano l'indietreggiamento di numerose colonne; alle 8 von Klück, svaniti uno dopo l'altro i due sogni di entrare in Parigi e di avvolgere i nemici, lancia, «con cuore grave», l'ordine della ritirata generale e immediata. Atteniamoci all'immagine della mano per comprendere che cosa accade sul restante campo della gran lotta. Le dieci dita contrapposte a due a due si sono strettamente intrecciate, e mentre il pollice francese ha respinto il tedesco, i due indici — von Bülow da parte tedesca e French con Franchet d'Espérey da parte anglo-francese — si avvinghiano: comincia il generale prussiano a premere sugl'Inglesi il 6 e 7 settembre; ma, come gli sforzi delle dita della mano non sono indipendenti, bensì strettamente collegati, così, avendo dovuto sostenere von Klück nel momento del pericolo, per riparare all'effetto di «succhiamento» o di «ventosa» — come è stato definito — prodotto sulle truppe imperiali dall'inopinata apparizione di Manoury sul fianco di von Klück, per questa ragione von Bülow si è visto costretto a desistere dalla spinta e ad arretrare in modo che il French ha potuto avanzarsi fin presso alla Marna — che i Tedeschi cominciano a ripassare — mentre da parte sua d'Espérey, dopo una lotta violenta, si è spinto avanti con deciso vantaggio ed ha cominciato l'inseguimento del nemico ripiegante: progressi che si confermano e crescono il giorno 8, quando gli Inglesi forzano il Petit-Morin e la Marna — con la loro tenacia proverbiale, ripetono un tentativo non meno di diciassette volte, finchè riesce — e i Francesi si impadroniscono di Marchais, di Montmirail e mettono piede sul pianoro di Vauchamps: il maresciallo britannico non trova più nemici nella sua avanzata, il 9 e il 10, per il ripiegamento tedesco ad occidente di Château-Thierry, che d'Espérey riconquista, annunziando in un infiammato ordine del giorno la nuova vittoria francese su quegli stessi campi che videro le mirabili e disperate gesta di Napoleone abbandonato dalla fortuna. III. Ma la terza battaglia della Marna, grave e decisiva quanto la prima — il secondo atto del gran dramma — è quella che s'impegna al centro della linea sterminata, tra i due medii delle due mani. Questa è la battaglia che porta il nome delle Paludi di Saint-Gond, intorno alla quale Carlo Le Goffic, con lo squisito senso d'arte che ha reso celebre il suo _Dixmude_, ha scritto tutto un volume: _Les marais de Saint-Gond_. Enorme smeraldo incastonato nei campi di Francia, le paludi di Saint-Gond si distendono per dieci chilometri di lunghezza con cinque di larghezza e formano come un gran fosso, come una ciclopica trincea naturale sbarrante la via all'invasione. Nel fango di questi pantani si sommersero e sparirono, ai tempi di mezzo, le orde di Attila, che vi perdette — dice la leggenda — il suo casco d'oro; qui, sul principio dell'era contemporanea, affogarono i soldati delle ultime leve napoleoniche, gli eroici coscritti designati col nome di _Marie-Louise_. E qui una nuova leggenda, nata a mezzo settembre del 1914, dice che s'impigliò e sparì, durante la battaglia della Marna, la Guardia imperiale: ma il Le Goffic e gli altri storici francesi distruggono la leggenda, quantunque lusinghiera all'amor proprio nazionale, per ricercare ed affermare la più semplice e non meno bella realtà. Numericamente inferiori, i Francesi del Foch hanno la missione di mantenersi sulla «difensiva attiva», di chiudere la via, segnatamente verso il centro, ai Tedeschi di von Hausen: se la resistenza non fosse infrangibile, se il nemico passasse, tutta la linea francese crollerebbe e l'enorme sforzo compiuto dal Manoury riuscirebbe vano. Ma, sulle prime, il centro, che ha spinto le avanguardie oltre le paludi, sulla loro riva settentrionale, in faccia al nemico, è costretto a ritirarle il 6 settembre, per restringersi a difendere la sponda sud della gran trincea. I Tedeschi hanno un mezzo per impadronirsene: accerchiarla da oriente e da occidente, ricongiungersi a sud, chiudendola ed abbrancandola come in una tenaglia; e questa è, infatti, la manovra che pare abbiano scelta; sennonchè, dinanzi alla misteriosa insidia di quelle acque morte, essi sembrano presi da un senso di «esitazione» che gli stessi scrittori francesi dichiarano «inesplicabile», attribuendo ad esso la salvezza del loro esercito. Quando, due giorni dopo, von Bülow presta il suo aiuto a von Hausen, quando i due capi germanici tentano l'avvolgimento, l'8, è troppo tardi. C'è di più: persuasi che Mondement e il suo castello siano la chiave di tutta la regione — mentre dominano le sole paludi — i Tedeschi si ostinano a impadronirsene, vi sciupano un tempo prezioso, «vi s'imbottigliano», secondo l'espressione del generale Humbert. E tuttavia l'attacco a fondo dei trentacinque formidabili battaglioni della Guardia rompe tutta l'ala destra francese per una profondità di quattro chilometri; ma il Foch, secondo cui «battaglia perduta è quella che si è creduto d'aver perduta», lancia il suo laconico ordine del giorno: «La situazione è eccellente; ordino ancora di riprendere vigorosamente l'offensiva....». Egli si è accorto che von Klück ha trascinato von Bülow nel ripiegamento, e che tra costui e von Hausen si è prodotto un vuoto; quindi si avanza attaccando, riprende il 10 Fère-Champenoise perduta la vigilia, riprende Mondement a costo d'un'epica lotta, ed a sera le rive settentrionali delle paludi tornano in mano sua. Tale è razione centrale della battaglia della Marna. Se fosse riuscita favorevole ai Tedeschi, l'«audace errore» di von Klück sarebbe stato corretto, la mano francese sarebbe stata tagliata in due. Poteva riuscire? Una versione tedesca citata dal Le Goffic afferma che sì. Von Klück, nel momento decisivo del suo attacco, aveva chiamato da Compiègne un corpo della riserva; Moltke — il secondo — vedendo in pericolo von Bülow, ordinò invece che quelle forze venissero a sostenere quest'ultimo, ed esse iniziarono infatti la conversione: sennonchè, accortosi che il pericolo maggiore era sull'Ourcq, il generalissimo tedesco emanò un contrordine e fece fare dietrofronte alla riserva; la quale, perduto un tempo prezioso in questo andirivieni, restò inutile a destra ed a sinistra — come il corpo di Drouet d'Erlon a Waterloo. Sapremo più tardi la verità su questo punto; rammentiamo per il momento che la vittoria delle Paludi di Saint-Gond fu dovuta in parte ad un generale d'origine italiana, il Grassetti, e che un altro italiano d'origine, il capitano di Saint-Bon, nipote del nostro ammiraglio, compì una eroica difesa a Lenharrée e vi trovò gloriosa morte. IV. Le altre due grandi fazioni, tra Langle de Clary e il duca del Würtemberg, e tra Sarrail e il Kronprinz, formano il terzo ed ultimo atto del gran dramma. Un episodio preliminare è degno di speciale menzione. Il Clary aveva ricevuto, nella seconda quindicina d'agosto, l'ordine della ritirata generale proprio mentre conseguiva un notevole vantaggio sulla Mosa, e invece del garibaldino «Obbedisco», telegrafò al Joffre chiedendogli di poter restare sulle posizioni conquistate. Il Joffre gli rispose: «Non vedo inconvenienti nel fatto che restiate domani, 28 agosto, dove siete, allo scopo di confermare il vostro buon successo e di dimostrare che la ritirata è puramente strategica; ma il 29 tutti debbono ripiegare» — bella prova della forza d'animo e dell'avvedutezza del generalissimo. E in obbedienza all'ordine ricevuto, il Clary si ritrae, contenendo la pressione del duca Alberto, finchè fa fronte, il 5 settembre, con gli altri eserciti francesi. Il 6 egli resiste all'impetuoso attacco nemico: il 7 la lotta infuria sempre più, e dopo qualche vantaggio da parte francese i Tedeschi s'impadroniscono di Lermaire; l'8 la resistenza è più salda, ma non dovunque fortunata; per buona sorte, i rinforzi ricevuti consentono al Clary di respingere i Sassoni il giorno dopo e di trasportare parte delle sue truppe all'ovest della Marna; il 10 il progresso è anche più sensibile e la velocità della ritirata germanica aumenta. Finalmente, tra Sarrail e il Kronprinz, all'estremità occidentale del grande arco, al manico della gran falce, tra i mignoli delle due mani, la lotta anch'essa furibonda, ha risultati meno felici per i Francesi; tuttavia essi riescono ad impedire l'investimento di Verdun. Le truppe del Principe imperiale sono le sole che restino ancora, in parte, l'11 settembre, nella regione dove si trovavano all'inizio della battaglia; poi sono coinvolte nel ripiegamento generale dell'esercito germanico, lasciano libera una buona metà dell'invasa Argonna, e ripassano per il campo della battaglia di Valmy. Odono esse allora la voce di Volfango Goethe ripetere, dopo centoventicinque anni: Da quest'ora, in questo luogo, comincia una nuova storia?... _10 settembre 1917._ Romanzi di guerra. I. IL SENSO DELLA MORTE. «Per me, ciò che si dice, ciò che si scrive, non ha interesse. Non capisco come in Francia, oggi, si possa pensare ad altro fuorchè a battersi ed a curare feriti», osserva Caterina Ortègue nel nuovo romanzo di Paolo Bourget, significando con queste parole un sentimento non già particolare all'anima francese, bensì comune a tutte le genti coinvolte nella guerra mondiale. Ma se veramente i nostri non sono tempi propizii agli esercizii letterari, e se i letterati scioperano infatti dacchè operano i soldati, tanto più notevole è che l'autore di _Crudele enimma_ e di _Menzogne_, del _Discepolo_ e di _Andrea Cornelis_, abbia composto in questi giorni tremendi un'opera di fantasia. Il lettore che vi si accostasse con l'idea di stornare le visioni cruente andrebbe incontro a un disinganno. Già il titolo dovrebbe avvisarlo: _Il Senso della morte_ non promette scene gioconde od avventure erotiche. Le eroiche gesta dei difensori della patria vi sono evocate, ma non espressamente: il libro è scritto per narrare una battaglia morale. Paolo Bourget ha supposto che il dottor Marsal fosse zoppo dalla nascita per ispiegare come non sia corso alle trincee; ma quand'anche il personaggio godesse del perfetto uso di tutte le membra, altre ragioni potrebbero dispensarlo dal combattere armata mano. Prestando l'opera sua di sanitario nella clinica del professore Ortègue trasformata in ambulanza, egli già compie il dover suo; quando lascia il bisturi per la penna e riferisce il dramma di cui è stato testimonio, fa ancora cosa buona e degna. L'autore affida a lui la cronaca di un avvenimento e lo studio del problema che ne scaturisce: tragico avvenimento ed alto problema. I. Michele Ortègue, celebre chirurgo, operatore infallibile, insegnante illustre, sposa a quarantaquattro anni una giovanetta di venti. Positivista, materialista, assertore dei soli fatti che cadono sotto l'impero dei sensi, negatore d'ogni altra verità che non sia dimostrabile per via di esperimento, egli si vergogna di aver condisceso a contrarre il matrimonio religioso. Gli scrupoli della suocera gliel'hanno imposto, non già quelli della moglie: costei ne avrebbe anzi fatto a meno anche lei. Figlia e moglie di scienziati, Caterina è spregiudicata come il padre ed il marito. E del marito che potrebbe esserle padre la vediamo anche innamorata. La vediamo innamorata a segno che un giorno, quando Michele Ortègue, deperito e languente, scopre di avere un cancro allo stomaco, e quando anch'ella apprende l'orribile verità, restando esclusa per la stessa natura del male qualunque speranza di guarigione, volendo anzi l'infermo sottrarsi agli spasimi insopportabili mediante un veleno, ella gli offre di trangugiarlo insieme: patto accettato con gioia ineffabile e con infinita gratitudine, perchè massima ed unica prova d'un amore forte come la morte. La gioia dell'infermo è tanto più grande perchè un dubbio si era insinuato nell'animo suo. Allo scoppio della guerra il tenente Ernesto Le Gallic, cugino di sua moglie, era apparso un momento nella clinica durante una breve missione militare, reduce dalla frontiera, diretto un'altra volta al campo, e il professore precocemente invecchiato a cinquantun anno, già in preda ai primi sintomi del male più che mai scettico nell'anima, aveva temuto che il paragone col giovane soldato, bello e prode, pieno di vita, ardente d'amor patrio e di fede in Dio, gli dovesse recare troppo pregiudizio. Se invece Caterina è ora pronta a morire con lui, non ha egli ragione di sentirsene rassicurato e insuperbito? Non trionferà della vita, inducendo una giovane vita ad immolarsi per lui?... Sennonchè ella ha promesso per compassione del sofferente, non per amore. Ha voluto alleviargli la pena atroce della morte a cui si sa condannato, ha voluto dargli un'ultima illusione ed un conforto estremo.... Improvvisamente il tenente torna alla clinica. Vi torna dentro una barella, gravemente ferito. Caterina, infermiera espertissima, si dà tutta all'ufficio pietoso; il professore, pure curando il ferito, ricomincia a provare più acuti i morsi della gelosia. Il suo tormento cresce a dismisura, ora che si sente attanagliate le viscere dal male senza perdono. Ma non ha egli la promessa della moglie? Non è veramente giunta l'ora di chiederne il mantenimento? Se Caterina dirà ancora di sì, se prenderà il veleno con lui, non vorrà dire che l'ama, che ama lui unicamente? Ella è infatti pronta al gran passo; ma egli non ne resta, come già un tempo, riconfortato. Ora i dubbii lo assalgono e assillano. Morirà ella per amore, o non piuttosto per punto d'onore, per non disdire la parola data?... Questo, realmente, e non l'altro, è il sentimento di Caterina. L'eroismo del cugino ha trionfato dell'egoismo del marito. Ella è turbata sino alle radici dell'essere: come morire, quando l'anima sua rifiorisce? Non osa dirlo, ma non può neanche nasconderlo del tutto: lo confida a un foglio di carta. Il dottor Marsal, conoscendo la decisione del duplice suicidio imminente, e dubitando della sincerità della donna, porta quel foglio al professore, per salvarla. Quando Ortègue legge la confessione non da più in ismanie: una gran calma invade anzi il suo spirito. Ora egli sa, e l'accertamento della realtà, la nozione della verità, per un indagatore della sua tempra, per uno scienziato che non ha saputo nè voluto far altro fuorchè verificare i fatti, è già una gran cosa, è come la soddisfazione di un istinto irrefrenabile. Ma, con la luce, una nuova persuasione si compie in lui. Quando s'illudeva ancora sulla natura del sentimento e del consentimento di Caterina, egli poteva accettarne il sacrifizio; ora non più; permettere ora che ella muoia, dopo aver saputo che non è spinta dalla passione, dall'impossibilità di sopravvivergli, sapendo anzi che anela di vivere, sarebbe un assassinio. Egli non lo commetterà. Non solamente scioglierà la moglie dal patto di morte, ma al dottor Marsal che lo scongiura di non darsela, di sottoporsi anzi ad un'operazione per guadagnare qualche mese di vita, risponde acconsentendo. Ha finto, ha mentito, per esser lasciato solo. Quando Caterina, consolata dalle notizie recatele da Marsal, torna presso il marito, lo trova fulminato da una infezione tossica. Allora anch'ella vuol morire: ma un altro moribondo la salva: il tenente Le Gallic. Anch'egli ha concepito, suo malgrado, una tenerezza profonda, un amore inconfessato e inconfessabile per la cugina. Lo ha negato al marito geloso ed a sè stesso, ma lo spasimo prodotto in lui dal dramma di cui è stato spettatore ed attore ha esacerbato la sua ferita: sul punto di morire, alla vedova del suicida, alla donna secretamente amata, egli addita nel compimento del bene, nell'esercizio della carità, nella speranza di un'altra vita, il dovere di vivere. II. Tragico caso, egregiamente osservato nella persona di Michele Ortègue. Escludendo ogni finalità dall'universo, tutto facendo consistere nei fenomeni, riducendo la coscienza umana ad un epifenomeno, costui parla ed agisce secondo l'intima logica o la rigorosa necessità della natura sua. Sposare sulle soglie della vecchiezza una fanciulla fu, a giudizio dei suoi colleghi, una «pazzia»; si potrebbe anzi giudicare che fu vera colpa; ma quali scrupoli avrebbero potuto trattenerlo, se egli era ed è persuaso che non esistono altre leggi fuorchè quelle da cui il mondo fisico e l'organico sono governati? Amando la giovane, egli l'ha fatta sua; l'amor proprio gli ha lasciato credere che un uomo del suo valore può benissimo essere riamato, nonostante l'enorme differenza degli anni. Quando si sente affetto da una malattia mortale, accettare che sua moglie muoia con lui, gioire del patto, pretenderne la esecuzione, sono cose anch'esse, secondo lui, naturalissime; perchè, in nome di quale principio, per virtù di quale precetto potrebbe egli rinunziare ad un sacrifizio che è prova d'amore, che appaga la sua vanità, che lo farà segno all'invidia del mondo, che solletica così le sue passioni?... La mostruosa presunzione crolla ad un tratto, quando il dottor Marsal gli dà a leggere la carta dove Caterina ha significato il proprio rimpianto; crollata la presunzione, che cosa resta in quell'anima? L'egoismo è mortificato, insanabilmente; la morte è vicina, inevitabilmente; e perchè vivere ancora un poco, finchè tutte le fibre saranno incancrenite, se nessuna forza morale aiuta a sopportare il dolore e se la morte è la distruzione totale dell'essere? Precipitarsi subito nel nulla: questo un uomo come l'Ortègue farebbe, e questo precisamente egli fa. La condotta di Caterina non riesce persuasiva altrettanto. Per voler morire insieme col marito, ella dovrebbe amarlo d'una passione immortale. Tale non è la sua. La sua passione è anzi definita «più immaginaria che reale». In mancanza dell'amore, la pietà, il bisogno di consolare l'agonia dell'uomo che l'ama, può indurla a consentire di avvelenarsi con lui; ma il suo è più che un consentimento chiesto ed ottenuto; è anzi un patto da lei stessa proposto, quasi imposto da lei: ella stessa esige che il marito le giuri di avvertirla quando avrà deciso di morire. Può bensì ella avergli tenuto questo linguaggio non potendo altrimenti dimostrargli che lo ama e dissipare i suoi dubbii, ma nell'atto che gli ha detto d'amarlo tanto, ha pure soggiunto: «T'amo.... Non so se è impossibile, se è insensato. So che è»: parole che avrebbero potuto e dovuto aprire gli occhi ad un uomo meno accecato dall'amor proprio. Altri fattori concorrono, è vero, a spiegare l'offerta di Caterina. Ella sente altamente, prova disgusto per le donne che passano dall'uno all'altro amore, vuol dimostrare a sè stessa d'essere rimasta fedele ad uno solo. Ora, turbata sino in fondo all'anima dalla vista del cugino, dell'eroe giacente sul letto di dolore, ella prevede di cadere nelle sue braccia se non morrà col marito. Dove sarebbe tuttavia il male? Poichè il marito è condannato senza rimedio ed ha qualche mese di vita appena, e poichè il cugino non è neanche egli uomo da contentarsi d'un amore libero e libertino, ma vorrà anzi sposarla, dopo il lutto vedovile, dinanzi al mondo ed a quel Dio nel quale fermissimamente crede, la coscienza di lei non dovrebbe dunque tremare. Dove è detto che neanche la morte possa restituire la libertà ad una creatura umana, quando ella stessa non si sente vincolata dalla sua propria passione? Caterina non ama più d'amore l'uomo a cui è unita, se pure lo ha mai amato così; ama il cugino, si sente amata da lui; e quando non ha da far altro che dar tempo al tempo, aspettare che il cancro, il male organico di cui nessuno è responsabile, compia l'opera sua, dovrebbe invece giudicare cosa «naturale», cosa «inevitabile», morire insieme col canceroso? Quanto è inumano il patto, tanto umano è il pentimento. Logicamente, necessariamente, ella deve pentirsi e ribellarsi. Se suo marito ne prova tale disinganno da darsi tosto la morte, deve o soltanto può ella concepirne un rimorso che la risospinga al suicidio? Dov'è la sua responsabilità? Ella non ha fatto altro che scrivere per sè stessa il pensiero suo intimo: quello scritto le è portato via dal dottor Marsal; egli stesso, ad insaputa di lei, corre a presentarlo al professore. Chi può chiamarla a renderne conto? Certo, ella deve provare una ambascia acutissima nel veder morto il compagno della sua vita, l'uomo a cui aveva promesso di seguirlo sotterra; ma se di questa promessa si pentì, se questa idea le riuscì intollerabile, se la vita la riprese, e con essa l'amore e la speranza della gioia, può ella sentirsi ancora legata dall'orribile patto dinanzi a un cadavere?... Quando il dottor Marsal, l'abate Courmont e più che altri il cugino di lei si propongono di strapparle di mano la boccetta del veleno e di persuaderla a vivere, si può antivedere che non dovranno durare molta fatica per riuscir nell'intento.... III. Ciò non vieta che le parole con le quali Ernesto Le Gallic le insegna la legge della vita e del dolore siano da meditare. Tutto, nella figura, nelle azioni, nei sentimenti di lui è logico e coerente, come — sebbene all'opposto polo del mondo morale — in quella di Michele Ortègue. Quanto è inveterato e quasi viscerale lo scetticismo di costui, tanto profonda, essenziale è la fede di Ernesto. L'urto delle due tendenze non può essere evitato: e questo contrasto è l'argomento sul quale Paolo Bourget ha voluto fermare l'attenzione del lettore. Dinanzi alla scomposta disperazione del professore monista, dinanzi alla sua intolleranza del dolore fisico che lo rende morfinomane ed aggrava così le sue condizioni organiche, dinanzi alla sua incapacità di sopportare il dolore morale, dinanzi all'incontinenza sentimentale che lo spinge a fare una scena di gelosia al ferito, al morente, lui morente, torturandosi e torturandolo; dinanzi alla fiacchezza dell'animo suo che lo induce a fuggire la vita prima del tempo, mentre ancora potrebbe salvare tante altre vite di soldati sanguinanti per la Patria — di fronte a questa insania la serenità di Ernesto Le Gallic, la forza con la quale egli soffre e reprime la sua passione per Caterina, tacendola a lei e negandola a sè stesso; la bontà, l'indulgenza, la ragione che oppone ai sarcasmi del frenetico sospettoso, la rassegnazione con la quale vede avvicinarsi la morte, l'eloquenza della sua fede destini dell'anima rifulgono ed ammoniscono. Egli non trionfa effettivamente del rivale, non lo converte. Persuade la donna secretamente amata a vivere, ma nè l'impresa era molto ardua, nè Caterina è da lui rimessa sulla via della fede: al contrario, ella continua a dubitare. Molto agevolmente il Bourget avrebbe potuto mostrarla ricreduta. Fanciulla, costei era stata religiosissima; solo la disciplina scientifica del padre e del marito avevano potuto distoglierla dal sentimento del divino. L'eroe che ella ama, e che l'ama, potrebbe, morendo, restituirla alla Chiesa. Si può dire qualche cosa di più: l'ufficio di sostenere la necessità della preghiera non dovrebbe naturalmente essere conferito a lei, alla donna? Se l'autore non ha fatto così, è segno che non ha voluto. Vi è dentro di lui come una specie di rivalità fra l'artista intento a rappresentare la vita e il moralista ansioso di diffondere un insegnamento. L'efficacia della sua opera d'arte può talvolta essere qua e là menomata dal preconcetto, ma l'artista prende tosto la sua rivincita. È lui quello che ha impedito a Ernesto Le Gallic di operare conversioni. Michele Ortègue nega fino all'ultima sua ora, fino ad uccidersi, stoicamente; Caterina continua a dubitare. Ella accetta di vivere per gli altri, si prodiga ai sofferenti, sino all'esaurimento; ma ignora se le sarà tenuto conto, altrove, dell'opera sua. Talvolta lo spera; le pare talvolta che una voce le dica grazie; ma non sa da che parte le venga. Che importa, se l'opera è santa? Ed il suo dubbio, più artistico — cioè più vero — è anche, senza paradosso, più persuasivo. La conversione potrebbe sembrare voluta, artifiziata, falsa; l'incertezza, invece, l'esitazione, l'interrogazione sono atteggiamenti proprii dello spirito umano. L'importante è che questi problemi lo occupino. Il merito di Paolo Bourget è quello di averli proposti, oggi che il fiore della gioventù s'immola sull'altare della Patria, oggi che tutte le forze, tutti i valori morali devono essere chiamati a raccolta per la vittoria. _23 novembre 1915._ II. LA FAMIGLIA VALADIER. Leggere le prime pagine ed i primi capitoli delle _Heures de guerre de la Famille Valadier_ di Abele Hermant è provare l'impressione che la guerra mondiale, o almeno quella dei Francesi contro i Tedeschi, sia finita da un pezzo. Sarebbe altrimenti possibile scherzare intorno all'argomento tremendo? Come trovare materia di sorriso e di riso nell'ora paurosa del pericolo, nell'ora sublime dell'olocausto? Chi avrebbe l'animo di indugiarsi a rilevare i lati comici della tragedia immane?... Quando udiamo il professore Valadier ordinare al figlio di staccare dal muro la cornice dove, «come una reliquia», è serbato un pezzetto di pane del 1870; quando vediamo il giovane Valadier, in costume di _boy-scout_, mettersi sull'«attenti», eseguire l'ordine «a passo accelerato», e porre «sotto il naso» dell'ospite, del narratore, «l'orribile crosticina che i suoi quarantatrè anni d'età non hanno resa nè più nè meno appetitosa», noi pensiamo che anche la nuova guerra, durante la quale il professore recita un suo ingegnoso discorso sulla carestia del grano e la «virtù delle mortificazioni», ma confessa che «la mollica riesce mortale al suo stomaco dilatato», noi pensiamo che anche la guerra del Quattordici e del Quindici, come quella del Settanta, dev'esser passata al dominio della storia. Se fosse attuale, se in una parte notevole del territorio francese lo straniero restasse ancora accampato, se tutti gli sforzi della nazione fossero ancora intesi a scacciarlo, potrebbe il narratore riferirci che il suo personaggio, dopo la quotidiana «variazione» sul pane, udendo il quotidiano squillo di campanello annunziante l'arrivo della quotidiana gazzetta, si mette a cantare, sull'aria della _Bella Elena_: _Ce coup de tonnerre_ _Annonce à la terre._ _Un communiqué...?_ C'è veramente qualche passo nel quale il lettore prova quasi il bisogno di portar la mano agli occhi per accertarsi di non aver travisto o frainteso. L'umore e il buon umore del romanziere sembrano un'irriverenza, quasi una profanazione.... Quando si procede nella lettura l'impressione di anacronismo e di sconcerto si attenua: quando si voltano le ultime pagine è già vinta, cancellata, dispersa. Uno scrittore di professione, un lavoratore della penna, non avrebbe trovato difficoltà a comporre sulla guerra un romanzo con dentro una tesi, un libro di predicazione patriottica, di propaganda nazionale; Abele Hermant ha composto invece la _Famiglia Valadier_ perchè così portava l'intima e singolare natura dell'ingegno suo. «Ai giorni che corrono», dichiara in un certo luogo, «tutto ciò che non è sincero mi riesce odioso». Si può aggiungere che non oggi soltanto, ma in ogni tempo la sincerità è doverosa ed amabile. L'ironico osservatore della vita, il delizioso autore di quei _Transatlantici_ che non udremo più nella mirabile recitazione di Alberto Giovannini, non poteva smettere l'abito suo; anche avendone la possibilità gliene sarebbe mancata la ragione; perchè, con la sua ironia, col suo umorismo, la _Famiglia Valadier_ è anch'essa l'opera di un patriotta: opera d'arte dove le ragioni dell'arte sono rispettate, dove la moralità e l'insegnamento non sono inclusi con artificio, per forza, a furia di retorica, ma scaturiscono invece naturalmente come dalla stessa vita. I. I Valadier sono una famigliuola borghese composta del padre, della madre e di tre figli, tutti in preda alla passione del teatro. Ha cominciato la primogenita, Emma, entrando al Conservatorio drammatico ed uscendone premiata agli esami finali. Valadier padre, professore di storia afflitto dal nome di Arturo, non volendo ostacolare la vocazione della figliuola, ma sentendo incompatibile la dignità professionale con la qualità di genitore d'una commediante, ha lasciato l'insegnamento, ed a furia di udire e di leggere opere teatrali, parla e gestisce ora anch'egli come dalla ribalta. I due figli minori, Luciano e Luisa, familiarmente chiamati Lulù e Lilì, contraggono il contagio a loro volta, e si tirano l'uno per attor comico, l'altra per attrice tragica. La signora Valadier, agli occhi della quale il marito è stato ed è un oracolo, incoraggia da parte sua quelle tre vocazioni ripromettendosene gloria e ricchezza, ed acquista intanto l'aspetto, il fare e le mosse del _madro_. In questa casa, subito dopo gli esami di Emma, e qualche settimana prima dello scoppio della guerra, ha cominciato a prendere i suoi pasti uno degli esaminatori della giovinetta, un autore drammatico, un prestanome dello stesso autore, il quale narra in prima persona ciò che vede e ode. Egli ode giudizii politici e militari enunziati con grande sufficienza dall'ex-professore, come questo, ad esempio: che «l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando non potrà avere nessuna influenza sulla politica generale dell'Europa»; oppure come la risposta data con piglio severo al figliuolo che gli domanda se la Francia volerà in soccorso del Belgio: «No! La nostra generosità ce lo consiglierebbe; ma, per Dio! non facciamo i sentimentali! Siamo obbiettivi!...». Egoismo mentito, parte recitata: quando il brav'uomo apprende che l'esercito francese passa effettivamente dalla difesa all'attacco, ne concepisce tanta esultanza che si mette a spiegare il comunicato a chi vuole e a chi non vuole udirlo, finanche alla serva, «imperocchè egli obbedisce al precetto borghese di non esser familiare con i servitori, ma si rammenta anche di Molière». Prima della guerra, il giovane Lulù aveva i capelli biondi e portava abiti attillatissimi; allo scoppio delle ostilità si è trasformato in _boy-scout_ collettore della Croce Rossa, e quantunque abbia appena diciassette anni, chiede di marciare come volontario: quando la sua domanda è accettata, i capelli gli s'imbruniscono perchè tralascia di darsi l'acqua ossigenata: sebbene poi, nel vestirsi per andare a passar la visita, metta tali cure, aiutato dall'intera famiglia, che la casa Valadier sembra trasformata in un «camerino d'attore, dove non si bada a tirare il lucchetto nè ad accostar l'uscio prima di cambiar d'abito: la sola differenza fu che egli non adoperò nessuna polvere o piumino, e per comparire dinanzi ai giudici non si dipinse gli occhi. Aveva già sacrificato la chioma, talchè era tosato e del più bel nero...». La sua ammissione nell'esercito è concordemente festeggiata dai genitori e dalle sorelle, ma quando l'ospite si reca a salutare il nuovo soldato, lo trova singhiozzante sulle ginocchia del padre che tenta invano di confortarlo recitandogli con voce tremante un vecchio ritornello del Béranger, mentre tutti gli altri parenti sono in lagrime e tragicamente atteggiati. Egli ne concepisce un senso di sdegno, credendo che il giovane abbia ora paura e che anche la famiglia sia pentita di avergli accordato il suo consenso; ma la signora Valadier adduce la ragione di quell'angoscia — nobile ragione, sebbene spiegata col gesto e la voce di un personaggio del Corneille: «Lulù sperava d'esser destinato alla fronte, e lo mandano invece ad Albi....». Quella della partenza è una scena commovente, sebbene «l'avrei giudicata senza dubbio più commovente se non fosse stata una scena....». L'ottimo Valadier è addolorato nel veder partire il figliuolo, «ma si sarebbe sentito molto più infelice se gli avessero vietato di rappresentare la sua parte di padre nobile secondo il Diderot e di prendere in prestito al Greuze la truccatura del _ruolo_.... Egli pronunziò un discorsetto pieno di coraggio e di sensibilità. Le sue lagrime colarono. Noi non potemmo trattenere le nostre. Erano lagrime del secolo decimottavo. Ma quando la signora Valadier baciò il soldatino sulle due guance e gli disse: — Va', caro ragazzo mio — non so perchè quelle parole mi scossero molto più che l'allocuzione del papà. Non significavano tuttavia gran cosa, salvo che quella madre, un po' ridicola ma dolorosa, dava con tutto il cuore, e senza frasi, il figliuolo diletto alla Patria. Io trassi un singhiozzo da bambino. Il signor Valadier mi guardò con occhio severo, ma perchè aveva paura di fare altrettanto». II. Con quest'arte, con questo stile Abele Hermant narra di Emma Valadier. L'ospite, vedendo la giovanetta sempre pensierosa e triste, sospetta che abbia un secreto d'amore colpevole, ma non depone perciò l'idea, concepita fin dalle prime visite, di insidiarla; giudica anzi l'impresa tanto più facile se ella ha già avuto un amante. Ma quando si accinge a farle la sua brava dichiarazione, Emma gli butta le braccia al collo e scoppia in pianto, annunziando: «È morto!». Chi è morto?... «L'amico mio!...». Era un compagno di studii, un futuro compagno d'arte. La guerra lo prese dei primi. «Non avremmo certamente fatto nulla di male se la guerra non fosse scoppiata. Ma il sabato, appena vidi il manifesto della mobilitazione, corsi da lui. Aveva un alloggetto in via Bergère. Mi aprì: naturalmente non teneva servitori. Da principio m'abbracciò e disse: — Vinceremo!... Gli risposi: — Oh, sì, cerio! E poi soggiunse: — Emma, potrà ben darsi che non tornerò più.... Allora gli risposi: — Fa' di me ciò che vuoi....» Bisogna leggere nel testo tutta la pagina. A un tratto l'uscio si schiude «e il signor Valadier fece una brusca entrata, seguito dalla signora Valadier che lo tratteneva. Lo tratteneva almeno nella stanza attigua, ma dovette poi liberarlo sul passo dell'uscio, che è stretto; e una volta l'uscio passato, lo riagguantò per la falda della giacchetta. Non essendo armato, il signor Valadier non uccise nessuno e si contentò di fare un gesto di maledizione; poi s'inabissò nella poltrona che Emma gli aveva istintivamente ceduta, e si nascose il viso tra le mani. Io ero ben contento che la scena non volgesse al tragico, ma non potevo difendermi dal mandare al diavolo quel valentuomo che si disponeva a rammentarmi la _Dionigia_ proprio nel momento in cui provavo la più sincera commozione ed ero a cento miglia dal teatro. Fortunatamente il repertorio del signor Valadier è diverso, ed egli sentì, al pari di me, come il Diderot fosse più di stagione che non Dumas figlio. Alzò lentamente la fronte ingombra. Il suo viso passò, per insensibili gradazioni, dall'espressione di una collera santa a quella della clemenza di Augusto. Il suo sguardo si rischiarò e divenne d'un'infinita dolcezza. Spalancò le braccia, Emma vi si precipitò, egli le richiuse intorno a lei, e non si udì altro, nella modesta cameretta dove il crepuscolo già discendeva, che un suono misericordioso di singhiozzi e di baci». Questo è il secreto di Abele Hermant: una indovinatissima mescolanza di comico e di drammatico, la riproduzione integrale degli aspetti ridicoli e patetici dell'esistenza, con l'aggiunta di un commento che è, secondo i casi, e talvolta ad un tempo, umoristico e serio. Il professore Valadier, parlando ora come Socrate ed ora come il _Bonhomme Jadis_, è un gran brav'uomo, un padre eccellente, un cittadino esemplare. Egli procedeva all'esame delle poche righe dei comunicati come un epigrafista studia le iscrizioni, come un insegnante di lettere pesa tutte le parole d'un vecchio testo venerabile. Mai una pagina di Virgilio, di Racine o di Bossuet fu sottoposta a simili prove. Arrivava sino a tentare certi spostamenti della punteggiatura che modificavano il senso della frase, o che gliene davano uno quando per caso non ne aveva. Si permetteva di tanto in tanto qualche appunto di natura grammaticale, ma non trovava da ridire circa lo stile; perchè, come lutti i buoni Francesi, approvava senz'altro quanto emana dal Governo.....» Dopo tante notizie angosciose, dopo tante speranze e tante delusioni, la lettura del bollettino che annunzia la battaglia della Marna gli procura uno scoppio di pianto. «Credo», dice, dopo avere abbracciato l'ospite, che sia una vittoria.... Lo disse a voce molto sommessa, come se avesse vergogna o paura della gran parola che proferiva. Io chinai il capo. Ero in preda anch'io ad un bizzarro sentimento di paura o di vergogna che non sapevo spiegare a me stesso. Credo bene che singhiozzassi anch'io. Non mi rammento....» Ed alla proposta di comperare una bottiglia di _champagne_ per festeggiare l'avvenimento, Emma Valadier esclama candidamente: — Oh, no! Oggi non ne vale la pena, poichè è una vittoria vera». Luciano Valadier, «il povero istrioncello fatuo e ridicolo», diventa un altr'uomo per virtù della guerra. Quando l'ospite apprende che lo hanno trasportato dal campo all'ambulanza, che è stato operato, che si tratta di cosa non lieve, corre a trovarlo. « — Dove sei ferito?... — Egli alzò le spalle, poi voltò la faccia contro il muro, e vidi e udii che singhiozzava. Ne fui spaventato. Lo supplicai di non lasciarmi più a lungo in quell'ansia mortale. Egli rivoltò il viso dalla mia parte e disse con tono furibondo: — Non sono ferito, m'hanno operato d'appendicite otto giorni addietro; non mi sono sentito di scriverlo alla mamma.... — Sciocco! — esclamai. Egli scoppiò di nuovo in singulti, ed io non potei frenare una risata. — Via! gli dissi; non è cosa che disonori! Perchè piangi?... — Egli rispose, interrottamente: — Non capisci.... non capisci che ne ho ancora per una quindicina di giorni.... e che poi.... poi vogliono darmi una licenza di due mesi.... Due mesi e quindici giorni!... Allora.... di qui ad allora la guerra sarà finita!... — Ma no, piccino mio, che la guerra non sarà finita di qui a due mesi!... — Mi afferrò allora per il collo e si mise a piangere sulla mia spalla. Ripeteva continuamente: — Mi giuri?... Giuralo!... Giurami che non sarà finita!... — Gli giurai che la guerra non sarebbe finita tra due mesi, lo cullai come un bambino e lo guardai con ammirazione. Non ridevo più....» Con una mano altrettanto leggera, ma non meno sicura, è sfiorato l'argomento della fede. Il professore Valadier, «anticlericale della più bell'acqua, nei suoi verdi anni, obbedì alla velleità di credere in sull'inizio delle ostilità; ma ora non crede più, col pretesto che la guerra dura troppo e che per conseguenza il buon Dio non c'è; inoltre, la neutralità della Santa Sede lo sdegna, ed ecco insemina un convertito la cui conversione non è durata sei mesi». Ma quantunque appartenga ad una generazione di uomini «che sono nemici personali del miracolo», egli esclama: «Fu miracolo!» quando considera come Parigi restò salva dell'invasione teutonica.... Suo figlio, come tutti i soldati, non parla del futuro senza avvertire: «Se Dio mi dà vita», e l'osservatore commenta finissimamente: «Coloro che vanno a battersi diventano volentieri superstiziosi; sarebbe un torto rimproverar loro questa debolezza, mentre è tollerata nei giocatori....», e quando Emma, avendo potuto vedere un'ultima volta il suo diletto, esclama, all'opposto del padre: «C'è pure il buon Dio» e quando il signor Valadier spera nell'intercessione della Vergine per la salvezza del figlio, l'umorista non commenta più. III. Resterebbe ora da narrare la conoscenza fatta da Emma all'ospedale, dove si reca ogni giorno per visitare i soldati in atto di pietoso omaggio alla memoria del suo caro perduto; l'idillio che pare s'intessa in quella casa del dolore e della speranza; e come poi la giovane, che è vedova senza aver cessato d'essere signorina, e che mette al mondo un bambino quasi senz'essere stata donna, elegga di restar vedova e madre venerando le reliquie del suo diletto. Resterebbe ancora da spigolare fra tanti gustosi episodii, fra tanti squisiti particolari d'osservazione e d'espressione; ma riesce propriamente impossibile seguire qui la tenue trama del romanzo e molto difficile rendere in un'altra lingua il sapore delle sue pagine. Questo libro veramente francese, dove è dipinta dal vero una famiglia della piccola borghesia parigina, possiede tuttavia un valore rappresentativo molto maggiore che non sembri. Il genere umano è in massima parte composto di tante famiglie Valadier, con le loro smanie, le loro manìe, le loro vanità, le loro stesse volgarità; ma questa piccola gente, all'occasione, dimostra d'esser pure una gran brava gente e riscatta le debolezze con l'eroismo, e le ridicolaggini con la bontà, la generosità, la gentilezza. Per questa ragione l'ironia del romanziere non è caustica, come suole. L'umorismo, in fondo, lascia un senso d'amaro e un sentimento di sfiducia: ma Abele Hermant, il quale confessa d'aver perduto per proprio conto, questa volta, il suo scetticismo, contribuisce a combatterlo negli altri con lo spettacolo di virtù non studiate, senza paludamento, anzi semplici ed umili. Dove la rappresentazione di qualità sovrumane rischierebbe di non esser creduta, dove gli effetti convenzionali lascerebbero freddo il lettore, i casi e le parole di questi personaggi veri e sinceri lo interessano e lo commuovono. Appunto perchè non ha tesi, la _Famiglia Valadier_ acquista tanta efficacia quanta corrono pericolo di perderne i romanzi composti secondo le ricette della «psicologia classica e ufficiale», quella psicologia della quale Abele Hermant ha ragione di dire che non ha niente da vedere con la realtà. _22 decembre 1915._ Paesaggi di pace e paesaggi di guerra. Tra i Francesi amici nostri, Gabriele Faure ha da tempo un posto eminente: la maggiore e miglior parte della sua produzione letteraria è consacrata — l'espressione religiosa non sembri impropria — all'Italia. I tre volumi delle Heures d'Italie, oltre quello delle _Heures d'Ombrie, e gli altri quattro sul Pays de St. François d'Assise, sulla Via Emilia, sulla Route des Dolomites_ e _Autour des lacs italiens_, sono i documenti della passione con la quale egli ha studiato il nostro paese: passione, e non semplice curiosità, o diligenza, o interesse, o dottrina: passione vera e profonda, tenace e fervido e nostalgico amore. Uno degli stessi suoi romanzi, l'_Amour sous les lauriers-roses_, si svolge in Italia, sul lago di Como, e il paesaggio italiano è il galeotto che sospinge gli occhi a Maddalena Frémeuse ed a Renato Seillon, che scolora i loro visi ed unisce le loro bocche.... Stendhal, altro italiano d'elezione, disse che un paesaggio è uno stato d'animo; il Faure, stendhaliano nel sangue, va un poco oltre: il paesaggio è per lui quasi un personaggio: sente, vive, parla, suggerisce, persuade. _Paysages passionnés_, appunto, intitolò l'autore una specie di antologia di pagine descrittive dove i luoghi non sono tanto rappresentati come apparenza, quanto interpretati come espressione. Ed oggi egli pubblica un volume di _Paysages littéraires_ meritevolissimo di essere raccomandato ai nostri lettori, non foss'altro perchè una buona metà dei capitoli concerne l'Italia. I. È curioso scoprire, per esempio, le stranezze e le contraddizioni dei giudizii dati intorno ai più singolari aspetti del nostro paese da un luminare della letteratura paesista, sceso ben sei volte nella Penisola: il visconte di Chateaubriand. Cominciamo col notare che nel _Genio del Cristianesimo_ le pagine concernenti l'Italia e gli artisti italiani furono composte di maniera, prima che l'autore passasse le Alpi; quando le valica, nel 1803, resta deluso perchè non trova la pianura appena scavalcato il Moncenisio; giudica bello l'effetto dei dintorni di Torino, ma «ci si sente ancora la Gallia: credevo di trovarmi in Normandia»; la metropoli piemontese è «d'aspetto un poco triste»; i campi lombardi gli piacciono, ma non il Duomo di Milano, perchè «il gotico, e lo stesso marmo, mi sembrano stonare col sole e con i costumi italiani»; arrivando a Napoli, non è impressionato dal paesaggio, «fertile, ma poco pittoresco»; i luoghi virgiliani gli offrono uno spettacolo «magico» bensì, ma non «grandioso». Dal Vesuvio contempla «uno dei più bei paesaggi del mondo»; ma il grandioso, l'imponente, l'affascinante è da lui trovato, finalmente, a Roma. «Ci sono, finalmente! Tutta la mia freddezza è svanita. Sono accasciato, perseguitato da ciò che ho visto....» Tanta è stata la sua freddezza, che certi passi del _Voyage en Italie_ sono più aridi delle indicazioni d'una guida e d'un catalogo; ma a Roma, e dinanzi alla campagna romana segnatamente, il poeta della solitudine e delle rovine prova un'impressione profonda: profonda a segno, che dopo averla espressa nella lettera del 10 gennaio 1804 al Fontanes, egli quasi s'ingelosisce quando altri dopo di lui osa ancora descrivere quei luoghi, dei quali si stima senz'altro scopritore: «i viaggiatori francesi ed inglesi venuti dopo di me hanno segnato ogni loro passo dalla Storta a Roma con altrettante estasi: il signor di Tournon segue la traccia d'ammirazione che io ho avuto la fortuna d'indicare». Ed a Roma vorrebbe morire: «Se avrò la ventura di finire qui i miei giorni, ho fatto in modo da avere a Sant'Onofrio un cantuccio adiacente alla camera dove il Tasso spirò. Nei momenti perduti della mia ambasceria, alla finestra della mia cella, continuerò le mie _Memorie_. In uno dei più bei siti del mondo, fra gli aranci e le querce, con Roma intera sotto gli occhi, ogni mattina, mettendomi all'opera fra il letto di morte e la tomba del poeta, invocherò il genio della gloria e della sventura....» Non potendo appagare questo voto, tornato in Francia e ripartitone per l'esilio del 1832, egli scende in Isvizzera e si ferma alle porte d'Italia, a Lugano, dove ancora una volta prova la tentazione di fermarsi e morire. «Finirò dunque le mie _Memorie_ sulla soglia di questa classica e storica terra dove Virgilio e il Tasso cantarono, dove tante rivoluzioni si compirono? Rimembrerò il mio destino di Bretone dinanzi allo spettacolo di queste montagne ausonie? Se il loro velario si alzasse, mi scoprirebbe le pianure lombarde; di là, Roma; di là, Napoli, la Sicilia, la Grecia, la Siria, l'Egitto, Cartagine; plaghe remote che misurai, io che non posseggo tanto di terra quanta ne premo con la pianta del piede....» Ma l'incredibile è che questo romantico errante, questo ricercatore e amatore di luoghi insigni per natura o storia od arte, arrivato nel 1806 a Venezia, donde salperà verso l'Oriente, non solamente resta freddo dinanzi a quella meraviglia del mondo, ma sente il bisogno di dichiarare nella lettera al Bertin: «Questa Venezia, se non m'inganno, vi dispiacerebbe quanto a me. È una città _contro natura_....», soggiungendo prove talmente puerili del suo giudizio, da sollevare giustamente lo sdegno dei Veneziani: articoli di gazzette ed appositi opuscoli daranno sulla voce al temerario, e qualcuno dichiarerà di non sapere se prendersela più con la sua «cattiveria» o con la sua «stupidità». È vero che ventisette anni dopo, nel 1833, egli si ricrede o scioglie un inno alla città delle lagune: «Si può, a Venezia, credersi sul ponte d'una superba galera all'àncora, sul Bucintoro, dove vi diano una festa e dal cui bordo scopriate mirabili cose....»; è vero che egli riesprime il desiderio di vivere e morire anche qui: «Perchè non posso chiudermi in questa città in armonia col mio destino, in questa città dei poeti, dove Dante, Petrarca e Byron passarono?...» ma il Faure nota argutamente come l'improvviso infatuamento dopo il disprezzo fosse determinato dalla voga data a Venezia dai nuovi scrittori stranieri, dal Byron precisamente. Si potrebbe, dunque, trovare qui una prova di ciò che non era per altro ignoto: della poca sincerità dello scrittore. Il presuntuoso stimatosi quasi inventore della poesia della campagna romana, si mette ad ammirare la già denigrata Venezia per amore di byroneggiare!... Ma c'è, sotto un altro aspetto, anche di peggio. Egli si lagna perchè nel 1833 non ritrova le rive del Brenta quali erano la prima volta che le percorse: «L'Austria è venuta: essa ha rimesso la sua cappa di piombo sugl'Italiani e li ha costretti a ridiscendere nel loro sepolcro»: osservazione amarissimamente vera, che ha il solo difettuccio di esser fatta da uno dei più illustri tirapiedi della Santa Alleanza, dal congressista di Verona, dal turiferario della «miracolosa» Coalizione e della diplomazia del 1814, del '15 e del '22 che «fondò nell'avvenire i diritti dei sovrani e dei popoli, e la sicurezza e la libertà dell'Europa!». Il Faure non fa critica storica, nel suo bel libro, e neanche semplicemente letteraria; tuttavia egli non tralascia di rilevare quel tanto di falsità che c'è in qualche pagina italiana di Giorgio Sand. La celebre scrittrice, l'amatrice famosa ha piantato a Venezia il povero Alfredo infermo e se n'è andata col suo Pagello a Bassano: la passeggiata di due giorni nei dintorni della città veneta diventa una «spedizione» nel cuore delle Alpi; la novelliera dichiara d'essersi «scorticate le mani e le ginocchia», per attingere le estreme «solitudini» e l'«ultima vetta»; soggiunge ancora d'essersi creduta in America, negli «eterni deserti che l'uomo non ha potuto ancora conquistare sulla natura selvaggia....». Con lo stesso spirito di verità lo Chateaubriand l'aveva gabellato per un viaggio di scoperta nei deserti dell'America settentrionale quello che un critico, «spietato» secondo il Faure, ridusse alle modeste proporzioni di un'escursione al Canadà.... II. «Spietata» veramente suole riuscire la critica quando si attenta di scemare o distruggere il fascino esercitato dai grandi scrittori; ma è colpa della critica se i grandi scrittori, e le grandi scrittrici, non hanno tutti una grande anima? Per buona sorte, Gabriele Faure non va incontro a delusioni quando sceglie altri soggetti, più nobili e puri. Giustamente persuaso che non è possibile evocare i genii se non nel quadro che fu loro familiare, egli ascende in reverente pellegrinaggio il poggio di Arquà, entra nella casa del Petrarca, volge lo sguardo alle colline ed alla pianura che furono l'ultima visione del cantore di Laura; scende poi, o per meglio dire ritorna nella verde Umbria e si ferma a contemplare il paesaggio francescano di Clara Scifi, la madre delle clarisse. Immagini singolarmente espressive egli trova anche per rivelare l'anima dei luoghi lamartiniani e stendhaliani, ma il suo più grande fervore è serbato all'Italia: «Italia, Italia», ripete col Byron, «tu fosti e sei sempre il giardino del mondo, la patria della Bellezza nell'arte e nella natura!...». Un appunto, tuttavia, gli si potrebbe, o per dir meglio gli si poteva muovere fino a poco tempo addietro; perchè la sua visione del nostro paese è, talvolta, un poco quella della tradizione: una specie di «giardino di Armida» — giudica il protagonista dell'_Amore sotto gli oleandri_ — un luogo, per conseguenza, dove non si fa altro che godere ed obliare. Sul lago di Como, nel bacino della Tremezzina, a Bellagio, «tutto è voluttuoso, tutto parla ai sensi, tra gente unicamente intenta all'amore ed al piacere»; a segno, che quando Lucilla ne fugge e prende una barca per guadagnare l'opposta riva, il barcaiuolo la guarda «con aria maliziosa» e le domanda: «_Une histoire d'amour, n'est-ce pas, signora?_....». Si potrebbe — si poteva — chiedere al Faure il ritratto di cotesto barcaiuolo, se lo stesso autore non avesse ora scritto altri due libri: i _Paysages de guerre de France et d'Italie_, e _De l'autre côté des Alpes: sur le front italien_, dove «quei Francesi che troppo spesso parlano un poco leggermente dell'Italia» possono apprendere che questo paese del «languore dei sensi» è anche il paese dei forti propositi, dei magnanimi ardimenti, dell'indomito coraggio e dell'eroismo sublime. Nelle sue visite per le città e le campagne della zona di guerra, il Faure non può dimenticare d'essere artista; ma il cittadino della nazione alleata, l'ammiratore dello sforzo italiano pensa al passato bellicoso di Brescia dinanzi alla sua _Vittoria_ e vi trova una promessa ed un simbolo; ricorda gli studii fatti sulla scuola di pittura a Bassano, ma esalta la virtù guerresca della città; giudica che i palazzi merlati non sembrano più, come un tempo, fuori posto nella Treviso cui gli apparecchi di guerra hanno oggi conferito un nuovo aspetto di forza; ammira le pittoresche vedute delle Alpi carniche, ma anche più gli «splendidi» alpini che ne custodiscono i passi, ed il «miracolo» del nostro organamento militare; chiede anche a sè stesso, rileggendo il Carducci, quali parole il poeta di _Ça ira_ troverebbe per cantare la Marna e Verdun, «in quella stessa regione dell'Argonna e della Mosa che tanto giustamente chiama Termopili della Francia». «Se egli vivesse ancora», soggiunge, «noi ci volgeremmo a lui, vegliardo divino, come egli si volgeva a Vittor Hugo, e gli chiederemmo di cantare anche alle nuove generazioni il canto secolare del popolo latino: Canta a la nuova prole, o vegliardo divino, Il carme secolare del popolo latino; Canta al mondo aspettante Giustizia e Libertà...». INDICE. AVVERTIMENTO Pag. VII Vigilia italica 1 Una Absburgo in Italia: Maria Carolina di Napoli 15 L'Austria nei giudizii d'un suo alleato 30 Un condottiero francese a Napoli 42 L'Adriatico e le Due Sicilie a Campoformio 56 Italia e Grecia nelle lettere di Giorgio Byron 70 Il Protocollo della “Giovine Italia„ 85 Maestri di guerra: I. Il principe di Ligne 99 II. Lazzaro Carnot 112 Gli enimmi di Waterloo 127 Thiers, Bismarck e la guerra 143 Un profeta del pangermanesimo: Edgardo Quinet 158 L'Imperatore liberale: Federico III 173 La battaglia della Marna 186 Romanzi di guerra: I. Il senso della morte 109 II. La famiglia Valadier 212 Paesaggi di pace e paesaggi di guerra 226 OPERE DI FEDERICO DE ROBERTO (Edizioni Treves). _Le donne, i cavalier'...._ Edizione di lusso, in-8, illustrata da 100 incisioni L. 7 50 _Una pagina della storia dell'amore_ 2 — _L'illusione_, romanzo. Nuova edizione 2 — _La sorte_, novelle. 4.º migliaio 2 — _La messa di nozze_, romanzo. 2.º migliaio 3 50 _L'albero della scienza_, novelle. Nuova edizione 3 — _Al rombo del cannone_. 2.º migliaio 4 — _Leopardi_ 3 — Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of Project Gutenberg's Al rombo del cannone, by Federico De Roberto *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 48206 ***